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I rifiuti: normativa e disciplina: come comportarsi? Avv. Phd Roberto Pusceddu

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I rifiuti:

normativa e disciplina: come comportarsi?

Avv. Phd Roberto Pusceddu

Rifiuti

Nel corso della XVI legislatura, la normativa in materia di rifiuti è stata più volte modificata dapprima a seguito dell’approvazione di un intervento correttivo di ampia portata, che ha modificato il D.lgs. 152/2006 (cd. Codice ambientale), in attuazione della normativa europea, e successivamente attraverso una serie di norme che hanno inciso su diversi profili della materia e segnatamente sull’affidamento e sulla gestione del servizio, sulla tassazione, sui profili sanzionatori, nonché più in generale sulla gestione dei rifiuti medesimi.

La normativa concernente la gestione dei rifiuti è contenuta nella parte quarta del D.lgs. 152/2006 (cd. Codice ambientale) ed è stata sostanzialmente modificata nel corso della legislatura a seguito del recepimento delle direttive europee in tale ambito. Ulteriori modifiche incidenti in maniera talvolta frammentaria su diversi profili della normativa sono state approvate nel corso della legislatura. Talune modifiche si sono rese necessarie al fine di un corretto recepimento della normativa europea anche al fine di evitare procedure di infrazione.

Una disciplina ad hoc è stata adottata per la gestione delle emergenze rifiuti in Campania e in altre regioni (Lazio, Sicilia) per le quali si rinvia al tema Emergenze ambientali .

Il recepimento della direttiva 2008/98/CE

Il d.lgs. 205/2010 ha recepito nell’ordinamento interno la direttiva quadro sui rifiuti (direttiva 2008/98/CE), che ha profondamente innovato la disciplina europea in tale ambito. Il decreto è intervenuto, pertanto, con modifiche significative sulla parte IV del Codice ambientale, che è stata parzialmente riscritta. Le innovazioni hanno riguardato in primo luogo le definizioni sulla base delle quali si fonda l’impianto applicativo della nuova disciplina, e precisamente:

– la definizione di sottoprodotto (già prevista dall’ordinamento nazionale), che è stata resa più aderente al disposto europeo attraverso l’introduzione di criteri per la sua qualificazione, atteso che tale tipologia non comprende rifiuti ma sostanze o oggetti che devono soddisfare determinate condizioni per il loro utilizzo (art. 184-bis del Codice);

– la definizione di ua procedura per la cessazione della qualifica di rifiuto (cd. end of waste) di cui all’art. 184-ter del Codice;

– la riformulazione della gerarchia dei rifiuti, con un ordine di priorità che prevede: la prevenzione, cioè misure che riducono la quantità di rifiuti anche attraverso il riutilizzo dei prodotti o l’estensione del loro ciclo di vita; la preparazione per il riutilizzo, ovvero le operazioni di controllo, pulizia e riparazione attraverso cui i prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro pretrattamento; il riciclaggio, il recupero (ad esempio di energia, quando cioè i rifiuti svolgono un ruolo utile sostituendo altri materiali) e lo smaltimento.

Si prevede, inoltre, l’adozione, da parte del Ministero dell’ambiente, di un Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti e delle indicazioni per l’integrazione di Programma nei piani regionali di gestione dei rifiuti, il cui termine per l’elaborazione da parte del Ministero dell’ambiente è stato anticipato al 31 dicembre 2012 dall’art. 1, comma 3-bis, lett. a), del D.L. 2/2012.

Sempre nell’ottica di perseguire le priorità della gerarchia dei rifiuti si prevede l’adozione di misure per la promozione del riutilizzo dei prodotti e della preparazione per il riutilizzo dei rifiuti, anche attraverso l’introduzione della responsabilità estesa del produttore.

Sono stati introdotti precisi obiettivi quantitativi (in termini di peso) relativi alla preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio/recupero di rifiuti, da raggiungere entro il 2020, che si aggiungono agli obiettivi per la raccolta differenziata dei rifiuti urbani

Di rilevante importanza anche la previsione in base alla quale lo smaltimento dei rifiuti e il recupero dei rifiuti urbani non differenziati sono attuati con il ricorso ad una rete integrata ed adeguata di impianti, che garantisca i principi di autosufficienza e prossimità.

In coerenza con il disposto della direttiva che indica le misure da adottare per una corretta gestione dei rifiuti organici, si prevede che gli enti territoriali adottino misure volte ad incoraggiare la raccolta separata di tale tipologia di rifiuti.

L’affidamento e la gestione del servizio

La gestione del servizio dei rifiuti, che si basa su una suddivisione dei compiti tra i diversi livelli, di governo, ha fatto registrare una situazione non omogenea sul territorio nazionale, talvolta con significative differenze tra le singole regioni. In tale contesto, al fine di perseguire il contenimento delle spese degli enti locali nonché la semplificazione del sistema, è stata prevista la soppressione delle Autorità d’ambito territoriale alle quali era demandata, nel rispetto del principio di coordinamento con le competenze delle altre amministrazioni pubbliche, l’organizzazione, l’affidamento e il controllo del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani. Nel ricordare che già la legge finanziaria per il 2008 (art. 2, comma 38, della L. 24 dicembre 2007, n. 244) aveva previsto una rideterminazione degli ambiti territoriali che era rimasta inattuata, si segnala che l’art. 1, comma 1-quinquies, del D.L. 2/2010, oltre a prevedere la soppressione delle autorità d’ambito, ha nel contempo disposto il trasferimento delle funzioni, nonché la loro attribuzione da parte delle regioni con proprie leggi (il termine per la soppressione è stato differito in alcuni provvedimenti e, da ultimo, è stato prorogato al 31 dicembre 2012 dall’art. 13, comma 2, del D.L. 216/2011).

Sul complesso quadro della governance dei rifiuti ha inciso inoltre la vicenda dei servizi pubblici locali e della normativa che è stata adottata prima e dopo il referendum del 12 e del 13 giugno 2011. Da ultimo, l’art. 3-bis del D.L. 138/2011, introdotto dall’art. 25 del D.L. 1 del 2012, ha disciplinato gli ambiti territoriali e i criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali, ivi inclusi quelli del settore dei rifiuti, come esplicitato nell’art. 34, comma 23, del D.L. 179/2012 che ha modificato il medesimo art. 3-bis.

Per quanto riguarda l’affidamento del servizio di gestione integrata dei rifiuti, si segnala, inoltre, che il D.L. 1/2012, all’art. 25, comma 4, ha previsto la possibilità di affidamento disgiunto di gestione degli impianti ed erogazione del servizio. Nel caso in cui gli impianti siano di titolarità di soggetti diversi dagli enti locali di riferimento, all’affidatario del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani devono essere garantiti l’accesso agli impianti a tariffe regolate e predeterminate e la disponibilità delle potenzialità e capacità necessarie a soddisfare le esigenze di conferimento indicate nel piano d’ambito.

L’art. 26 del citato decreto n. 1 del 2012 ha, inoltre, modificato la disciplina dei sistemi di gestione autonoma (alternativi all’adesione ai consorzi obbligatori “di filiera”) in cui si prevede, tra l’altro, che l’organizzazione autonoma della gestione dei rifiuti di imballaggio sull’intero territorio nazionale – da parte dei produttori – possa avvenire anche in forma collettiva.

Per quanto concerne la tassazione del servizio, l’art. 14 delD.L. 201/2011 (da ultimo novellato dall’art. 1-bis del D.L. 1/2013) ha istituito, a decorrere dal 1° gennaio 2013, il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, a copertura dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento. In proposito, si rinvia alla scheda di approfondimento Il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES).

La tracciabilità dei rifiuti

Il D.Lgs. 152/2006 ha codificato un sistema informatico di tracciabilità dell’intera filiera dei rifiuti (SISTRI) finalizzato alla trasmissione e alla raccolta di informazioni su produzione, trasporto e smaltimento dei rifiuti, nonché alla predisposizione in formato elettronico di alcuni documenti tra i quali i registri di carico e scarico.

A motivo di alcuni problemi registrati nella fase di avvio del sistema, la data per la sua entrata in operatività è stata più volte modificata (ad esempio dall’art. 6, commi 2, 3 e 3-bis, del D.L. 138/2011 e dall’art. 13, commi 3 e 3-bis, del D.L. 216/2011).

Da ultimo, il D.L. 83/2012 (art. 52, commi 1 e 2) ha sospeso fino al compimento delle ulteriori verifiche amministrative e funzionali del SISTRI, e comunque non oltre il 30 giugno 2013, il termine di entrata in operatività, ogni adempimento informatico relativo, nonché il pagamento dei contributi dovuti dagli utenti per l’anno 2012.

Il Parlamento ha posto una particolare attenzione alle tematiche connesse all’operatività del sistema informatico di controllo della tracciabilità dei rifiuti attraverso lo svolgimento di attività conoscitive, di indirizzo e di controllo. La Commissione ambiente della Camera ha, inoltre, esaminato alcune proposte di legge (A.C. 3885 e A.C. 3989) in tale ambito che non sono state definitivamente approvate.

Le innovazioni normative relative al SISTRI approvate dopo l’adozione del D.Lgs. 205/2010 non hanno interessato solo l’entrata in operatività, ma anche il regime delle sanzioni applicabile che è stato modificato dal D.Lgs. 121/2011, che ha attuato la direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente.

Per una descrizione più approfondita della normativa riguardante il Sistri, si rinvia alla scheda di approfondimento Tracciabilità dei rifiuti (SISTRI).

Particolari tipi di rifiuti e imballaggi

Specifiche disposizioni hanno riguardato particolari tipi di rifiuti tra i quali i rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, i cosiddetti RAEE, relativamente alla definizione di “produttore”, al sistema di finanziamento, alle modalità semplificate di gestione e alla semplificazione in materia di oneri informativi (art. 7 del D.L. 208/2008art. 5 del D.L. 135/2009art. 21 della L. 96/2010D.M. 8 marzo 2010, n. 65art. 1, comma 2-bis, del D.L. 1/2013).

E’ stata ridisciplinata la procedura per la determinazione del contributo ambientale per il recupero di pneumatici fuori uso (art. 24, comma 1, lett. f, del D.L. 5/2012), mentre sono state integrate le modalitàdi consegna, da parte delle imprese di autoriparazione, dei pezzi usati allo stato di rifiuto derivanti dalle riparazioni dei veicoli (art. 43 della L. 96/2010).

In attuazione della disciplina europea, inoltre, il D. Lgs. 188/2008, successivamente novellato dal D.Lgs. 21/2011, ha dettato, per un verso, le norme in materia di immissione sul mercato delle pile e degli accumulatori e, per l’altro, le norme specifiche per la raccolta, il trattamento, il riciclaggio e lo smaltimento dei rifiuti di pile e accumulatori, destinate a promuovere un elevato livello di raccolta e di riciclaggio di tali materiali.

Per quanto concerne specifiche categorie di imballaggi, l’art. 2 del D.L. 2/2012 ha previsto la proroga del termine relativo al divieto definitivo di commercializzazione dei sacchi per l’asporto merci non biodegradabili (cd. shopper), limitatamente alla commercializzazione di alcune tipologie di sacchi indicati dalla norma, fino all’emanazione – entro il 31 dicembre 2012 – di un decreto interministeriale di natura non regolamentare, che è stato trasmesso alle competenti Commissioni parlamentari della Camera e del Senato (atto del Governo 542), che hanno espresso il parere rispettivamente nelle sedute dell’11 febbraio e del 5 febbraio 2013. Il comma 4 dell’art. 2 del D.L. 2/2012 ha introdotto sanzioni amministrative pecuniarie, nelle ipotesi di inosservanza del divieto di commercializazione di sacchi non conformi a quanto prescritto dal medesimo articolo 2, che saranno applicabili solo a decorrere dal sessantesimo giorno dall’emanazione del predetto decreto interministeriale (secondo quanto stabilito dall’ art. 34, comma 30, del D.L. 179/2012).

Ulteriori modifiche alla disciplina sulla gestione dei rifiuti

Ulteriori modifiche alla disciplina sulla gestione dei rifiuti sono state adottate in diversi decreti legge e incidono, talvolta in maniera frammentaria, su diversi aspetti della normativa. Tra queste modifiche si segnalano quelle volte a semplificare lo smaltimento dei rifiuti speciali prodotti da talune attività (art.40, comma 8, del D.L. 201/2011) e gli adempimenti per la movimentazione, il deposito temporaneo e il trasporto dei rifiuti da parte delle imprese agricole (art. 4-quinquies del. D.L. 171/2008; artt. 28 del D.L. 5/2012 e 52, comma 2-ter, del D.L. 83/2012). In materia di oli usati una disposizione transitoria consente alle operazioni di rigenerazione degli oli usati di derogare ai limiti vigenti, nel rispetto della normativa europea (art. 24, comma 1, lett. e, del D.L. 5/2012).

Di particolare importanza anche la modifica all’Allegato IV del Codice relativamente alla definizione delle caratteristiche di pericolosità dei rifiuti (art. 3, comma 6, del D.L. 2/2012).

Il D.L. 16/2012 è intervenuto in tema di rifiuti posti in sequestro presso aree portuali e aeroportuali, prevedendone, dopo il trattamento da parte dei corrispondenti consorzi obbligatori, la vendita da parte di un curatore nominato dall’autorità giudiziaria, con la destinazione del ricavato, al netto delle spese, al Fondo unico giustizia e a specifici programmi di riqualificazione ambientale (art. 9, commi 3-septies e 3-octies).

