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Dichiarazione IVA 2025: scadenze, obblighi, novità e come evitare errori

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Con l’arrivo della scadenza del 30 aprile 2025, imprese e professionisti sono chiamati a presentare la Dichiarazione IVA 2025 relativa all’anno d’imposta 2024. Una scadenza fondamentale che comporta non solo adempimenti formali ma anche conseguenze fiscali importanti in caso di ritardi o errori.

In questo articolo analizziamo tutte le regole da seguire, le novità introdotte, e soprattutto come evitare sanzioni e ottimizzare la gestione dell’IVA.

L’obiettivo è aiutare il contribuente, o chi lo assiste, a risparmiare tempo e denaro, gestendo in maniera efficiente e consapevole un adempimento che non è mai solo burocratico, ma anche strategico.

Chi deve presentare la Dichiarazione IVA 2025

La Dichiarazione IVA deve essere presentata da tutti i soggetti passivi d’imposta che, nel corso del 2024, hanno esercitato attività rilevanti ai fini IVA. Parliamo quindi di imprese individuali, società, liberi professionisti, enti non commerciali che svolgono attività commerciale in modo occasionale o continuativo. Non rileva il regime contabile adottato: anche chi è in regime forfettario o dei minimi potrebbe essere tenuto alla dichiarazione in casi specifici.

Sono invece esonerati dalla presentazione:

  • I contribuenti che hanno realizzato solo operazioni esenti (art. 10 DPR 633/72) e non hanno detratto l’IVA;

  • I soggetti che si sono avvalsi del regime forfettario o di vantaggio, salvo che abbiano effettuato operazioni intracomunitarie o con l’estero;

  • I contribuenti non residenti che hanno nominato un rappresentante fiscale o identificati direttamente.

 È fondamentale capire se si rientra tra gli obbligati, anche solo per evitare omissioni che possono costare caro, con sanzioni che partono da 250 euro fino a 2.000 euro in caso di mancata dichiarazione.

Scadenze ufficiali e modalità di presentazione

Il termine per la presentazione della Dichiarazione IVA 2025, relativa all’anno d’imposta 2024, è fissato al 30 aprile 2025. A stabilirlo è il Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate n. 9491 del 15 gennaio 2025, con cui sono stati pubblicati il Modello IVA/2025 e le relative istruzioni ufficiali per l’adempimento, in conformità con l’articolo 8 del D.P.R. 322/1998, aggiornato dalle successive modifiche normative.

Inoltre, con un successivo Provvedimento n. 21479 del 28 gennaio 2025, sono state rese note anche le specifiche tecniche necessarie per la corretta trasmissione telematica della dichiarazione, sottolineando così l’obbligo di presentazione esclusivamente in via digitale.

La trasmissione può avvenire secondo quattro modalità:

  • Direttamente dal contribuente tramite i servizi telematici dell’Agenzia (Entratel o Fisconline);

  • Tramite un intermediario abilitato, come un commercialista o consulente fiscale;

  • Per il tramite di soggetti incaricati, nel caso di Amministrazioni dello Stato;

  • Tramite società del gruppo, nei casi previsti dall’art. 3, comma 2-bis, del DPR 322/1998.

La dichiarazione si considera presentata regolarmente solo nel momento in cui l’Agenzia delle Entrate conferma la ricezione dei dati. A tal fine, viene rilasciata una ricevuta telematica che costituisce prova legale dell’avvenuta trasmissione.

Modelli IVA/2025 e IVA BASE

Con il Provvedimento n. 9491/2025, l’Agenzia delle Entrate ha ufficializzato la pubblicazione dei modelli IVA/2025 e IVA BASE/2025, entrambi riferiti al periodo d’imposta 2024. La scelta tra uno e l’altro dipende dalla tipologia di contribuente e dalla complessità delle operazioni IVA effettuate durante l’anno fiscale. È quindi importante conoscere la struttura e i quadri inclusi per capire quale modello compilare.

Il Modello IVA/2025 ordinario è composto da:

  • Il frontespizio, che comprende anche l’informativa sul trattamento dei dati personali;

  • I quadri: VA, VC, VD, VE, VF, VJ, VH, VM, VK, VN, VL, VP, VQ, VT, VX, VO, VG, VS, VV, VW, VY e VZ, necessari per la dichiarazione completa di tutte le operazioni attive e passive, liquidazioni, rimborsi e versamenti.