La materia dei rifiuti è stata interessata anche da proroghe, alcune delle quali sono state reiterate di anno in anno. La più recente proroga è stata disposta dall’art. 1, comma 2, del D.L. 1/2013, che ha ulteriormente differito al 31 dicembre 2013 il temine di entrata in vigore del divieto di smaltimento in discarica dei rifiuti (urbani e speciali) con potere calorifico inferiore (PCI) superiore a 13.000 kJ/Kg.

Da ultimo, le Commissioni parlamentari di Camera e Senato hanno esaminato uno schema di regolamento sull’utilizzo di combustibili solidi secondari (CSS), in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, in cementifici soggetti al regime dell’autorizzazione integrata ambientale (atto del Governo 529) esprimendo rispettivamente il parere nelle sedute dell’11 febbraio 2013 e del 16 gennaio 2013.

Il Parlamento ha discusso in più occasioni delle tematiche relative alla gestione dei rifiuti anche attraverso l’esame di proposte di legge, il cui iter non si è concluso nel corso della legislatura; in proposito, si segnala che una proposta di legge di iniziativa parlamentare (3162-B), approvata in sede legislativa dalla Commissione ambiente della Camera, comprendeva una serie di modifiche alla disciplina in materia di rifiuti, alcune delle quali erano state anche inserite nel corso dell’esame parlamentare del D.L. 2/2012, ma non definitivamente approvate.

Le Commissioni parlamentari hanno svolto un’intensa attività conoscitiva finalizzata ad acquisire elementi di informazione in materia di rifiuti. La Commissione ambiente del Senato ha svolto un’indagine conoscitiva sulle problematiche relative alla produzione e alla gestione dei rifiuti, con particolare riferimento ai costi posti a carico dei cittadini, alla tracciabilità, al compostaggio, alla raccolta differenziata ed alla effettiva destinazione al recupero ed al riuso dei rifiuti o delle loro porzioni approvando un documento conclusivo nella seduta del 16 gennaio 2013.

Le limitazioni all’applicazione della disciplina sui rifiuti

Il D.Lgs. 152/2006 ha delineato una nuova disciplina per le terre e rocce da scavo finalizzata a consentirne il riutilizzo e a sottrarle alla normativa sui rifiuti, che era contenuta nell’art. 186 del D.Lgs. 152/2006, ora abrogato a seguito dell’entrata in vigore del D.M. 10 agosto 2012, n. 161.

Prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina sull’utilizzo delle terre e rocce da scavo, l’art. 3, commi 1-3, del D.L. 2/2012 ha dettato una specifica disciplina per le matrici materiali di riporto che la norma definisce come “materiali eterogenei utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati, non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, all’interno dei quali possono trovarsi materiali estranei”. La finalità della norma è l’esclusione, alle condizioni ivi previste, dall’applicazione della disciplina sui rifiuti. E’ stato previsto, infatti, che i riferimenti al “suolo” di cui all’articolo 185, comma 1, lettere b) e c), e 4 del D.Lgs. 152/2006 si interpretano come riferiti anche ai materiali di riporto. Il comma 3 ha precisato che, fino all’entrata in vigore del predetto regolamento sulle terre e rocce da scavo, le matrici materiali di riporto eventualmente presenti nel suolosono considerate sottoprodotti alle condizioni indicate nel Codice.

L’attribuzione della qualifica di sottoprodotti ad ulteriori categorie di sostanze o oggetti è stata discussa nel corso della legislatura anche in occasione dell’esame di proposte di legge, il cui iter non si è concluso nel corso della legislatura.

Tale qualifica è stata, infine, attribuita al digestato ottenuto in impianti aziendali o interaziendali dalla digestione anaerobica, eventualmente associata anche ad altri trattamenti di tipo fisico-meccanico, di effluenti di allevamento o residui di origine vegetale o residui delle trasformazioni o delle valorizzazioni delle produzioni vegetali effettuate dall’agro-industria, conferiti come sottoprodotti, anche se miscelati fra di loro, ed utilizzato ai fini agronomici (art. 52, comma 2-bis, del D.L. 83/2012).

L’esame degli atti europei

Il quadro europeo in materia di rifiuti è in forte evoluzione ed è soprattutto portatore di una nuova visione della politica in tale materia centrata su una nuova considerazione del rifiuto come “risorsa” nella prospettiva di un’economia basata sullo sviluppo sostenibile e sull’uso efficace ed efficiente delle risorse. In tale contesto, le competenti Commissioni parlamentari hanno partecipato attivamente alla formazione delle politiche europee attraverso l’esame di alcuni atti europei nel’ambito della cosiddetta “fase ascendente”.

Nella seduta del 22 giugno 2011, la Commissione ambiente della Camera ha approvato un documento con riguardo alla Relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni concernente la strategia tematica sulla prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti (COM(2011)13 def.), mentre è stato avviato nella seduta del 25 ottobre 2011 dalle Commissioni VIII e X della Camera l’esame della Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo al Consiglio, al Comitato Economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni: Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse (COM(2011)571 def.).

Sull’attuazione e sull’applicazione della vigente legislazione europea in materia di rifiuti pesano comunque alcune procedure di infrazione che rappresentano una quota significatica del complesso delle procedure avviate nella legislazione ambientale.

In considerazione della procedura di infrazione europea sulle discariche abusive, le Commissioni VIII (Ambiente) e XIV (Politiche dell’UE) della Camera hanno svolto un’audizione del Ministro dell’ambiente nella seduta del 21 novembre 2012.

 

Il certificato antipedofilia: a tutela dello sport e degli atleti Avv. PhD Roberto Pusceddu

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certificato antipedofilia
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Il certificato antipedofilia:
a tutela dello sport e degli atleti
Avv. PhD Roberto Pusceddu

Il certificato antipedofilia.

In base alla normativa comunitaria (direttiva 2011/93/UE), recepita nel nostro ordinamento dall’art. 2, d.lgs, 39/2014 (in attuazione della l. 96/2013 e in vigore dal 06/04/2014) che ha modificato l’art. 25-bis, d.p.r. 313/2002, al fine di individuare strumenti finalizzati alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, ciascun “datore di lavoro” deve verificare, al momento dell’assunzione di “personale”, l’eventuale esistenza di condanne per reati sessuali a danno di minori o di misure interdittive, iscritte al casellario giudiziario, qualora l’impiego del “lavoratore” comporti contatti diretti e regolari con minori.
Come devono essere considerati, ai fini di tale obbligo, i sodalizi sportivi dilettantistici e gli istruttori sportivi?
Dalla lettura della norma e della consolidata prassi in materia, sarebbero esclusi dall’obbligo i sodalizi sportivi dilettantistici nel caso di impiego di istruttori, tecnici, allenatori, ecc. con i quali non sia configurato un rapporto di lavoro autonomo o subordinato e che percepiscono compensi, per intenderci, ex art. 67, d.p.r. 917/1986, in quanto possono rientrare nel concetto di “volontariato” (confermato anche dal CONI con circolare del 04/04/14).

La tutela dei minori.

Tuttavia, in virtù di una ampia interpretazione della ratio della norma, a tutela dei minori, si potrebbe pensare di estendere tale obbligo anche ai sodalizi sportivi dilettantistici, indipendentemente dalla forma giuridica assunta, indipendentemente dal regime contabile e fiscale adottato, e anche per quelle fattispecie in cui non siano configurabili “rapporti di lavoro” in senso stretto, come nel caso degli incarichi di promozione sportiva conferiti agli istruttori.
Considerata la delicatezza della questione, trattandosi di materia piuttosto spinosa che occorre trattare con la dovuta attenzione, si suggerisce pertanto al gentile lettore di assolvere comunque all’obbligo della verifica presso il casellario giudiziario, nel caso in cui gli istruttori incaricati abbiano contatti regolari e diretti con minori.
La nuova qualificazione di “lavoratori” agli operatori in ambito sportivo che percepiscano compensi (tecnici, istruttori, allenatori, …) implica che torni applicabile nei confronti dei sodalizi sportivi che fanno attività con i minori, la cosiddetta “legge antipedofilia”
Ricordiamo che la normativa in oggetto è stata introdotta sulla base della normativa comunitaria (direttiva 2011/93/UE), recepita nel nostro ordinamento dall’art. 2, d.lgs, 39/2014 (in attuazione della l. 96/2013 e in vigore dal 06/04/2014) che ha modificato l’art. 25-bis, d.p.r. 313/2002, al fine di individuare strumenti finalizzati alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile.
Il presupposto della qualifica di “datore di lavoro” aveva escluso dall’applicazione della normativa in oggetto le a.s.d. e s.s.d. che si avvalevano di collaboratori che percepivano compensi inquadrati quali redditi diversi, ex art. 67, d.p.r. 917/1986.
Alla luce della riforma del lavoro sportivo e alla nuova qualifica di “datore di lavoro” assunta dai sodalizi sportivi, è necessario che le a.s.d. e s.s.d. applichino per la nuova stagione sportiva quanto previsto dalla norma.

Il certificato antipedofilia: modalità operative.

– l’obbligo sorge all’atto dell’instaurazione del rapporto, sia questo di natura subordinata, di collaborazione coordinata e continuativa, oltre che di lavoro autonomo con posizione IVA;
– il certificato non deve essere nuovamente richiesto ogni sei mesi, né una volta che sia scaduta la validità dello stesso;
– la modulistica da utilizzare per il rilascio è reperibile presso la competente Procura della Repubblica (v. fac simile allegato, che può essere anche scaricato a questo link);
– la richiesta può essere effettuata anche dal datore di lavoro (v. fac simile allegato, che può essere anche scaricato a questo link);
– il costo è relativo ai soli diritti; le a.s.d./s.s.d. sono esenti dall’imposta di bollo dall’articolo 27-bis della tabella allegata al d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 642 (“Atti, documenti, istanze, contratti, nonché copie … estratti, certificazioni, dichiarazioni e attestazioni poste in essere o richiesti…”).
Chi lo deve presentare? Dove si richiede? Quanto costa? Tutte le informazioni sul certificato che da oggi è necessario presentare se si lavora coi bambini
C’è una novità per chi lavora con bambini e ragazzi. È obbligatorio da oggi presentare il certificato antipedofilia dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo numero 39 del 2014 in vigore da domenica 6 aprile che segue una direttiva europea. Esente il mondo del volontariato.
Cosa certifica? Il certificato penale del casellario giudiziario attesta che la persona che lo presenta non è stata condannata per reati contro i minori, dunque pornografia minorile e virtuale, prostituzione minorile, adescamento e turismo sessuale.
I reati sono quelli identificati agli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies e 609-undecies del codice penale.
Chi lo deve presentare? Chi sta per ottenere un lavoro, con regolare contratto, che comporti il contatto con minori in modo diretto e abituale. Il datore di lavoro lo deve richiedere prima che sia stipulato il contratto. Per esempio insegnanti, istruttori sportivi.
Chi non è obbligato a presentarlo? Non lo devono presentare quanti lavorano come volontari per Onlus, parrocchie o anche associazioni sportive senza che ci sia una forma di lavoro subordinato e un contratto di lavoro. Cosa che limita molto il campo d’azione del provvedimento.
Vale per colf e badanti? No, non c’è l’obbligo in caso di lavoro domestico, non direttamente legato ai bambini che pur possono essere presenti. Il datore di lavoro, trattandosi di un rapporto fiduciario, può decidere come fare autonomamente.
Vale anche per chi sta già lavorando con i ragazzi?
No. L’obbligo riguarda i nuovi assunti e non chi è già dipendente, per esempio, di scuole o palestre. Chi può presentare la domanda? Il lavoratore direttamente interessato, ma anche il datore di lavoro delegato dal dipendente.
Dove si richiede?
I moduli sono sul sito del Ministero della Giustizia. La richiesta va fatta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di riferimento, Ufficio locale del Casellario giudiziale.
Quali sono i tempi?
Il Ministero ha assicurato che i certificati saranno rilasciati entro qualche giorno dalla richiesta. Si può comunque stipulare il contratto presentando un’autocertificazione in cui il neoassunto dichiara di non essere stato condannato per i reati contro i minori.

La normativa sul confezionamento, vendita e trasporto dei prodotti alimentari: che cosa l’imprenditore e il consumatore sono tenuti a sapere?

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vendita prodotti alimentari
vendita prodotti alimentari

 

Premessa.

Il trasporto di alimenti confezionati è un’attività che richiede molte attenzioni e cautele. Bisogna evitare il deterioramento di cibi e bevande, la contaminazione tra le diverse tipologie di prodotti trasportati e quindi tutelare la salute dei consumatori. Scambi commerciali, merci in viaggio su grandi distanze, distribuzione di beni alimentari per ristorazione e catene di supermercati: è fondamentale garantire salubrità e sicurezza degli alimenti trasportati tramite misure di controllo e prevenzione.

Il rischio di contaminazione, in particolare, deve essere chiaro a tutti coloro che manipolano prodotti alimentari, per questo motivo è necessaria una costante e chiara formazione in azienda: il personale deve essere informato per iscritto dei suoi compiti e delle sue responsabilità.

L’azienda, inoltre, ha il compito di sensibilizzare e responsabilizzare continuamente i dipendenti, in modo che sappiano individuare e segnalare eventuali non conformità e attuare azioni correttive.

I mezzi di trasporto di alimenti confezionati sono obbligati ad avere la certificazione Haccp – Hazard Analysis and Critical Control Points – al fine di tutelare le condizioni igieniche dei prodotti. Il corso Haccp è un obbligo per l’autotrasportatore ma anche una garanzia per il consumatore.