Il Modello IVA BASE/2025, invece, è pensato per i contribuenti che hanno situazioni più semplici da dichiarare. Include:

  • Il frontespizio;

  • I quadri: VA, VE, VF, VJ, VH, VL, VP, VX e VT.

È fondamentale scegliere il modello corretto, perché la compilazione errata può generare scarti nella trasmissione o errori formali con conseguenze anche in termini sanzionatori. Inoltre, l’Agenzia ha ricordato che eventuali aggiornamenti dei modelli o delle istruzioni saranno sempre pubblicati nella sezione dedicata del sito ufficiale, con apposita comunicazione.

Un controllo preventivo dei quadri da compilare in base alle operazioni svolte nel 2024 è il primo passo per una dichiarazione IVA corretta e senza intoppi.

Soggetti obbligati ed esonerati

Come chiarito dall’Agenzia delle Entrate, sono tenuti alla presentazione della Dichiarazione IVA 2025 tutti i titolari di partita IVA che, nel corso del 2024, hanno esercitato attività d’impresa, arti o professioni, secondo quanto previsto dagli articoli 4 e 5 del DPR 633/1972.

Tuttavia, esistono casistiche particolari in cui l’obbligo si estende a soggetti specifici, come ad esempio:

  • Curatori fallimentari,

  • Eredi del contribuente deceduto,

  • Società incorporanti o beneficiarie in caso di fusione o scissione.

Sul fronte opposto, sono esonerati dalla dichiarazione IVA 2025 i contribuenti che rientrano in determinate situazioni agevolate o semplificate.

Tra questi:

  • Chi ha effettuato solo operazioni esenti (art. 10), senza obbligo di fatturazione e registrazione (art. 36-bis);

  • I soggetti in regime forfettario (Legge 190/2014, commi 54-89) o nel regime dei minimi (DL 98/2011, art. 27);

  • Produttori agricoli esonerati (art. 34, comma 6);

  • Chi organizza giochi e intrattenimenti (art. 74, comma 6) e non ha optato per il regime IVA ordinario;

  • Le imprese individuali che abbiano concesso in affitto l’unica azienda;

  • I soggetti passivi con sole operazioni non imponibili o esenti, prive di obbligo di versamento dell’imposta;

  • Le associazioni sportive dilettantistiche e culturali che adottano il regime 398/1991;

  • I soggetti non residenti identificati in Italia tramite art. 74-quinquies;

  • I raccoglitori occasionali di prodotti selvatici non legnosi o piante officinali, con volume d’affari sotto i 7.000 euro;

  • Le organizzazioni di volontariato e APS che hanno optato per il regime speciale agevolato.

È essenziale verificare con precisione la propria posizione fiscale: l’invio non dovuto può essere evitato, ma l’omissione da parte di soggetti obbligati comporta sanzioni rilevanti.

Le novità sul credito IVA e codice attività

Un contributo prezioso all’interpretazione delle novità di quest’anno arriva dalla Circolare n. 6 pubblicata da Assonime il 25 marzo 2025, che analizza approfonditamente i principali cambiamenti introdotti nel modello IVA/2025, soffermandosi in particolare sulla gestione dell’eccedenza di credito IVA e sulla nuova classificazione ATECO.

In materia di credito IVA, viene chiarito che l’eccedenza d’imposta detraibile indicata nel rigo VX2, eventualmente sommata all’importo presente nel rigo VX3 (relativo ai versamenti), deve essere ripartita nei righi VX4, VX5 e VX6.

Questi righi servono per indicare la destinazione del credito secondo quattro opzioni:

  • Riporto in detrazione nell’anno successivo;

  • Compensazione orizzontale con altri tributi e contributi;

  • Richiesta di rimborso (interamente o in parte);

  • Cessione al consolidato fiscale, per i soggetti aderenti al regime.

Assonime richiama l’attenzione sull’importanza di una corretta indicazione di questi dati, in quanto una scelta errata può compromettere l’accesso al rimborso o generare sanzioni per indebita compensazione.

Inoltre, la circolare affronta le nuove indicazioni sul codice attività da riportare nel rigo VA2, in relazione all’entrata in vigore della nuova classificazione ATECO 2025, operativa dal 1° aprile 2025. Sarà quindi obbligatorio aggiornare i codici attività, adeguandoli alla nuova codifica, pena lo scarto della dichiarazione o la sua inammissibilità.

Una novità tecnica che richiede attenzione e aggiornamento tempestivo per evitare errori nella compilazione.

Come gestire correttamente il credito IVA 2024

Uno degli aspetti più importanti della Dichiarazione IVA 2025 è la corretta gestione dell’eventuale credito IVA maturato nel 2024. Si tratta di un elemento che non solo impatta sulla liquidità aziendale, ma che può anche offrire vantaggi fiscali significativi, se gestito in modo attento e strategico.

Come visto, nel quadro VX del modello si deve indicare come si intende utilizzare l’eccedenza di imposta: lasciarla a credito per l’anno successivo, usarla in compensazione orizzontale con altri tributi (es. INPS, IMU, IRES, IRAP), richiederla a rimborso oppure cederla al consolidato fiscale. Ma qual è la scelta migliore?

  •  La compensazione orizzontale può essere particolarmente utile per le imprese che devono sostenere alti costi contributivi o tributi locali. In questo modo si evita l’esborso di cassa e si migliora la gestione finanziaria interna.
  • Il rimborso, invece, è da preferire in caso di crediti elevati e strutturali, come accade nei settori export o per chi sostiene ingenti acquisti di beni strumentali.

Attenzione: per accedere al rimborso è spesso necessaria la presentazione del visto di conformità o della garanzia fideiussoria, oltre al rispetto di alcuni requisiti soggettivi e oggettivi. Errori formali o mancanza dei requisiti possono bloccare il rimborso o causare contestazioni.

Una corretta pianificazione fiscale – anche con l’aiuto del proprio commercialista – consente non solo di evitare sanzioni, ma anche di trasformare il credito IVA in un’opportunità di risparmio legale e immediato.

 

Gli errori più comuni nella Dichiarazione IVA

Compilare correttamente la Dichiarazione IVA 2025 è un passaggio fondamentale non solo per adempiere agli obblighi fiscali, ma anche per evitare sanzioni che possono essere molto pesanti. L’Agenzia delle Entrate effettua controlli sempre più stringenti, anche grazie all’incrocio automatico dei dati tra fatture elettroniche, registri IVA e dichiarazioni annuali.

Ecco gli errori più frequenti che i contribuenti (e talvolta anche i professionisti) commettono:

  • Indicazione errata dei codici attività: con l’introduzione della nuova classificazione ATECO 2025 (operativa dal 1° aprile), un codice non aggiornato può generare lo scarto della dichiarazione.

  • Mancata o errata compilazione dei quadri VX: in particolare, una gestione scorretta del credito IVA (es. richiesta di rimborso non spettante) può attivare accertamenti e sanzioni.

  • Omissione di operazioni intracomunitarie: spesso sottovalutate, ma devono essere correttamente registrate anche se esenti da IVA.

  • Dimenticanza di rettifiche IVA (art. 19-bis2): nei casi di variazioni o cessazione attività, queste devono essere obbligatoriamente riportate.

  • Utilizzo di un modello sbagliato: ad esempio l’uso del Modello IVA BASE in situazioni che richiedono l’ordinario può causare problemi in fase di trasmissione.

  • Mancanza del visto di conformità, ove richiesto, per rimborsi superiori a 5.000 euro.

Le sanzioni per errori formali o dichiarazioni omesse possono variare da 250 a 2.000 euro, ma se vi è indebita detrazione o compensazione di crediti, si può arrivare a sanzioni pari al 30% del credito utilizzato.

Prevenire questi errori significa non solo evitare sanzioni, ma anche garantire una gestione fiscale corretta e trasparente.

Cosa fare in caso di errori

Anche con la massima attenzione, può capitare di commettere errori o dimenticanze nella compilazione della Dichiarazione IVA 2025. Fortunatamente, l’ordinamento fiscale italiano offre la possibilità di correggere spontaneamente le irregolarità tramite il cosiddetto ravvedimento operoso, evitando le conseguenze più gravi in termini di sanzioni.