 

Attestato Haccp: obbligo trasporto beni alimentari

 

L’Haccp per il trasporto di alimenti confezionati è un sistema di autocontrollo alimentare che assicura l’apprendimento delle norme igienico-sanitarie e di sicurezza alimentare fondamentali nelle fasi di produzione, manipolazione, distribuzione e somministrazione di alimenti e bevande.

Secondo la normativa Reg.852/04/CE e Reg.178/02/CE chi opera nel settore alimentare deve essere in grado di individuare e prevenire pericoli di tipo biologico, microbiologico, chimico, fisico.

 

Cos’è ed a cosa serve l’Haccp: la normativa

Chiunque lavori nel settore alimentare, indipendentemente dalla mansione svolta, deve essere

informato e formato sulle regole, le norme e i principi dell’HACCP.

Cos’è l’Haccp: definizione

Per capire il suo significato è necessario partire dal suo acronimo ovvero: “Hazard Analysis and Critical Control Points” che dall’inglese all’italiano è traducibile in “analisi dei rischi e punti critici di controllo”.

Si tratta di un protocollo, ovvero un insieme di procedure volte a tutelare e il consumatore garantendo la salubrità degli alimenti, focalizzandosi in particolar modo sulla prevenzione dei rischi piuttosto che sull’analisi del prodotto finito, concentrandosi sui punti critici di controllo.

Che cosa sono i punti critici di controllo?

Con questo termine si intende ogni fase o procedura del ciclo produttivo dell’alimento che può essere monitorato e controllato periodicamente allo scopo di eliminare o quanto meno ridurre i rischi relativi alla salubrità e alla sicurezza di un prodotto alimentare.

A cosa serve l’Haccp?

Come abbiamo già anticipato, l’haccp è un metodo di controllo finalizzato a tutelare la salubrità dell’alimento e la salute del consumatore finale, tramite un monitoraggio costante delle fasi della manipolazione degli alimenti in cui vi sia un probabile pericolo di contaminazione, che sia esso biologico, chimico o fisico, basandosi sull’applicazione di principi fondamentali.

Quanti sono i principi del sistema Haccp?

I principi dell’HACCP sono 7 e sono i seguenti:

  1. Individuazione dei pericoli e analisi dei rischi;
  2. Individuazione dei CCP (punti di controllo critici);
  3. Definizione dei limiti critici;
  4. Definizione delle procedure di monitoraggio;
  5. Definizione e pianificazione delle azioni correttive;
  6. Definizione delle procedure di verifica;
  7. Definizione delle procedure di registrazione;

Haccp: Normativa

Un sistema così complesso non poteva che essere regolato da una normativa ben precisa maturata nel corso degli anni. Il primo sistema di controllo dei punti critici di controllo venne inventato negli anni ‘60 in America per garantire dei pasti controllati, salubri e sicuri agli astronauti in missione per la NASA. Successivamente fu disposto l’obbligo di adottare questo sistema in tutte le aziende del settore alimentare. La prima normativa di riferimento per l’HACCP in Europa è arrivata nei primi anni ‘90 con la Direttiva 1993/43/CEE, che è stata recepita in Italia con il D.Lgs 155/1997, che rendeva l’HACCP obbligatorio per tutta la filiera alimentare. Tale normativa è successivamente stata sostituita dal Regolamento CE 852/2004 entrato in vigore nel gennaio del 2006, ed è stato attuato in Italia con il D.Lgs 193/2007 con il quale vengono decretate per la prima volta le sanzioni per inadempienza alle disposizioni dell’Haccp. Com’è facilmente comprensibile, la normativa relativa Haccp stabilisce che vi siano delle procedure obbligatorie da seguire e che gli addetti a svolgere tale procedure siano in possesso delle conoscenze e delle competenze necessarie. Tuttavia, la normativa, in Italia, ha carattere regionale, ciò significa che ogni regione ha un proprio ufficio competente all’interno del quale viene disciplinata la materia della sicurezza alimentare.

Per lavorare nella filiera alimentare, ai sensi della normativa vigente in materia, ogni azienda e ogni lavoratore che opera in essa devono possedere certi requisiti fondamentali. L’obbligo per tutte le attività del settore alimentare è quello di mettere in atto un piano di autocontrollo, munendosi di un manuale haccp redatto in base alle esigenze specifiche dell’azienda in questione, contenente le linee guida necessarie per il monitoraggio e la prevenzione dei rischi alimentari da mettere in atto tramite la compilazione di apposite schede di autocontrollo haccp. Per i lavoratori invece è necessario conseguire una certificazione che attesti la loro preparazione in materia di sicurezza e igiene alimentare: l’Attestato HACCP. Inoltre, deve seguire specifiche norme di comportamento igienico-sanitario per evitare danni alla salute dell’uomo.

Normativa Haccp: regole di trasporto prodotti alimentari

Nella normativa Haccp riveste particolare attenzione il trasporto alimenti, in riferimento alla manipolazione e alla vendita. I vani di carico dei veicoli e/o i contenitori utilizzati per il trasporto di prodotti alimentari devono essere tenuti puliti e sottoposti a regolare manutenzione; non devono essere utilizzati per trasportare materiale diverso dagli alimenti se questi possono esserne contaminati; devono essere adatti a mantenere temperature idonee alle tipologie di prodotti. Per i veicoli e/o i contenitori adibiti anche al trasporto di merce diversa bisogna provvedere a separare efficacemente i prodotti; è necessario, inoltre, che siano puliti tra un carico e l’altro per evitare il rischio di contaminazione.

I prodotti alimentari sfusi liquidi, granulari o in polvere devono essere trasportati in vani e/o contenitori/cisterne riservati al trasporto di prodotti alimentari e bisogna contrassegnarli in modo chiaro e indelebile in una o più lingue comunitarie. I prodotti alimentari nei veicoli e/o contenitori devono essere collocati e protetti in modo da evitare il rischio di contaminazione.

Haccp e piano di autocontrollo alimentare: qual è la differenza?

Tutti gli operatori coinvolti nella filiera del settore alimentare sono obbligati per legge a monitorare il proprio lavoro e a redigere il manuale Haccp. Che si tratti di settore produttivo o comparto di distribuzione, ogni impresa deve dotarsi di un piano di autocontrollo così da accertare la sicurezza e l’igiene dei prodotti.

Nel piano di autocontrollo alimentare sono indicate le seguenti informazioni:

  • Descrizione dell’azienda e dell’attività svolta, ragione sociale, sede legale
  • Gruppo di lavoro Haccp, ruoli e attività dei dipendenti
  • Regolamentazione chiara dei processi e dei rischi legati all’alimentazione
  • Descrizione dei prodotti utilizzati.

L’Haccp è il sistema che consente di applicare il piano di autocontrollo in maniera razionale e organizzata, al fine di raggiungere un elevato livello di sicurezza alimentare.

 

Obbligo manuale Haccp: sicurezza nel trasporto alimentare

Il manuale Haccp è il documento che ogni attività ditrasporto alimenti deve tenere con sé ed è obbligatorio sia in Italia sia all’estero, anche per il trasporto conto terzi. È importante perchè serve a garantire la sicurezza alimentare e a prevenire rischi ad essa connessi. Si può redigere solo dopo aver frequentato un corso di formazione abilitato secondo la Direttiva europea 2005/36/CE. All’interno del manuale è necessario indicare i possibili rischi e provvedimenti adottati per tenerli sotto controllo, per evitare contaminazioni.

Solitamente è formato da una descrizione e dalla documentazione di natura operativa.

Rimborso accise autotrasportatori: gestione completa con il servizio recupero accise gasolio

L’attestato Haccp è obbligatorio non solo perle aziende che lavorano nel campo della ristorazione e somministrazione di generi alimentari e bevande, ma anche per autotrasportatori impegnati nelle attività di carico, scarico, trasporto alimenti confezionati, ancor più se si tratta di lunghe distanze.

Le imprese che esercitano attività di trasporto merci in conto proprio e per conto terzi, con veicoli di peso complessivo uguale o superiore a 7,5 ton, hanno la possibilità di ottenere il rimborso accise gasolio per il trasporto effettuato sul territorio nazionale.

Vendere alimenti online: che cosa prescrive la normativa

Vuoi iniziare a vendere alimenti online? Allora devi sapere cosa stabilisce la normativa sulla vendita di cibo online e quali sono i requisiti da rispettare. In questa guida ti illustreremo tutto ciò che c’è da sapere per iniziare a vendere cibo online.

Per vendere alimentari online bisogna rispondere ad alcuni importanti requisiti stabiliti dalla Legge e ottenere le autorizzazioni.

Vendere cibo online richiede una serie di adempimenti amministrativi e burocratici, a partire dall’apertura della Partita Iva e all’iscrizione alla Camera di Commercio.

Per poter vendere alimenti online è obbligatorio riportare tutte le informazioni necessarie sulle etichette per garantire la massima trasparenza ai clienti.

Vuoi realizzare il progetto di vendita di alimenti online, ma non sai quali requisiti bisogna rispettare e quali sono gli adempimenti burocratici e amministrativi? Al giorno d’oggi sempre più persone scelgono di investire nel commercio online vendendo diverse tipologie di prodotti, tra cui quelli alimentari. Tuttavia, a differenza di altri generi di prodotti, per poter vendere cibo online è necessario rispettare alcuni requisiti e adempimenti per garantire il massimo della sicurezza. Ma vediamo subito cosa stabilisce la normativa sul commercio di alimenti online, e tutti gli aspetti fiscali e burocratici da considerare per avviare l’attività.

Vendere alimenti online: la normativa

Il cibo, prima di essere venduto, deve rispettare determinati standard che ne garantiscono la sicurezza, e il venditore deve ottenere le opportune autorizzazioni. La normativa riguardo la vendita degli alimenti online fa riferimento a:

Regolamento europeo 1169/2011/UE sull’etichettatura alimentare;

  • D. Lgs. 114/1998 e D. Lgs. 59/2010 sui requisiti morali e professionali;
  • D.Lgs 70/2003 sugli adempimenti necessari per il commercio online. Il venditore di prodotti alimentari online deve rispettare sia le normative di tutela del consumatore che quelle di tutela della salute. La normativa stabilisce che per la vendita di alimenti online il venditore deve rispettare alcuni requisiti personali e professionali di onorabilità e che comprovino l’esperienza nella materia. Il venditore deve, inoltre, possedere i requisiti oggetti per la vendita dei prodotti e garantire la sicurezza degli alimenti. Vi sono, poi, gli adempimenti burocratici che concernono qualsiasi tipologia di vendita online.

Vendere alimenti online: i requisiti

Per essere autorizzato a vendere online prodotti alimentari, il venditore deve rispettare alcuni requisiti, sia personali che professionali. Quelli che vedremo tra poco sono noti come requisiti di onorabilità. Ci sono, infatti, alcuni soggetti che non possono occuparsi della vendita online di prodotti alimentari, ossia quei soggetti: • dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, a meno che non hanno ottenuto la riabilitazione; • condannati per delitto non colposo con una pena detentiva non inferiore nel minimo a tre anni: • che hanno ricevuto una condanna per ricettazione, riciclaggio, insolvenza fraudolenta, bancarotta fraudolenta, usura, rapina, delitti contro la persona commessi con violenza o estorsione; • condannati per reati contro l’igiene e la sanità pubblica; • che riportano due o più condanne nei cinque anni precedenti all’inizio dell’esercizio dell’attività per delitti di frode nella preparazione e nel commercio degli alimenti previsti da leggi speciali.

Licenze per vendere prodotti alimentari

Per poter vendere online prodotti alimentare il venditore deve possedere almeno uno dei seguenti requisiti: • aver ottenuto la certificazione SAB (Somministrazione di Alimenti e Bevande); • un’esperienza lavorativa di almeno due anni, negli ultimi cinque, in un’attività di vendita o di produzione alimentare; • avere un titolo di studi attinente al settore del commercio, della preparazione e somministrazione di alimenti.

Nel caso in cui un venditore voglia vendere prodotti alimentari fatti in casa sarà anche necessario ottenere un attestato di frequentazione di un corso di formazione sul sistema HACCP, anche noto come certificazione HACCP. In più, deve essere dotato di una cucina che risponda a determinati requisiti e presenti caratteristiche specifiche stabilite dalla normativa.

Quando l’imprenditore è responsabile per la legge italiana? Avv. PhD Roberto Pusceddu

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TUTELA IMPRENDITORE
TUTELA IMPRENDITORE

Premessa

Nel presente contributo ci si soffermerà sulla responsabilità dell’imprenditore ai sensi dell’art. 2087 del Codice Civile richiamando le pronunce giurisprudenziali in materia e svolgendo le conseguenti considerazioni sul caso in esame e sui profili di responsabilità penale che coinvolgono coloro che ricoprono posizioni apicali all’interno di un’impresa.

La responsabilità dell’imprenditore.

In materia di responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., non costituisce fattore di esclusione della responsabilità datoriale il fatto che il lavoratore, per la sua posizione apicale, avesse la possibilità di modulare dal punto di vista organizzativo la propria prestazione, anche in relazione ai carichi di lavoro, alle modalità di fruizione delle ferie e dei riposi, residuando pur sempre in capo al datore di lavoro un obbligo di vigilanza del rispetto di misure atte a prevenire conseguenze dannose per la salute psicofisica del dipendente lavoratore, salva l’ipotesi che la condotta di questi si configuri come abnorme e del tutto imprevedibile.

Cassazione civile sez. lav., 27/01/2022, n.2403

Infortuni sui luoghi di lavoro: responsabilità dell’imprenditore

La responsabilità dell’imprenditore per gli infortuni avvenuti sui luoghi di lavoro a causa della mancata adozione delle misure di sicurezza deriva o da norme specifiche o, in assenza di queste, dalla norma di portata generale di cui all’art. 2087 c.c., che rappresenta una norma di chiusura del sistema antinfortunistico, che trova come tale applicazione a tutte le ipotesi non espressamente disciplinate.

Corte appello Firenze sez. lav., 28/06/2021, n.330

Mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore

In ordine alla responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore si fa riferimento a norme specifiche o, in mancanza a quanto disposto dall’art. 2087 c.c., che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro, siano necessarie a tutelare l’integrità psico -fisica dei lavoratori.

In particolare nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa pericolosa, come nella fattispecie, la responsabilità del datore di lavoro -imprenditore, ai sensi dell’art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non può essere, tuttavia, circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, l’omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psico -fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto, della concreta realtà aziendale, del tipo di lavorazione e del connesso rischio.

Cassazione civile sez. lav., 18/06/2021, n.17576

Responsabilità dell’imprenditore per infortuni sul luogo di lavoro

In tema di responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c. per gli infortuni sul luogo di lavoro, nel caso in cui il danno di cui si invoca il risarcimento consegua a un evento riconducibile, sotto il profilo causale, a più soggetti, questi ultimi, quale che sia il titolo (contrattuale o extracontrattuale) per il quale siano chiamati a rispondere, sono solidalmente responsabili nei confronti della vittima, la quale può conseguentemente pretendere l’intero risarcimento da ciascuno di essi, indipendentemente dalla misura del relativo apporto causale nella determinazione dell’evento.

(Nella specie, relativa all’infortunio occorso al dipendente di un’impresa appaltatrice di lavori di facchinaggio, per essere caduto, mentre era intento a sistemare della merce, da un ballatoio dell’altezza di circa tre metri posto all’interno del magazzino della società committente, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, riconosciutane la responsabilità per violazione delle prescrizioni antinfortunistiche di cui all’art. 26, comma 4, d.lgs. n. 81 del 2008, aveva condannato la committente, in solido con il socio illimitatamente responsabile, al risarcimento dell’intero danno subito dal lavoratore, pur avendo accertato il concorso di responsabilità di un altro dipendente nella produzione del fatto lesivo).

Cassazione civile sez. lav., 27/04/2021, n.11116

Bancarotta fraudolenta: configurabilità e casistica

La mancata giustificazione della destinazione data al residuo di cassa non rinvenuto al momento della redazione dell’inventario, concorre alla formazione della prova della responsabilità dell’imprenditore fallito. Infatti, in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti.

Del resto, in riferimento alla bancarotta patrimoniale, gli imprenditori di una ditta dichiarata fallita hanno l’obbligo di fornire la dimostrazione della destinazione data ai beni acquisiti al patrimonio, in quanto la destinazione legale dei beni del debitore all’adempimento delle obbligazioni contratte comporta una limitazione della libertà di utilizzare gli stessi, onde dalla mancata dimostrazione può essere desunta la prova della distrazione o dell’occultamento.

Corte appello Ancona, 22/04/2021, n.715

Responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c.

La responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando un’ipotesi di responsabilità oggettiva, sorge non soltanto in caso di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, ma sanziona anche la omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte le misure e cautele idonee a preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore in relazione alla specifica situazione di pericolosità, inclusa la mancata adozione di direttive inibitorie nei confronti del lavoratore medesimo.

(Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, in un caso in cui il lavoratore aveva subito danni a seguito dell’impiego di una scala a pioli per movimentare pesi e non per l’innalzamento verso l’alto, aveva escluso la responsabilità datoriale senza indagare se l’uso non conforme a quello ordinario potesse essere evitato con cautele più incisive, incluso il divieto di utilizzo).

Cassazione civile sez. lav., 15/07/2020, n.15112

La responsabilità dell’imprenditore

La responsabilità dell’imprenditore, ai sensi dell’art. 2087 c.c., non è oggettiva, bensì fondata sulla violazione di obblighi di comportamento, a protezione della salute del lavoratore, imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, purché concretamente individuati.

Ne consegue che va esclusa la possibilità di ricavare dalla norma citata l’obbligo del datore di adottare ogni cautela possibile ed innominata, non potendosi esigere la predisposizione di misure idonee a prevenire ogni evento lesivo.

(Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, senza individuare la concreta e specifica regola prudenziale violata, aveva ritenuto la responsabilità del datore per le lesioni occorse alla dipendente scivolata e caduta sul pavimento in corso di pulizia, nonostante la predisposizione di apposite segnalazioni da parte dell’impresa appaltatrice).

Cassazione civile sez. lav., 23/05/2019, n.14066

Omesso versamento di ritenute

Va esclusa la responsabilità dell’imprenditore per il mancato versamento delle ritenute fiscali solo in presenza di una crisi economica a lui non imputabile, e solo quando siano state adottate tutte le misure idonee a fronteggiare la crisi (nella specie, la Corte ha rinviato al giudice del merito per un approfondimento sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, atteso che l’imprenditore aveva giustificato il mancato versamento con la volontà di utilizzare il denaro per pagare i dipendenti).

Cassazione penale sez. III, 23/11/2017, n.6737

Responsabilità dell’imprenditore per eccessivo lavoro imposto ai lavoratori

In tema di responsabilità dell’imprenditore, ex art. 2087 c.c., per l’eccessivo carico di lavoro imposto al lavoratore, è irrilevante l’assenza di doglianze o di sollecitazioni mosse da quest’ultimo, né, ai fini della prova liberatoria, è sufficiente l’allegazione generica della carenza di organico, costituendo l’organizzazione dei reparti, la consistenza degli organici e la predisposizione dei turni espressione ed attuazione concreta dell’assetto organizzativo adottato dall’imprenditore.

(Nella specie, il dipendente, deceduto per infarto del miocardio, era stato inserito nel servizio di pronta disponibilità, in violazione reiterata e sistematica dei limiti posti dall’art. 18 del d.P.R. n. 270 del 1987 e dalla contrattazione collettiva del comparto sanità).

Cassazione civile sez. lav., 08/06/2017, n.14313

Responsabilità dell’imprenditore per atti compiuti da terzi interposti

Affinché l’imprenditore possa essere tenuto a rispondere dell’atto concorrenziale del terzo occorre che questo atto, pur se realizzato senza la sua personale diretta partecipazione, sia tuttavia riconducibile geneticamente alla sua volontà, nel senso che sia stato compiuto su sua ispirazione e/o nel suo interesse e non nell’interesse autonomo del terzo che lo ha materialmente eseguito.

Tribunale Parma, 05/04/2017, n.525

Temporanea crisi aziendale e responsabilità dell’imprenditore

L’ammissione al godimento del contributo salariale presuppone una situazione di temporanea crisi aziendale, non riconducibile a responsabilità dell’imprenditore e rimessa alla valutazione discrezionale dell’Amministrazione competente.

La normativa di settore – ossia l’art. 1, l. n. 164 del 1975, applicabile ratione temporis – nel riferirsi a “situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabile all’imprenditore o agli operai” implica l’assoluta estraneità dell’evento rispetto alla sfera psichica e causale dei soggetti interessati, per i profili sia della prevedibilità dell’evento stesso sia della responsabilità, con sostanziale riconduzione dell’applicazione della norma a situazioni di forza maggiore.

A ciò consegue che i fatti dai quali sia derivata una contrazione o una sospensione dell’attività d’impresa debbono risultare estranei anche alla sfera di responsabilità di soggetti diversi dall’imprenditore, al quale possa ricondursi, a titolo risarcitorio, la responsabilità dell’evento interruttivo e la riparazione delle conseguenze patrimoniali pregiudizievoli. Inoltre, trattandosi di istituto che opera in via di eccezione alla regola del sinallagma dell’obbligo retributivo, con assunzione dello stesso a carico della collettività, è retto da regole di stretta interpretazione quanto ai presupposti che danno luogo all’intervento.

T.A.R. Milano, (Lombardia) sez. III, 17/11/2015, n.2416

Omessa ordinaria diligenza

Nella ipotesi di furto in appartamento condominiale, commesso con accesso dalle impalcature installate in occasione della ristrutturazione dell’edificio, è configurabile la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2043 c.c., per omessa ordinaria diligenza nella adozione delle cautele atte ad impedire l’uso anomalo dei ponteggi, nonché la responsabilità del condominio, ex art. 2051 c.c., per l’omessa vigilanza e custodia, cui è obbligato quale soggetto che ha disposto il mantenimento della struttura.

Accanto alla responsabilità di carattere civilistico, vi sono anche situazioni che coinvolgono l’imprenditore e che hanno rilievo penale. L’attività imprenditoriale comporta dei rischi, anche a livello penale. Ecco i principali rischi penali dell’imprenditore ed i controlli preventivi utili per evitarli.

Quali sono le condotte dell’amministratore e del management societario che presentano dei rischi di “sconfinamento” nel diritto penale?

I reati che possono essere commessi dagli imprenditori (o dai c.d. “colletti bianchi”) si caratterizzano generalmente per l’assenza di una condotta violenta e per la categoria dei danneggiati o persone offese: consumatori, azionisti, concorrenti, investitori, dipendenti d’azienda e così via.

Trattasi di rischi penali che si possono verificare prevalentemente nel campo economico, politico e professionale, che perseguono uno scopo di lucro.

Rischi dell’imprenditori in sede fallimentare

Ci si riferisce ai reati fallimentari disciplinati dalla L. n. 267/1942. Presupposto è che il soggetto sia un imprenditore commerciale o una società o un soggetto che rappresenti la società stessa (es. amministratore).

Il reato più conosciuto è la bancarotta nelle sue forme semplice, fraudolenta, documentale, patrimoniale, documentale e preferenziale. Si realizza la bancarotta ad esempio nel caso in cui l’imprenditore utilizza il patrimonio sociale per spese personali o in operazioni manifestamente imprudenti.

Il reato si configura altresì nel caso in cui l’imprenditore distrae, occulta, dissimula, distrugge o dissipa in tutto o in parte i suoi beni o falsifica i libri o altre scritture contabili.

Un’altra ipotesi di reato è il ricorso abusivo al credito che si verifica quando l’imprenditore ricorre al credito dissimulando il proprio dissesto. L’imprenditore risponde del reato di omessa dichiarazione dei beni se redige un inventario non fedele alla realtà.

I reati societari

Altra categoria di reati che possono essere commessi nell’esercizio dell’attività imprenditoriale sono reati societari, collocati nel codice civile dall’art. 2621.

Si pensi al reato di false comunicazioni sociali che si realizza ad esempio quando gli amministratori espongono nei bilanci fatti non corrispondenti al vero o, viceversa, omettono informazioni obbligatorie per conseguire un ingiusto profitto.

Se l’amministratore restituisce, anche simulatamente, i conferimenti ai soci o li libera dall’obbligo di eseguirli, risponde del reato di indebita restituzione dei conferimenti.

L’aggiotaggio si configura, invece, quando taluno diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate per provocare una sensibile alterazione di strumenti non quotati (art. 2637 c.c.).

Rientrano nella categoria dei reati societari anche alcune fattispecie disciplinate nel T.U.F.: si pensi al delitto di insider trading che reprime il compimento di operazioni su strumenti finanziari mediante informazioni privilegiate possedute in ragione della partecipazione al capitale di una società. 

I rischi penali dell’imprenditore in sede tributaria

Possono altresì emergere profili di responsabilità penale per l’imprenditore se costui commette violazioni in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

Si fa riferimento ai c.d. reati tributari di cui al D.lgs n. 74/2000. Elemento comune a questi reati è lo scopo di evadere l’IVA e le imposte sui redditi.

Si pensi all’imprenditore che, avvalendosi di mezzi fraudolenti, nelle dichiarazioni annuali dichiari di aver percepito ricavi (elementi attivi) inferiori rispetto a quelli effettivamente conseguiti o, viceversa, esponga dei costi in realtà mai sostenuti (dichiarazione fraudolenta mediante artifici, art. 3).

Colui che, invece, non presenta una dichiarazione annuale relativa alle predette imposte, pur essendovi obbligato, risponde del reato di omessa dichiarazione (art. 5), purché l’imposta evasa sia superiore ad una determinata soglia.

I reati contro la pubblica amministrazione

Tra i delitti che possono essere commessi dall’imprenditore nell’esercizio della propria attività vi sono alcuni delitti contro la pubblica amministrazione.

Si pensi a colui che dà o promette denaro ad un pubblico ufficiale per l’esercizio delle sue funzioni o per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 318, 319 c.p.).

Si configura la responsabilità anche in capo a colui che dà o promette denaro, indotto da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (art. 319 quater co. 2 c.p.)

Tutela del diritto d’autore

Il nostro ordinamento offre una tutela penale al c.d. know-how: la fattispecie di cui all’art. 623 c.p. sanziona, infatti, la rivelazione o l’uso di informazioni segrete su scoperte scientifiche, invenzioni e applicazioni industriali, compiute in violazione di un rapporto fiduciario di natura professionale. Il know-how rappresenta senz’altro una risorsa fondamentale da cui può dipendere la capacità di un’impresa di restare sul mercato. Si pensi ad esempio al complesso di conoscenze ed esperienze tecniche, o ai disegni tecnici e di progettazione.