In caso di:

  • Dichiarazione già inviata ma con errori formali (es. dati anagrafici, codici tributo, importi errati),

  • Omissione di righi obbligatori o quadri (come il VX o il VE),

  • Mancata presentazione della dichiarazione entro il termine del 30 aprile 2025,

è possibile inviare una dichiarazione integrativa nei termini previsti.

Ecco le soluzioni disponibili:

  1. Dichiarazione correttiva nei termini: se l’errore viene rilevato prima della scadenza (30 aprile 2025), si può semplicemente inviare una nuova dichiarazione che sostituisce la precedente.

  2. Dichiarazione integrativa: si può trasmettere una versione corretta della dichiarazione anche dopo la scadenza, fino al 31 dicembre del quinto anno successivo (quindi fino al 2030 per la dichiarazione 2025).

  3. Ravvedimento operoso: consente di regolarizzare violazioni (errori, omesse dichiarazioni, crediti indebitamente usati) versando sanzioni ridotte proporzionali al tempo trascorso dalla violazione (art. 13 D.Lgs. 472/1997).

Ad esempio, per una dichiarazione omessa presentata entro 90 giorni dalla scadenza, la sanzione è ridotta a 1/10 del minimo, ovvero 25 euro, se regolarizzata entro il termine e accompagnata dal pagamento delle imposte eventualmente dovute.

Un’azione tempestiva permette di evitare accertamenti e contenziosi, tutelando l’impresa anche sotto il profilo reputazionale e finanziario.

Considerazioni finali

La Dichiarazione IVA 2025 non è solo un adempimento obbligatorio da rispettare entro la scadenza del 30 aprile 2025, ma rappresenta anche un momento strategico per fare il punto sull’andamento fiscale e amministrativo dell’attività. Gestire in modo corretto e consapevole l’IVA consente di prevenire problemi, evitare sanzioni e sfruttare vantaggi legali, come la compensazione dei crediti o la richiesta di rimborsi.

Ogni quadro del modello IVA racconta un pezzo dell’attività del contribuente. Dalla determinazione dell’imposta dovuta o a credito, all’utilizzo strategico delle eccedenze, fino alla comunicazione puntuale dei codici attività e delle operazioni particolari, ogni elemento deve essere valutato con attenzione.

Per le situazioni più complesse – come fusioni, subentri, regimi agevolati, operazioni intracomunitarie, crediti IVA rilevanti – è fortemente consigliata l’assistenza di un commercialista, che può affiancare il contribuente nella gestione ottimale della dichiarazione e nell’adozione delle migliori strategie fiscali.

Un piccolo errore oggi può trasformarsi in un grande problema domani, ma una dichiarazione ben compilata può tradursi in risparmio fiscale, maggiore liquidità e una gestione fiscale più sana e trasparente.

Norma di salvaguardia sull’acconto Irpef 2025: il MEF chiarisce l’applicazione delle aliquote

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Il 2025 porterà una novità importante per milioni di contribuenti italiani: l’acconto Irpef del prossimo anno sarà calcolato ancora una volta sulla base delle aliquote 2023. A confermarlo è il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), che ha annunciato l’imminente introduzione di una norma di salvaguardia volta a evitare penalizzazioni fiscali per i contribuenti, in particolare per lavoratori dipendenti e pensionati, derivanti dall’attuale metodo di calcolo dell’acconto.

Ma cosa significa concretamente questa norma di salvaguardia? E soprattutto, chi sarà interessato da questo intervento correttivo? Il tema è di assoluta rilevanza fiscale, e riguarda da vicino coloro che hanno beneficiato, nel 2024, della riduzione da quattro a tre scaglioni Irpef, con una rimodulazione delle aliquote che ha favorito in particolare i redditi medi.

Senza un intervento correttivo, molti contribuenti rischierebbero di dover versare un acconto più alto del dovuto nel 2025, basandosi su una tassazione che nel frattempo è cambiata. Con questa norma, invece, si intende evitare disallineamenti e aggravi non giustificati, soprattutto per chi non ha un reddito costante o ha subito variazioni nel corso dell’anno.

In questo articolo analizzeremo nel dettaglio cosa prevede la norma di salvaguardia, a chi si applica, quali aliquote Irpef saranno prese come riferimento, come cambia il calcolo dell’acconto nel 2025 e quali sono i vantaggi fiscali di questa novità.

Il chiarimento del MEF

Con il comunicato stampa del 25 marzo 2025, il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) ha fatto luce su un punto particolarmente critico per milioni di contribuenti: il metodo di calcolo dell’acconto Irpef per l’anno 2025. Il nodo centrale è l’interpretazione dell’articolo 1, comma 4, del Decreto Legislativo 216/2023, che ha introdotto nuove aliquote Irpef a partire dal 2024, passando da quattro a tre scaglioni.

Il comunicato specifica che, in considerazione dei dubbi interpretativi emersi nelle scorse settimane, il Governo ha deciso di intervenire con una norma ad hoc per evitare disparità e fraintendimenti. L’obiettivo è chiaro: salvaguardare tutti i contribuenti interessati, in particolare lavoratori dipendenti e pensionati, e fornire una cornice normativa inequivocabile.

Il MEF chiarisce che l’acconto per il 2025 dovrà essere determinato sulla base delle aliquote 2023, e non con quelle riformate nel 2024. Questo significa che, nonostante la riforma abbia già modificato le aliquote, il riferimento per il versamento dell’acconto sarà quello pre-riforma, evitando così calcoli sproporzionati che avrebbero potuto penalizzare ingiustamente i contribuenti.

Si tratta di un intervento tecnico ma fondamentale, che punta a mantenere la coerenza del sistema fiscale durante la fase di transizione tra vecchio e nuovo impianto Irpef. L’annuncio è stato accolto positivamente, soprattutto da parte dei professionisti del settore fiscale, che chiedevano da tempo un intervento chiarificatore.

CAF

La necessità dell’intervento chiarificatore da parte del MEF nasce proprio da alcune segnalazioni sollevate dai CAF, i Centri di Assistenza Fiscale, che hanno evidenziato un potenziale problema nella determinazione dell’acconto Irpef per l’anno 2025. Secondo le interpretazioni fornite da questi enti, infatti, alcuni lavoratori dipendenti potrebbero trovarsi a versare un acconto Irpef anche in assenza di redditi ulteriori rispetto a quelli già assoggettati a ritenuta d’acconto mensile.

Il nodo nasce dal contenuto dell’articolo 1, comma 4, del D.Lgs. n. 216/2023, che ha introdotto modifiche strutturali all’Irpef già per il 2024. La disposizione prevede, infatti, la riduzione dell’aliquota dal 25% al 23% per i redditi tra i 15.000 e i 28.000 euro, e l’aumento della detrazione per lavoro dipendente da 1.880 a 1.955 euro. Tuttavia, la norma stabilisce anche che tali vantaggi non si applichino al calcolo degli acconti per gli anni 2024 e 2025, i quali devono essere determinati seguendo le regole del 2023.

Questo ha generato una situazione di incoerenza apparente, in cui anche contribuenti senza altri redditi – quindi non soggetti a dichiarazione – potrebbero ritrovarsi con un debito d’imposta e, di conseguenza, obbligati a versare un acconto. Il MEF ha quindi precisato che questa non era l’intenzione del legislatore, ma un effetto collaterale derivante da una interpretazione eccessivamente estensiva della norma.

Il chiarimento del Ministero, oltre a specificare che l’acconto Irpef 2025 con aliquote 2023 si applica solo se il saldo supera i 51,65 euro, conferma che si interverrà normativamente per evitare oneri ingiustificati, soprattutto per lavoratori dipendenti e pensionati.

Come funziona il calcolo dell’acconto Irpef

Per comprendere appieno la portata del chiarimento fornito dal MEF, è utile ricordare come si calcola normalmente l’acconto Irpef. L’acconto è un versamento anticipato dell’imposta dovuta per l’anno successivo, basato su quanto dichiarato nell’anno precedente. Si applica quando dalla dichiarazione dei redditi emerge una differenza a debito superiore a 51,65 euro tra l’imposta lorda e quanto già versato tramite ritenute, detrazioni e crediti.