Non rientrano, invece, nella nozione di segreto industriale le c.d. strategie di marketing o gli strumenti promozionali.

La legge n. 633/1941 disciplina il diritto d’autore tutelando il diritto di chiunque voglia trarre profitto dalla propria opera. L’art. 171 reprime, dunque, la condotta di colui che pubblica o riproduce un’opera d’ingegno altrui. Tra i beni tutelati dalla norma rientrano anche i software, banche dati, file musicali, immagini, opere musicali, cinematografiche o letterarie.

Costituisce reato l’utilizzo di programmi software senza licenza.

Privacy e GDPR

Non meno rilevanti sono i delitti in tema di violazione della privacy. Le fattispecie di reato previste dalla normativa europea e italiana in materia di protezione dati personali sono le seguenti:

– Trattamento illecito di dati;
– Comunicazione e diffusione illecita di dati personali;
– Acquisizione fraudolenta di dati personali;
– Interruzione dell’esecuzione dei compiti o dell’esercizio dei poteri del Garante;
– Inosservanza di provvedimenti del Garante;
– Violazioni in materia di controlli a distanza dei lavoratori. Sul punto, si pensi all’imprenditore che utilizzi impianti audiovisivi dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori installati illegittimamente.

Sicurezza sul lavoro

L’imprenditore è altresì tenuto a garantire la salute e la sicurezza su lavoro (D.lgs n. 81/2008). È pertanto necessario che le imprese siano dotate di un adeguato sistema di prevenzione degli infortuni.

Le fattispecie di reato imputabili all’imprenditore sono l’omicidio colposo e le lesioni personali colpose gravi o gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Ciascuna impresa deve redigere il c.d. DVR: il documento di valutazione dei rischi redatto dal datore di lavoro che identifica e valuta i rischi, indica le misure di prevenzione e di protezione per l’eliminazione o la riduzione dei rischi stessi. Costituisce reato anche la mancata compilazione del DVR.

Recentemente la Cassazione ha riconosciuto la responsabilità per il delitto di lesione personale colposa in capo al Responsabile del servizio di prevenzione e protezione a fronte di un infortunio occorso ad un alunno all’interno di una scuola che in sede di elaborazione del Dvr aveva omesso di valutare la specifica situazione di rischio relativa all’infortunio accaduto e di far adottare misure adeguate di prevenzione e di protezione. (Cass. pen. Sez. IV, 04/04/2019, n. 37766).

Rischi penali dell’imprenditore per la tutela dell’ambiente

Non è infrequente che l’attività imprenditoriale comporti dei rischi per la tutela e la salvaguardia dell’ambiente.

A garanzia del bene ambiente, il codice penale prevede alcune fattispecie di reato (dolose e colpose), quali l’inquinamento ambientale (che si verifica in caso di deterioramento delle acque, dell’aria, di un ecosistema, della flora o della fauna), la morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale, il disastro ambientale, il traffico o l’abbandono di materiale ad alta radioattività.

L’imprenditore deve altresì organizzare la propria impresa in modo da prevenire la commissione di delitti contro l’incolumità. Si pensi, infatti, al delitto di avvelenamento di acque o sostanze alimentari, alla contraffazione di sostanze alimentari rese pericolose per la salute pubblica, al commercio di sostanze alimentari contraffatte o nocive o di medicinali guasti.

Riciclaggio e autoriciclaggio

Risponde del delitto di riciclaggio l’imprenditore che trasferisce denaro proveniente da altro delitto o che compie altre operazioni in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa di denaro o altri beni. Si configura, invece, il delitto di autoriciclaggio nel caso in cui l’imprenditore, che abbia commesso o concorso a commettere un delitto, impiega/trasferisce/sostituisce denaro o altri beni in attività economiche, finanziare, imprenditoriali o speculative. Si pensi a colui che commette una truffa da cui ricava una somma ingente di denaro e utilizzi tale somma nella propria attività imprenditoriale attraverso operazioni in grado di ostacolarne l’identificazione della provenienza illecita.

L’ambiente: la tutela di un bene giuridico di rilievo costituzionale. Avv. PhD Roberto Pusceddu

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tutela ambiente
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Premessa.

L’8 febbraio 2022 sono state approvate le modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione, che introducono la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli animali tra i principi fondamentali della Carta costituzionale.

Per la prima volta dal 1948 viene apportata una modifica a uno degli articoli della Costituzione, contenenti i c.d. “Principi Fondamentali” dell’ordinamento costituzionale (articoli 1-12).

Con la modifica dell’articolo 9, la legge costituzionale introduce tra i principi fondamentali la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Stabilisce, altresì, che la legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.

La riforma è intervenuta anche sul secondo comma dell’articolo 41. La nuova formulazione dispone che l’attività economica privata è libera, e non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o “in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. L’articolo prevede inoltre che la legge determini i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata “a fini sociali e ambientali”.

Ad oggi l’art. 9 Cost. tutela quindi non solo più il paesaggio, ma anche l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi; per altro verso, l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con la salute e l’ambiente. Volendo calare nella pratica l’introduzione di questi nuovi principi, con riferimento alla realizzazione di nuove opere, ad esempio, potremmo lecitamente concludere che la valutazione sull’opportunità (e legittimità) di una nuova costruzione non muove più unicamente dall’esigenza di tutelare il paesaggio giacché, a fianco ad esso, compaiono altri beni parimenti tutelati in via immediata quali l’ambiente, la biodiversità e l’ecosistema. Il che si traduce in un serio bilanciamento di interessi da operare a livello amministrativo – centrale o locale – per determinare, caso per caso, se l’opera realizzanda porti più vantaggi all’ambiente, biodiversità ed ecosistemi nell’interesse delle future generazioni di quanto nocumento possa causare al paesaggio.

L’ambiente in Costituzione.

Nella sua formulazione originaria, la Costituzione non conteneva disposizioni espressamente finalizzate a proteggere l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi. Gli unici riferimenti ai concetti di “ambiente” ed “ecosistemi” sono stati introdotti a seguito della riforma del titolo V della Costituzione in relazione al riparto di competenze tra Stato e Regioni.

Ciononostante, la dottrina, prima, e la giurisprudenza – segnatamente quella costituzionale – hanno cercato di attribuire un fondamento costituzionale alle politiche di tutela ambientale tramite il ricorso ad altre disposizioni.

La Corte Costituzionale ha preso le mosse dapprima dallo stesso articolo 9 della Costituzione, che al secondo comma individua tra i compiti assegnati alla Repubblica la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Con l’emersione delle tematiche ambientali, la nozione di “paesaggio” è stata interpretata estensivamente dalla Corte, passando da un concetto che “ha di mira unicamente i valori paesistici”, estranei alla “natura in quanto tale, e quindi la fauna e la stessa flora” (C. Cost. 106/76) ad un concetto di paesaggio fortemente slegato dalla sua dimensione meramente estetica. A partire dagli anni ’80, dunque, il paesaggio viene a coincidere con la “forma del territorio e dell’ambiente”, includendo anche la tutela ambientale.

L’interpretazione che faceva perno sull’articolo 9 e sulla nozione di paesaggio non permetteva però di offrire una copertura costituzionale a circostanze che, pur non concernendo la “forma del Paese”, avevano un impatto sull’ambiente (si pensi ad esempio alle emissioni di anidride carbonica e gas nell’atmosfera, o all’utilizzo di diserbanti agricoli). La giurisprudenza è andata dunque alla ricerca di fondamenti costituzionali ulteriori, basandosi in particolare sull’articolo 32 della Costituzione e, a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 210/1987, il diritto alla salute è stato inteso come diritto ad un ambiente salubre.

Infine, la Corte ha accolto la tesi per cui i doveri di solidarietà economica, politica e sociale imposti dall’articolo 2 della Costituzione includerebbero anche i doveri di solidarietà ambientale, dando copertura costituzionale a tutti quei casi che fuoriuscivano dall’ambito di applicazione degli articoli 9 e 32 della Costituzione.

Il nuovo articolo 9

La nuova formulazione dell’articolo 9 pone sin da ora alcuni dubbi interpretativi.

Anzitutto, alcuni dubbi sono stati sollevati in merito all’utilizzo del termine “future generazioni”. La riforma costituzionale, infatti, inserisce all’art. 9 Cost. il concetto di una responsabilità intergenerazionale, ma non è chiaro come questa espressione si relazioni con il concetto di “sviluppo sostenibile”, che non è stato invece introdotto nel testo della riforma.

Sennonché, la recente riforma costituzionale ha introdotto il concetto di “biodiversità”, affiancandolo alle nozioni di “ambiente” ed “ecosistemi”, già posti in relazione tra di loro all’articolo 117 Cost. Ci si chiede dunque se i tre termini siano espressione di un unico bene giuridicamente tutelato o se possano restare indipendenti tra di loro.

Sulla relazione tra le nozioni di “ambiente” ed “ecosistemi”, la Corte Costituzione ha già affermato che “anche se i due termini esprimono valori molto vicini, la loro duplice utilizzazione, nella citata disposizione costituzionale, non si risolve in un’endiadi, in quanto col primo termine si vuole, soprattutto, far riferimento a ciò che riguarda l’habitat degli esseri umani, mentre con il secondo a ciò che riguarda la conservazione della natura come valore in sé” (sentenza n. 12/2009). Analoghe riflessioni possono valere in relazione al termine “biodiversità” che, secondo la definizione della Convenzione di Rio sulla diversità biologica[3], deve essere intesa come la variabilità di tutti gli organismi viventi inclusi negli ecosistemi acquatici, terrestri e marini e nei complessi ecologici di cui essi sono parte. La biodiversità, come concetto che “include la diversità nell’ambito delle specie, e tra le specie degli ecosistemi”, si presenta dunque come un concetto differente – seppur connesso – dalle nozioni di “ambiente” ed “ecosistemi”.

L’articolo 41

La riforma è intervenuta sul secondo comma dell’articolo 41 Cost., aggiungendo due ulteriori vincoli alla libertà di iniziativa economica privata, che non può svolgersi in contrasto – oltre che con l’utilità sociale, la sicurezza, la liberà e la dignità umana – con la salute e l’ambiente. La novella costituzionale ha inoltre riformato il terzo comma dell’articolo 9 che, prevedendo che l’attività economica pubblica e privata “possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”, suggerisce l’idea che la legislazione dello Stato debba tener conto anche delle esigenze ecologiche.

Le modifiche dell’articolo 41 riprendono i principi sul bilanciamento tra i vari interessi costituzionali già affermati dalla Corte Costituzionale nelle varie interpretazioni del dettato costituzionale. In particolare la Corte, nel cd. “caso ILVA” ha ricordato che la tutela della libera iniziativa economica deve essere comunque bilanciata con il diritto alla salute (da cui deriva il diritto all’ambiente salubre) e al lavoro.

La cristallizzazione degli indirizzi giurisprudenziali della Consulta rafforza dunque il peso dell’ambiente e della salute nel bilanciamento con altri interessi costituzionalmente rilevanti.

Gli articoli 9 e 41 della Costituzione: prima e dopo

Il testo dell’art. 9 della Costituzione, a seguito della riforma costituzionale che vi introduce un nuovo comma, è il seguente:
«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali».
Il testo dell’articolo 41, a seguito delle modifiche apportate dalla riforma costituzionale approvata, così recita:
«L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali».
L’ambiente in Costituzione e lo sviluppo sostenibile
Il nuovo articolo 9 della Costituzione, laddove prevede che la Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni, richiama uno dei principi cardine del diritto dell’ambiente: lo sviluppo sostenibile.
Trattasi di un concetto definito dalla Commissione mondiale sull’ambiente nel rapporto Brundtland del lontano 1987, secondo il quale lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri.
Tutela degli animali: la riserva di legge
 Di portata innovativa è poi il riferimento agli animali inserito dalla riforma costituzionale nel nuovo articolo 9 della Costituzione. In proposito è prevista una riserva di legge, attraverso la quale si dovranno disciplinare i modi e le forme di tutela degli animali.

Gli effetti della riforma

In Italia nulla sarà più come prima: il diritto dell’ambiente assume una propria oggettività giuridica, rileva come “bene autonomo costituzionalmente tutelato.” E lo stesso succede per la tutela degli animali, della biodiversità e degli interessi delle prossime generazioni. Una rivoluzione, questa, che investe anche l’iniziativa economica privata, d’ora in avanti sottoposta al vincolo di non creare danno alla salute e all’ecosistema.  La Carta costituzionale non conteneva un riferimento espresso alla nozione di “ambiente” (a parte l’articolo 117, che lo indica tra le materie di competenza esclusiva statale). In passato la tutela costituzionale dell’ambiente era menzionata in riferimento all’articolo 32, ovvero il diritto a un ambiente salubre. Negli anni Settanta e Ottanta, questa è stata la visione della Corte Costituzionale nelle sue sentenze: un ambiente da proteggere perché strumento dell’uomo, non come bene in sé. La Corte comincia a cambiare orientamento con la decisione numero 67 del 1992, poi con la riforma del Titolo V e quindi con due sentenze del 2016 e del 2018, dove l’ambiente non è più considerato come materia ma quale valore costituzionalmente protetto.
Ma bastavano i principi delle sentenze della Corte Costituzionale? No. Innanzitutto perché l’Italia è un ordinamento di civil law, dove le sentenze non sono vincolanti per altre sentenze, come nei paesi di common law. Ci volveva la riforma costituzionale in questione per conferire maggiore dignità alla problematica della tutela ambientale. Infatti, la riforma degli articoli 9 e 41 Cost. imporrà che non solo se esiste una legge contraria alla tutela dell’ambiente o alla biodiversità potrà essere portata davanti alla Corte costituzionale per farla dichiarare incostituzionale. Ma che se non esiste una legge a favore di questi principi, è possibile reclamare in modo formale affinché sia presentata in Parlamento.
Il risultato?  Tante questioni nuove saranno portate direttamente davanti al giudice costituzionale, ad esempio da associazioni ambientaliste. E quindi credo che ci saranno molte nuove cause su questi temi. Ma dobbiamo ancora valutare gli effetti numerosi che riguarderanno diverse discipline.
Si tratta di una decisione storicaIn particolare il riferimento all’interesse delle future generazioni sarà prezioso anche per l’azione legale climatica contro lo Stato”,ovvero per l’insufficiente impegno nella promozione di adeguate politiche di riduzione delle emissioni clima-alterantiovvero per l’insufficiente impegno nella promozione di adeguate politiche di riduzione delle emissioni clima-alteranti.
Sono numerosi gli ordinamenti che hanno scelto di assicurare una tutela esplicita in Costituzione alla materia ambientale. Solo per citare quelli a noi più vicini geograficamente: Finlandia, Belgio, Grecia, Portogallo, Spagna, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Francia.

ZES UNICA: una vera opportunità per le specialità della Sardegna

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ZES SARDEGNA
ZES SARDEGNA

ZES UNICA:

UNA VERA OPPORTUNITA’ PER LA SPECIALITA’ DELLA SARDEGNA

Avv. PhD Roberto Pusceddu

PREMESSA.

Prende avvio la Zes unica per tutte le Regioni del Mezzogiorno, cosa cambia ora che il dl Sud è legge

Dal 1° gennaio 2024 avrà il via la Zes unica per tutto il Sud Italia. Dopo la conversione in legge del decreto Sud, è ufficiale la norma che lo prevede: fino al 2034 ci saranno agevolazioni fiscali e procedure semplificate per le aziende del Meridione. Finora c’erano otto Zes diverse nelle varie Regioni.

A partire dal 1° gennaio 2024 viene istituita la Zona economica speciale per il Mezzogiorno, la c.d. “ZES unica“, che ricomprende i territori delle regioni:

  • Abruzzo, 
  • Basilicata, 
  • Calabria, 
  • Campania, 
  • Molise, 
  • Puglia, 
  • Sicilia, 
  • Sardegna.

ZES: DI CHE COSA SI TRATTA?

La Zes è un’area geograficamente limitata, nella quale le aziende già operative – e quelle che decidono di insediarvisi – possono beneficiare di speciali condizioni per gli investimenti sul territorio. I benefici principali consistono in esenzioni parziali o totali sui dazi o semplificazioni amministrative per gli investimenti.

Istituite nel 2017, le Zes sono diventate operative solo nel 2021. Al momento le Zes presenti nel sud Italia sono otto, in quanto istituite su base regionale. Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Sardegna, Sicilia e Puglia sono Zone economiche speciali separate. Dal 2024 si vogliono unire tutte queste realtà per farne un’unica area di attrazione per gli investimenti.

GLI STUDI SULLE ZES DI CALABRIA E CAMPANIA

Con l’avvicinarsi del 2024, la società di consulenza European House Ambrosetti ha presentato a Roma, presso la sede dell’associazione Civita, uno studio incentrato sui risultati raggiunti dalle Zes di Campania e Calabria, uniche due regioni su cui sono a oggi presenti dati certi.

Cetti Lauteta, responsabile dello Scenario Sud di Ambrosetti, ha spiegato che la Zes Campania ha attratto, in totale, oltre due miliardi di investimenti. La Calabria, dal canto suo, ha visto circa venti milioni di investimenti, che ha destinato alla messa in sicurezza delle infrastrutture per la mobilità della merce e per rafforzare le condizioni di legalità nelle aree interessate dagli investimenti.

“Non era possibile raggiungere risultati migliori”, la posizione del commissario straordinario Zes Campania e Calabria, Giosy Romano. Il monitoraggio svolto, continua Romano, “rivela la creazione di 22mila nuovi occupati”. La Zes unica potrebbe generare fino a 83 miliardi di valore aggiunto.

LA ZES UNICA

La creazione di una Zes unica, tuttavia, genera dibattito. Lauteta ha spiegato che, al momento, così come non hanno funzionato i rapporti con altre Zes del mondo (per esempio Marocco, Polonia ed Egitto), anche il sistema di regolamentazione centralizzato è considerato da alcune imprese e istituzioni un rischio da gestire. E il sistema centralizzato è proprio quello che si intende con l’istituzione di una cabina di regia unica gestita dalla presidenza del Consiglio. Su questo si è espresso anche Giosy Romano, che ha sottolineato l’importanza del ruolo delle amministrazioni locali nella gestione del territorio.

L’istituzione di una Zes unica preoccupa, specialmente sul piano degli effetti che potrebbe avere la sua nuova forma di gestione politica. Per Amedeo Teti, coordinatore della segreteria tecnica del comitato attrazione investimenti esteri del ministero delle Imprese e del made in Italy la Zes unica funzionerà perché, ormai, sull’esempio delle esperienze regionali, le imprese hanno capito bene il funzionamento e le opportunità delle Zone economiche speciali.

Ecco il testo del ddl di conversione (C. 1416-A) del Decreto Sud n. 124 del 19.09.2023 recante disposizioni urgenti in materia di politiche di coesione, per il rilancio dell’economia nelle aree del Mezzogiorno del Paese, nonché in materia di immigrazione.

Ricordiamo che per Zona economica speciale (ZES) si intende una zona delimitata del territorio dello Stato nella quale l’esercizio di attività economiche e imprenditoriali da parte delle aziende già operative e di quelle che si insedieranno può beneficiare di speciali condizioni in relazione agli investimenti e alle attivita’ di sviluppo d’impresa.

Tra le novità si prevede l’istituzione di un portale web della ZES unica che fornirà  tutte le informazioni sui benefici riconosciuti alle imprese nella ZES unica e garantirà l’accessibilità allo sportello unico digitale, S.U.D ZES.

Le imprese che intendono avviare attività economiche, ovvero insediare attività industriali, produttive e logistiche all’interno della ZES unica, dovranno presentare, allo  sportello unico digitale, S.U.D ZESl’istanza, allegando la documentazione e gli eventuali elaborati progettuali previsti dalle normative di settore, per consentire alle amministrazioni competenti la compiuta istruttoria tecnico-amministrativa, finalizzata al rilascio di tutte le autorizzazioni, intese, concessioni, licenze, pareri, concerti, nulla osta e assensi comunque denominati, necessari alla realizzazione e all’esercizio del medesimo progetto.

Credito d’imposta per investimenti nella Zes Unica per il 2024

Per l’anno 2024 e fino al 2026, alle imprese che effettuano l’acquisizione dei beni strumentali, destinati a strutture produttive ubicate nelle zone assistite delle regioni Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna e Molise, ammissibili alla deroga prevista dall’articolo 107, paragrafo 3, lettera a), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e nelle zone assistite della regione Abruzzo, ammissibili alla deroga prevista dall’articolo 107, paragrafo 3, lettera c), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come individuate dalla Carta degli aiuti a finalita’ regionale 2022-2027, viene concesso un contributo, sotto forma di credito d’imposta, nella misura massima consentita dalla medesima Carta degli aiuti a finalità regionale 2022-2027 e nel limite massimo di spesa definito.

Sono agevolabili gli investimenti, facenti parte di un progetto di investimento iniziale come definito all’articolo 2, punti 49, 50 e 51, del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, relativi:

  • all’acquisto, anche mediante contratti di locazione finanziaria, di nuovi macchinari, impianti e attrezzature varie destinati a strutture produttive già esistenti o che vengono impiantate nel territorio,
  • nonché all’acquisto di terreni e all’acquisizionealla realizzazione ovvero all’ampliamento di immobili strumentali agli investimenti. Il valore dei terreni e degli immobili non può superare il 50% del valore complessivo dell’investimento agevolato.

Portale web della ZES unica

Al fine di favorire una immediata e semplice conoscibilità della ZES unica e dei benefici connessi, è istituito il portale web della ZES unica.

Sportello Unico Digitale ZES – S.U.D. ZES

Dal 1° gennaio 2024 viene istituito lo Sportello Unico Digitale ZES (S.U.D. ZES) per le attività produttive nella ZES unica per il Mezzogiorno, nella Struttura di missione per le ZES presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con funzioni di sportello unico per le attività produttive (SUAP) per i procedimenti di autorizzazione unica per l’avvio di attività economiche o l’insediamento di attività industriali, produttive e logistiche all’interno della ZES Unica.

 

 

 

 

 

L’usura: di che cosa si tratta e come è disciplinata?

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USURA
USURA

Premessa.

Nell’ambito della consulenza alle imprese, lo scrivente Avvocato si soffermerà su un fenomeno di rilievo tanto civilistico quanto penalistico: la fattispecie di usura.

Usura: la definizione

L’usura bancaria è una particolare forma di usura (reato previsto dall’art. 644 c.p. e modifiche apportate dalla Legge 7 marzo 1996, n. 108) che consiste nell’erogazione di un credito (mutuo, prestito personale) concesso da un istituto finanziario (banca, finanziaria) a fronte di un tasso di interesse superiore a quello legale cosiddetto tasso di interesse usurario la cui determinazione viene fatta tenendo conto “delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito”.

La normativa di riferimento

La tematica degli interessi usurari è stata oggetto negli anni di rilevanti interventi legislativi (l. n. 108/1996, che ha modificato le previsioni normative penali e civili in materia, e L. n. 24/2001, di interpretazione autentica) nonché di significativi mutamenti giurisprudenziali (da ultimo Cass., Sez. Un., n. 24675/2017 e n. 16303/2018).

Il quadro normativo vigente è rappresentato dalla l. 7.3.1996, n. 108, Disposizioni in materia di usura, nonché dal d.l. 29.12.2000, n. 394, Interpretazione autentica della l. 7.3.1996, n. 108, convertito, con modificazioni, in l. 28.2.2001, n. 24. In particolare, la l. n. 108/1996, nel dichiarato intento di contrastare l’odioso fenomeno criminale dell’usura agevolandone la repressione e inasprendo le sanzioni civili e penali, ha provveduto a ridisegnare l’art. 644 c.p. e l’art. 1815 c.c. Completano il quadro delle fonti normative le Istruzioni per la rilevazione dei tassi effettivi globali medi (TEGM) ai sensi della legge sull’usura della Banca d’Italia e i Decreti del Ministero dell’Economia e delle Finanze che trimestralmente pubblicano sulla Gazzetta Ufficiale i TEGM rilevati dalla Banca d’Italia per conto del MEF (che concorrono alla definizione del tasso-soglia di periodo per la categoria di operazioni rilevate).

Quando un tasso è usurario

Il legislatore, con il d.l. 29.12.2000, n. 394 (c.d. Decreto “salva banche”), convertito, con modificazioni, in l. 28.2.2001, n. 24, “Interpretazione autentica della L. 7.3.1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura”, ha stabilito, in chiave di interpretazione autentica, che «ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815 c.c., 2° comma, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento» (art. 1, comma 1, d.l. n. 394/2000, convertito in l. n. 24/2001).

Per il legislatore, pertanto, soltanto in caso di interessi originariamente usurari trova applicazione la sanzione civilistica di nullità (art. 1815, comma 2, c.c.) prevista dalla normativa antiusura, oltre alla sanzione penale. È convincimento diffuso che la l. n. 24/2001, di interpretazione autentica, trovi applicazione non soltanto al contratto di mutuo, ma a tutti i contratti di finanziamento. L’usura originaria costituisce dunque un vizio genetico del contratto (non configurabile ex post: c.d. usura sopravvenuta), da verificare esclusivamente al momento dell’insorgenza del vincolo contrattuale («convenuti interessi usurari»: art. 1815, comma 2, c.c.). Se tale è l’assunto di fondo, la clausola contrattuale è illecita e viola l’art. 644 c.p. se il tasso pattuito per quell’onere supera la soglia di legge nel momento della sua pattuizione, ma non può diventarlo per sopravvenienze (la diminuzione del tasso soglia), per il fatto colpevole del debitore (inadempimento) o per l’esercizio da parte sua del diritto potestativo di estinzione anticipata del finanziamento.

L’usura nel codice penale: articolo 644 c.p.

L’art. 644 c.p., oltre a sanzionare «Chiunque … si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari» (comma 1), prevede un criterio obiettivo per la rilevazione dell’usurarietà dell’interesse: «la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari» (art. 644, comma 3, c.p.). Tale limite, denominato anche “tasso-soglia”, è individuato, come detto, con decreto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) il quale «sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferiti ad anno degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari … nel corso del trimestre precedente per operazioni della stessa natura» (art. 2, comma 1, l. n. 108/1996).

In sostanza, la legge ha previsto una procedura amministrativa volta a rilevare in modo oggettivo il livello medio dei tassi d’interesse praticato dalle banche e dagli altri intermediari finanziari autorizzati, ancorando il disvalore sociale collegato al concetto di usura al superamento di tale livello-soglia. Di conseguenza, la norma di cui all’art. 644 c.p. si presenta come una norma penale parzialmente in bianco, in quanto per determinare il contenuto concreto del precetto penale è necessario fare riferimento ai risultati di una articolata procedura amministrativa.