In genere, l’acconto Irpef si paga in due rate:

  • 40% entro il 30 giugno

  • 60% entro il 30 novembre

Il problema nasce perché, a partire dal 2024, le aliquote Irpef sono cambiate: il sistema a quattro scaglioni è stato sostituito da uno a tre, con l’obiettivo di alleggerire il carico fiscale sui redditi medio-bassi. Tuttavia, la norma transitoria (art. 1, comma 4 del D.Lgs. 216/2023) prevedeva che, per il calcolo degli acconti 2024 e 2025, si continuasse ad applicare la disciplina del 2023, escludendo temporaneamente i benefici della riforma Irpef.

Questo avrebbe comportato un disallineamento tra l’imposta reale dovuta (sulla base delle nuove aliquote) e quella stimata per l’acconto, gonfiando artificialmente l’importo da versare. L’intervento chiarificatore serve proprio ad evitare che questo meccanismo colpisca chi non è obbligato alla dichiarazione dei redditi, come i dipendenti senza redditi extra, e a confermare che il criterio corretto per il 2025 sarà l’utilizzo delle aliquote 2025, stabilizzate con la riforma.

Norma di salvaguardia

Uno degli aspetti più importanti chiariti dal MEF riguarda la platea di contribuenti a cui si applicherà la norma di salvaguardia sull’acconto Irpef 2025. L’intervento normativo, infatti, non sarà “a pioggia”, ma calibrato per evitare aggravi solo ai soggetti per i quali l’acconto avrebbe generato un effetto distorsivo.

In primo luogo, il comunicato n. 35 del 25 marzo 2025 precisa che la disposizione contenuta nell’art. 1, comma 4, del D.Lgs. 216/2023 va interpretata in modo restrittivo: l’applicazione delle aliquote Irpef 2023 per il calcolo dell’acconto 2025 si riferisce esclusivamente ai casi in cui dalla dichiarazione emerga un’imposta a debito superiore a 51,65 euro. Questo limite non è casuale: rappresenta la soglia oltre la quale scatta l’obbligo di versare l’acconto.

Ne consegue che i contribuenti senza altri redditi oltre a quelli da lavoro dipendente o da pensione, che sono già stati tassati alla fonte e non hanno obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi, non saranno tenuti a versare l’acconto. Proprio per evitare che venissero inclusi per errore in questo obbligo, si è reso necessario un intervento di tipo interpretativo (e ora anche normativo), così da sterilizzare l’effetto della norma nei loro confronti.

Diversamente, per i contribuenti con redditi ulteriori (es. redditi da locazione, redditi di lavoro autonomo occasionale o continuativo, rendite finanziarie non soggette a ritenuta, ecc.), l’acconto rimarrà dovuto se la somma tra imposta dovuta e detrazioni, ritenute e crediti genera un saldo positivo superiore alla soglia minima.

Vantaggi fiscali

L’intervento chiarificatore annunciato dal MEF rappresenta un’importante misura di tutela fiscale per i contribuenti, ma anche uno strumento fondamentale per evitare squilibri nella pianificazione finanziaria del 2025. Il principale vantaggio, infatti, è che impedisce il rischio di doppi pagamenti o versamenti eccessivi a titolo di acconto, specialmente per quei soggetti che, di fatto, non avrebbero dovuto nulla all’Erario.

Senza la norma di salvaguardia, molti lavoratori dipendenti e pensionati si sarebbero trovati, nel 2025, a pagare un acconto Irpef più alto, nonostante l’effettiva imposta da versare, calcolata secondo le nuove aliquote, sarebbe stata inferiore. Questo avrebbe generato non solo confusione e complicazioni nella compilazione della dichiarazione dei redditi, ma anche un’uscita di cassa non necessaria, con effetti potenzialmente negativi sulla liquidità personale o familiare.

Inoltre, questa norma garantisce una maggiore certezza normativa, che è un elemento cruciale per i professionisti e i consulenti fiscali, che potranno effettuare calcoli e proiezioni in modo coerente e conforme alla normativa vigente. Dal punto di vista strategico, consente anche alle imprese e ai lavoratori autonomi con redditi misti di ottimizzare la gestione del proprio carico fiscale, pianificando con più precisione gli acconti e i saldi dovuti nei prossimi anni.