Usura e sanzioni: l’articolo 1815 c.c.

L’art. 1815, comma 2, c.c., come riformulato dall’art. 4, l. n. 108/1996, dispone che «se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi». Tale drastica previsione – che evidentemente riguarda gli interessi usurari ab origine, ossia al momento della pattuizione del contratto di mutuo – costituisce una rilevante sanzione di tipo civilistico (taluni parlano di pena privata), essendo destinata ad incidere sulla natura del finanziamento, degradandolo d’imperio da oneroso a gratuito (nullità della clausola usuraria). Alla base di questa rigorosa scelta, il legislatore ha posto la duplice necessità di sanzionare drasticamente la pratica dell’usura nonché di conservare la validità del contratto di finanziamento, evitando la declaratoria di nullità totale dello stesso e quindi non gravando il soggetto finanziato dell’ulteriore onere di immediata restituzione dell’importo erogato.

La nullità della clausola sugli interessi usurari determina il diritto del mutuatario alla ripetizione di quelli illegittimamente versati. L’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c. degli interessi usurari si prescrive in dieci anni. La disposizione in commento (art. 1815, comma 2, c.c.) è generalmente ritenuto trovi applicazione a tutte le forme di finanziamento (e non solo al mutuo cui espressamente si riferisce). La Cassazione ha di recente evidenziato che l’art. 1815, comma 2, c.c., nel prevedere la nullità della clausola relativa agli interessi, ove questi siano usurari, intende per clausola la singola disposizione pattizia che contempli interessi eccedenti il tasso soglia, indipendentemente dal fatto che essa esaurisca la regolamentazione dell’entità degli interessi dovuti in forza del contratto. La sanzione dell’art. 1815, comma 2, c.c., dunque, non può che colpire la singola pattuizione che programmi la corresponsione di interessi usurari, non investendo le ulteriori disposizioni che, anche all’interno della medesima clausola, prevedano l’applicazione di interessi che usurari non siano (Cass. n. 21470/2017).

Utility per il credito d’imposta beni strumentali 📌

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Soldi

Con l’articolo 1, comma da 184 a 197, della Legge 160/2019 (Legge di Bilancio per il 2020) è stato introdotto, in sostituzione del c.d. superammortamento e iperammortamento, un credito d’imposta per le spese sostenute a titolo di investimento in beni strumentali nuovi in relazione agli investimenti effettuati nell’anno 2020.

L’articolo 1, commi da 1051 a 1063, della Legge 178/2020 (legge di bilancio 2021), ha riformulato la disciplina del credito d’imposta per gli investimenti in beni strumentali nuovi materiali e immateriali destinati a strutture produttive ubicate nel territorio dello Stato.

La menzionata disciplina si pone in linea di continuità con il precedente intervento, operato dalla Legge di bilancio 2020, nell’ambito della ridefinizione della disciplina degli incentivi fiscali previsti dal “Piano nazionale Impresa 4.0” ed ha esteso il periodo di investimento agli anni 2021 e 2022.

La novità più importante recata dalla citata Legge n. 160 del 2019 in materia di agevolazioni per gli investimenti in beni strumentali ha riguardato la “trasformazione” del beneficio, accordato dalle precedenti normative in forma di maggiorazione del costo rilevante agli effetti delle quote di ammortamento deducibili dal reddito d’impresa (o di lavoro autonomo), in forma di credito d’imposta utilizzabile esclusivamente in compensazione.

Successivamente, con l’articolo 1, comma 44, della Legge 234/2021, il benefico è stato ulteriormente esteso, limitatamente ai beni tecnologicamente avanzati c.d. 4.0, agli anni 2023, 2024 e 2025.

La realizzazione di questa utility dedicata, si pone l’obiettivo di agevolare le imprese alla conoscenza del credito d’imposta sopra menzionato, previsto dal Piano Transizione 4.0.

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SCARL e RETE D’IMPRESA: figura giuridica, vicende modificative e profili giuridico-fiscali

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Premessa

Nell’ambito della consulenza alle imprese, lo scrivente Avvocato si soffermerà su specifiche vicende modificative che danno luogo a fenomeni di trasformazione nell’ambito societario.

Il fenomeno ‘Scarl’: di che cosa si occupa e come funzionano le attività consortili

Tra le diverse formule di società previste dall’ordinamento nel nostro paese, esistono anche le Scarl. Una sigla che ricorre spesso e che indica le società di tipo consortile. Lo scopo principale di questo tipo di attività economica non è di raggiungere un utile che possa essere diviso tra i vari soggetti appartenenti al consorzio, ma di conseguire una serie di vantaggi per la propria impresa.

In pratica, coloro che fanno parte della Scarl possono ottenere, attraverso la loro attività, un margine significativo di risparmio sui costi di produzione o di aumento dei prezzi dei prodotti venduti. Insomma, le società consortili rappresentano un insieme di aziende che intendono accordarsi sulla realizzazione e l’offerta dei prodotti o servizi delle rispettive aziende tracciando delle precise linee guida per gli operatori del settore. Nessuna delle aziende presenti nella Scarl può avere, come unica attività, la partecipazione al consorzio. Si tratta di un tema delicato che merita un dovuto approfondimento.

Scarl: come funzionano?

Un funzionamento molto semplice caratterizza le società consortili. A regolarne l’attività è l’ex articolo 2602 del Codice Civile che prevede che uno o più imprenditori possano mettere in piedi, in comune accordo, un’organizzazione che regoli la realizzazione di particolari fasi di produzione. Insomma un tipo di entità che si discosta radicalmente dalle “classiche società” per la mancanza di un’attività di impresa.

Tutti gli utili che vengono prodotti dai singoli consorziati rientrano esclusivamente nelle loro attività. Ed è proprio questa una delle caratteristiche principali delle Scarl: la mancata produzione di utili. E’ la realizzazione di significativi vantaggi a chi opera in un determinato settore a rappresentare, infatti, la prerogativa degli enti consortili. Ma in alcuni casi l’attività, fino ad ora descritta, può anche assumere le caratteristiche di una vera e propria società commerciale. Non è vietato, infatti, per le società consortili operare a scopo di lucro. C’è da dire, riguardo quest’ultimo aspetto, che la distribuzione degli utili può avvenire in maniera esclusivamente eccezionale e marginale.

Si tratta di un aspetto regolato dall’articolo 2615 del Codice Civile mentre il 2602 prevede che le società consortili possano anche svolgere attività con i terzi, anche non finalizzato all’ottenimento di lucro, ma, come detto, a raggiungere vantaggi per i singoli imprenditori del consorzio attraverso, ad esempio, il contenimento dei costi di produzione. 

Quando conviene la fondazione di una Scarl?

Sono diversi gli ambiti nei quali si applica questa formula rientra senza dubbio l’edilizia. In questo caso gli imprenditori si costituiscono in un unico consorzio partecipando agli appalti. L’aggiudicazione di un lavoro porta a significativi vantaggi per tutte le aziende poiché, i vari interventi da realizzare, vengono spartiti tra le imprese che compongono il consorzio. 

Insomma si tratta di una formula che può rappresentare un significativo vantaggio soprattutto per le piccole imprese per la partecipazione ad appalti pubblici dai quali, altrimenti, verrebbero escluse. Ma quali sono le responsabilità che ricadono sulle varie aziende del consorzio?

Responsabilità per le aziende del Consorzio: cosa prevede la normativa?

Può accadere che, in un unico consorzio, siano presenti società a responsabilità limitata o attività di diversa natura. Cosa accade in questo caso? Le legge prevede che, per quanto riguarda le obbligazioni sociali, le attività che ricadono nella categoria Srl rispondono esclusivamente per il patrimonio aziendale.

Una significativa eccezione è prevista, però, dall’articolo 2615  del Codice Civile, al comma 2. Nel caso di consorzi con attività esterna è prevista la responsabilità “solidale” dei singoli imprenditori attraverso il fondo consortile.

I membri di una società a responsabilità limitata consortile, in sostanza, continuano a mantenere questo tipo di condizione, cioè limitata alle obbligazioni sociali. Non vengono assunte responsabilità proprie dei consorzi nemmeno se, alla costituzione della Scarl, siano stati versati dei contributi in denaro.

Reti di imprese: cosa sono, come funzionano e quali vantaggi offrono

Cosa sono le reti d’impresa e come funzionano reti contratto e reti soggetto, le due forme giuridiche tra cui è possibile scegliere.

In un periodo di costante crisi economica ed in certi settori di crescente crisi economica le reti di imprese possono rappresentare uno strumento giuridico economico di cooperazione tra imprese avente lo scopo: “di accrescere individualmente e collettivamente la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato”.

Cosa sono le reti di impresa e quali vantaggi offrono?

La rete di impresa è un contratto che consente ai partecipanti di mettere in comune attività e risorse per migliorare il funzionamento aziendale e rafforzare conseguentemente la competitività delle aziende che ne fanno parte; è uno strumento attraverso il quale le imprese hanno l’opportunità di realizzare, attraverso la collaborazione con altri soggetti, obiettivi ambiziosi, ad esempio l’inserimento in aree di mercato a livello internazionale che da sole non potrebbero raggiungere a causa delle ridotte dimensioni aziendali, accrescendo quindi la propria competitività senza tuttavia rinunciare alla propria autonomia giuridica individuale.

Inoltre, la rete d’impresa è una soluzione che aiuta a fronteggiare la crisi economica, come emerge dal 3° rapporto dell’Osservatorio Nazionale sulle Reti d’Impresa.

Elemento fondamentale che connota le diverse tipologie di rete è il “programma comune di rete” sulla base del quale i contraenti si obbligano: a collaborare in forme e ambiti predeterminati attinenti l’esercizio delle proprie imprese, come ad esempio la creazione di gruppo di acquisto o la creazione di un marchio comune; a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica, come ad esempio lo scambio di informazioni commerciali o lo scambio di prodotti; ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa, come ad esempio l’attività di ricerca e sviluppo o la condivisione di piattaforme logistiche.

Come si costituiscono le reti di impresa?

Da un punto di vista normativo la rete è stata istituita dall’art. 3, co. 4-ter, del D.L. n. 5/2009; nel corso degli anni vi sono state poi importanti modifiche normative ad opera del D.L. n. 83/2012 e del D.L. n. 179/2012.

Il contratto di rete di impresa deve essere redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata; può prevedere l’istituzione di un fondo patrimoniale comune e la nomina di un organo comune incaricato di gestire in nome e per conto dei partecipanti l’esecuzione del contratto o di singole parti di esso.

Affinché sia valido il contratto di rete deve contenere alcuni elementi essenziali quali:

  • il nome, la ditta, la ragione o denominazione sociale di ogni partecipante per originaria sottoscrizione del contratto o per adesione successiva;
  • gli obiettivi strategici di innovazione e di innalzamento della capacità competitiva dei partecipanti e le modalità concordate tra gli stessi per misurare l’avanzamento verso tali obiettivi;
  • la definizione di un programma di rete che contenga l’enunciazione dei diritti e degli obblighi assunti da ciascun partecipante, le modalità di realizzazione dello scopo comune, se prevista l’istituzione di un fondo comune la misura ed i criteri di valutazione dei conferimenti inziali e degli eventuali conferimenti successivi che ciascun partecipante di obbliga a versare al fondo nonché le regole di gestione del fondo medesimo;
  • la durata del contratto;
  • le modalità di adesione degli altri imprenditori;
  • se il contratto di rete prevede l’istituzione dell’organo comune, il nome, la ditta, la ragione sociale o la denominazione del soggetto prescelto per svolgere l’ufficio;
  • le regole per l’assunzione delle decisioni dei partecipanti su ogni materia o aspetto di interesse comune;
  • se pattuite le cause facoltative di recesso anticipato e le condizioni per l’esercizio del relativo diritto.

Da un punto di vista procedurale una volta sottoscritto il contratto di rete di impresa è necessario iscriverlo nella sezione del registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante, tenendo presente che l’efficacia del contratto inizia a decorrere da quando è stato eseguito l’ultimo degli adempimenti a carico di tutti coloro che sono stati sottoscrittori originari.

Ad oggi nell’attuale contesto normativo, per opera delle modifiche legislative che sono state introdotte, gli imprenditori che intendono costituire una rete possono sostanzialmente scegliere tra due diverse forme giuridiche:

  • la rete contratto;
  • la rete soggetto.

Le due tipologie di contratto presentano caratteristiche molto diverse tra di loro e la scelta tra l’una o l’altra comporta importanti conseguenze da un punto di vista organizzativo e fiscale.

La rete soggetto

La rete soggetto, nel caso in cui la rete di imprese sia dotata di un fondo patrimonialepuò decidere di acquisire soggettività giuridica; a tal fine si dovrà iscrivere il contratto di rete nella sezione ordinaria del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede.

Acquisendo soggettività giuridica la rete diventa un nuovo soggetto di diritto, distinto dalle imprese partecipanti, capace quindi di porre in essere autonomamente rapporti giuridici che acquisiscono rilevanza anche da un punto di vista fiscale (la rete – soggetto sarà pertanto obbligata alla tenuta delle scritture contabili, dovrà dotarsi di partita iva nel caso in cui eserciti attività commerciale e sarà soggetta a tassazione ai fini delle imposte dirette).

La rete contratto

La rete contratto diversamente dalla “rete soggetto”, che è titolare delle situazioni giuridiche soggettive derivanti dall’attuazione del programma di rete, nella “rete contratto” gli atti posti in essere in esecuzione del programma di rete producono i loro effetti direttamente nelle sfere giuridiche dei partecipanti; pertanto la stipula di una rete – contratto non comporta l’estinzione, né la modificazione della soggettività tributaria delle imprese che aderiscono all’accordo, né l’attribuzione di soggettività tributaria alla rete risultante dal contratto stesso.

La simulazione: fenomeno giuridico nella disciplina del diritto privato e diritto societario

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LA SIMULAZIONE
EFFETTI DELLA SIMULAZIONE

Premessa

La simulazione si ha quando le parti, d’accordo, pongono in essere deliberatamente dichiarazioni difformi dall’interno volere. I motivi per cui le parti possono simulare una realtà diversa possono essere i più disparati: far apparire come altrui un bene che si vuole sottrarre ad azioni esecutive; motivi fiscali; stipulare una finta vendita per dissimulare una donazione onde evitare l’azione di riduzione. Non sempre comunque la simulazione è preordinata a frodare i terzi o perlomeno a raggiungere fini illeciti; si fa l’esempio del contratto simulato stipulato ad pompam, oppure per motivi di riservatezza,
Il negozio simulato infatti presenta aspetti assai singolari: abbiamo una realtà giuridica finta, quindi un inganno, a cui però il legislatore attribuisce effetti. Abbiamo cioè un negozio, abilitato dalla stessa legge a non produrre effetto alcuno (o produrne diversi) rispetto a quelli tipici. Il che pone all’interprete il seguente dilemma: il negozio simulato è illecito, e dunque il legislatore lo ha disciplinato unicamente in vista di determinati effetti? Oppure le parti, n
Nell’ambito della loro autonomia privata, possono concludere contratti simulati dato che, in effetti, la stessa legge mostra di ritenerli meritevoli di tutela e li considera ammissibili (come è dimostrato dagli articoli 1414 e ss.)?

Simulazione assoluta o relativa

La simulazione è assoluta quando le parti pongono in essere un negozio ma in realtà non ne vogliono nessuno.
È relativa quando pongono in essere un negozio diverso (ad esempio stipulano una compravendita ma in realtà vogliono una donazione).
Se la simulazione è assoluta, dice l’articolo 1414, il contratto simulato non produce effetto tra le parti.
Se la simulazione è relativa, invece, ha effetto tra esse il contratto dissimulato, purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma.

Simulazione totale o parziale

A seconda che il negozio sia simulato per intero o parzialmente (cioè in un singolo elemento o solo in alcune parti, come la data il prezzo o i soggetti) la simulazione è totale o parziale.
In realtà si è osservato che questa distinzione non ha pregio, perché la simulazione relativa è sempre, anche parziale; ad es. se io simulo una vendita, ma in realtà il negozio è una donazione, la simulazione attiene alla causa, cioè ad un elemento del contratto.

Simulazione soggettiva e oggettiva

La simulazione è oggettiva o soggettiva a seconda che sia simulato il soggetto del negozio o l’oggetto. La simulazione soggettiva prende il nome di interposizione di persona.
Natura giuridica della simulazione
La tesi del contrasto tra volontà e dichiarazione
Secondo la tesi tradizionale il fenomeno della simulazione si spiega in termini di contrasto tra voluto e dichiarato. Le parti cioè pongono in essere un negozio diverso da quello apparente, valido per i terzi ma non tra di esse, al fine di ingannare, e quindi il nucleo del fenomeno simulatorio è ravvisabile in questa divergenza tra la volontà e la dichiarazione.
Contro questa teoria si è detto che in realtà non c’è alcuna divergenza tra voluto e dichiarato; le parti pongono in essere una fattispecie complessa, ma che è realmente voluta, costituita due negozi aventi finalità differenti, ma comunque in linea con le finalità delle parti: il primo è il negozio dissimulato, voluto, e il secondo è il negozio volto a creare l’apparenza diversa. Si tratta di due negozi, ma non c’è alcun contrasto tra volontà e dichiarazione, perché ciascuno dei due negozi è voluto e ha una propria finalità ben precisa.

Elementi essenziali e non essenziali

La simulazione consta, quindi, di quattro elementi, di cui due essenziali e due eventuali.
1) il negozio simulato (cioè il negozio che appare all’esterno;
2) il negozio dissimulato (cioè quello interno, realmente voluto);
3) l’accordo simulatorio o la volontà di simulare;
4) una eventuale controdichiarazione.
Per ciascuno di essi può darsi una ricostruzione differente, si che risulta poi impossibile spiegare in modo appagante tutto l’istituto, perché ciascuna di queste ricostruzioni si combina poi in modo differente con le altre, relative agli ulteriori elementi. In effetti le difficoltà teoriche nella ricostruzione dell’istituto sono tutte qui e i motivi per cui ancora non è stata trovata una sistemazione teorica all’istituto sono da rinvenire sono nella molteplicità degli elementi di cui si compone cui corrisponde una varietà di ricostruzioni dottrinali che numericamente sono elevate al quadrato.
Inoltre, nel momento in cui si passa a spiegare il problema di fondo dell’istituto, e cioè come sia possibile che un contratto formalmente perfetto e completo in tutti i suoi elementi possa non avere effetto tra le parti, nascono visioni totalmente differenti, a seconda che si veda il fulcro dell’istituto nell’accordo, nella controdichiarazione o nel negozio simulato.
Insomma, è solo per questo che molti autori sostengono che quello della natura giuridica e dell’essenza della simulazione è un problema ancora aperto, o, addirittura, rinunciano a prendere posizione.
Non resta quindi che passare in rassegna i singoli elementi del negozio simulato e vedere per ognuno di essi lo stato del dibattito dottrinale.

Il negozio simulato

Il negozio simulato è quello apparente, cioè quello destinato ad avere effetti nei riguardi dei terzi.
Secondo una prima teoria tale negozio sarebbe nullo tra le parti, ma produttivo di effetti nei riguardi del terzi. La nullità discenderebbe dalla mancanza di un elemento essenziale, salvo poi a discutere su quale sia questo elemento: la volontà, per alcuni autori, la causa, per altri.
A tale teoria sono state mosse numerose obiezioni.
Anzitutto si tratterebbe di una nullità anomala, perché non potrebbe pensarsi che un atto sia nullo tra le parti ma valido versi i terzi.
In secondo luogo, al negozio simulato non manca alcun elemento essenziale, in quanto la volontà c’è, solo che è diretta a produrre effetti diversi; il negozio è in realtà perfetto e completo di tutti i suoi elementi ma, in virtù dell’accordo simulatorio che intercorre tra le parti, è destinato a non produrre alcun effetto. Si tratta di un fenomeno, cioè, che corrisponde in pieno alla volontà delle parti.
In terzo luogo – ma si tratta di un’affermazione assolutamente discutibile – il fenomeno della simulazione non contrasterebbe con nessuno principio fondamentale dell’ordinamento, tale da giustificarne il vizio in termini di nullità.
Infine il giudice non potrebbe rilevare d’ufficio la simulazione, essendo questo un compito che spetta alle parti.

Il negozio dissimulato

Il negozio dissimulato è quello reale, che le parti vogliono effettivamente.
Ci si è chiesti quale forma debba rivestire il negozio dissimulato. la legge non è molto chiara al riguardo perché, nel momento in cui dice “ha effetto tra esse il negozio dissimulato purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma” non si capisce se tali requisiti vadano riferiti al negozio simulato o a quello dissimulato.
I requisiti di forma, sono quelli che la legge prescrive per la validità del contratto.
I requisiti di sostanza sono anzitutto gli effetti (reali o obbligatori, ad esempio) nonché quelli attinenti al contenuto, cioè i requisiti di possibilità, determinatezza, liceità. Altri autori hanno detto che la medesimezza dei requisiti di sostanza ricorrerebbe quando ci sia una “corrispondenza almeno parziale del precetto del negozio simulato col regolamento di interessi occultamente disposto” (Betti).
Quindi, ad esempio, le parti non potrebbero concludere una vendita che dissimula una locazione, perché i requisiti di sostanza sono diversi, l’uno avendo effetti reali e l’altro effetti obbligatori. Né una vendita di cosa futura potrebbe dissimulare una donazione, dal momento che la donazione non può avere ad oggetto beni futuri.
Anche se qualche autore, come Carresi, sostiene che tali requisiti debbano essere presenti nel negozio dissimulato, è preferibile l’opinione che ritiene che essi debbano riferirsi al negozio simulato anche perché, nell’esempio della donazione simulata mediante una finta vendita, sembra assurdo pretendere che il negozio occulto (cioè la donazione) debba essere redatta con una controdichiarazione nelle forme prescritte per legge, attesa la pubblicità che è richiesta per l’atto pubblico.
I requisiti di forma e sostanza andrebbero quindi riferiti al negozio simulato, il quale contiene quello dissimulato.
In realtà a noi sembra che questo sia un falso problema. Il negozio e il contronegozio, infatti, saranno di regola contenuti nello stessi documento e quindi i requisiti di forma e sostanza di cui parla la legge saranno sempre presenti in entrambi i negozi.

L’accordo simulatorio

L’accordo simulatorio consiste nell’intesa tra le parti mirante a far divergere la realtà dall’apparenza.
L’accordo simulatorio non va confuso con il negozio dissimulato. Tra accordo simulatorio e negozio dissimulato passa la stessa differenza che c’è tra la nozione di contratto e quella di accordo tra le parti (articolo 1321). Come le parti di un contratto qualsiasi prima raggiungono un accordo e poi lo trasfondono nel documento contrattuale, si che risultano distinti l’accordo (antecedente) e il contratto (successivo), così le parti della simulazione devono in precedenza accordarsi su esso. L’accordo simulatorio cioè da origine al negozio dissimulato e si esternerà in quest’ultimo, senza però confondersi con esso.

Effetti tra le parti

In caso di simulazione assoluta il contratto non ha effetto tra le parti, e la situazione giuridica rimane immutata.
In caso di simulazione relativa, invece, tra le parti produce effetto il contratto dissimulato.
Ci si domanda se il contratto simulato, che, come abbiamo detto, è viziato, possa essere convalidato. La risposta, ovviamente, deriva dalla diversa ricostruzione che si accoglie in ordine al vizio da cui è affetto il negozio simulato; propendono per la tesi positiva coloro che vi ravvisano una forma di annullabilità, o di inefficacia mentre propendono per l’opinione negativa coloro che vi ravvisano una nullità o addirittura l’inesistenza.
La giurisprudenza invece è sempre stata per l’opinione negativa.
Tuttavia a noi sembra che la questione sia in questo modo mal impostata. A parte infatti il non secondario rilievo che, anche a voler accogliere la teoria della nullità, questa si atteggia in modo differente dagli altri casi di nullità previsti dal codice, e non trova il suo fondamento nell’interesse pubblico, c’è da dire che se la nullità discende dall’avere le parti stipulato un secondo contratto (quello dissimulato) che toglie efficacia al primo, allora per dare vita al negozio apparente è sufficiente porre nel nulla quello dissimulato. Il Bianca, infatti, sostiene che può rendersi efficace un negozio simulato revocando quello dissimulato.

Effetti rispetto ai terzi

Nei confronti dei terzi la regola è fissata dall’articolo 1415: La simulazione non può essere opposta né dalle parti contraenti, né dagli aventi causa o dai creditori del simulato alienante, ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di simulazione.
In altre parole:
• i terzi che hanno acquistato diritti dal titolare apparente, cioè dal simulato acquirente, non possono essere pregiudicati dalla simulazione; nei loro confronti vale cioè l’apparenza rispetto alla realtà;
• i terzi che acquistano in buona fede dal simulato alienante faranno valere la simulazione, che non può essere opposta loro; nei loro confronti vale quindi la realtà e non l’apparenza;
• nel conflitto tra terzi che hanno acquistato diritti dal simulato acquirente e terzi che hanno acquistato dal simulato alienante, prevalgono i primi; vale a dire che in tal caso torna a prevalere l’apparenza, per l’esigenza di evitare che la simulazione possa pregiudicare la certezza nella circolazione del diritti;
• se però la trascrizione dell’acquisto è effettuata dopo la trascrizione della domanda di simulazione, allora il terzo perde il diritto acquistato; prevale
Terzi sono coloro che sono estranei all’accordo simulatorio. Saranno terzi quindi gli aventi causa a titolo particolare dal simulato acquirente ma non quelli a titolo universale.
Rispetto a questi ultimi produce effetto il contratto simulato. Va ricordato però che il legittimario leso nella quota di legittima da un atto posto in essere dal de cuius non è considerato parte ma terzo.

Effetti rispetto ai creditori

Quanto ai creditori, una prima regola è quella valevole in generale per qualunque terzo, cioè che i creditori del titolare apparente non subiscono danni dalla simulazione.
Nel conflitto tra un avente causa dal simulato alienante in buona fede e dal simulato acquirente prevale il primo.
Il creditore privilegiato è parificato ad un avente causa. I conflitti si risolvono in base alla regola della trascrizione.
Nel conflitto tra un creditore del simulato alienante e uno del simulato acquirente occorre vedere quando è sorto il credito;
a) se è sorto prima della simulazione prevale il creditore del simulato alienante.
b) Se il credito è sorto posteriormente alla stipula dell’atto prevale il creditore del simulato acquirente se questi ha trascritto la sua domanda prima della trascrizione del pignoramento da parte del creditore del simulato acquirente.
c) Se il creditore del simulato acquirente ha un privilegio speciale prevale sul creditore del simulato alienante.

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