Infine, va sottolineato che l’intervento del Governo consolida la fiducia dei contribuenti, mostrando attenzione a evitare che un errore interpretativo si trasformi in un danno economico. In un contesto economico ancora fragile, ogni euro risparmiato legalmente fa la differenza.

Cosa deve fare il contribuente nel 2025

In attesa dell’intervento normativo ufficiale, che – come dichiarato dal MEF – sarà introdotto in tempo utile per la corretta determinazione dell’acconto Irpef 2025, i contribuenti si trovano a dover gestire una fase transitoria con attenzione. Sebbene il chiarimento abbia già definito l’intento del legislatore, sarà necessario attendere le istruzioni operative da parte dell’Agenzia delle Entrate, che daranno attuazione concreta alla norma di salvaguardia.

Nel frattempo, è opportuno che i contribuenti, specialmente quelli con redditi misti o situazioni fiscali complesse, procedano a una verifica della propria posizione.

I passaggi consigliati sono:

  • Controllare il modello 730 o Redditi PF 2024, per capire se si rientra tra i soggetti con saldo a debito superiore a 51,65 euro.

  • Verificare la presenza di redditi aggiuntivi oltre a quelli da lavoro dipendente o pensione.

  • Simulare il calcolo dell’imposta 2024 con le nuove aliquote, per stimare con precisione l’eventuale acconto da versare nel 2025.

Per chi si avvale di un consulente fiscale o di un CAF, è il momento ideale per richiedere una consulenza proattiva, al fine di non trovarsi impreparati al momento della presentazione della dichiarazione 2025 o del pagamento degli acconti. Anche le imprese e i professionisti dovrebbero iniziare a valutare strategie di ottimizzazione fiscale, in funzione delle novità in arrivo.

Aliquote Irpef a confronto: 2023, 2024 e 2025

Capire le differenze tra le aliquote Irpef 2023, 2024 e 2025 è essenziale per comprendere il senso della norma di salvaguardia e il suo impatto reale sul calcolo dell’acconto. Vediamo quindi il confronto diretto tra i tre anni di riferimento:

Aliquote IRPEF 2023 (pre-riforma):

  1. Fino a 15.000 euro → 23%

  2. Da 15.001 a 28.000 euro → 25%

  3. Da 28.001 a 50.000 euro → 35%

  4. Oltre 50.000 euro → 43%

Aliquote IRPEF 2024 (transitorie, con riforma parziale):

  1. Fino a 28.000 euro → 23%

  2. Da 28.001 a 50.000 euro → 35%

  3. Oltre 50.000 euro → 43%

In questo caso, lo scaglione da 15.001 a 28.000 euro ha beneficiato di una riduzione di due punti percentuali. Inoltre, è aumentata la detrazione per lavoro dipendente (da 1.880 euro a 1.955 euro), con vantaggi maggiori per i redditi medio-bassi.

Aliquote IRPEF 2025 (stabilizzate a regime):

A oggi, il Governo intende confermare il sistema a tre scaglioni, rendendo strutturali le modifiche del 2024. Tuttavia, si attende ancora l’eventuale pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della norma definitiva.

Questo confronto mostra chiaramente come il calcolo dell’acconto 2025 con le aliquote 2023 (più alte nella seconda fascia) avrebbe potuto portare a un acconto sovrastimato, soprattutto per chi guadagna tra i 15.000 e i 28.000 euro. Ecco perché la norma di salvaguardia non è solo tecnica, ma ha un impatto reale su milioni di cittadini.

Acconto Irpef e famiglie

L’apparente tecnicismo della norma di salvaguardia sull’acconto Irpef 2025 in realtà ha implicazioni molto concrete per le famiglie italiane, in particolare per quelle che vivono di reddito da lavoro dipendente o da pensione, e che ogni anno cercano di equilibrare i propri conti tra spese quotidiane e obblighi fiscali. In un contesto economico ancora incerto, ogni forma di risparmio legale sulle imposte rappresenta un’opportunità importante.

Il rischio, senza questo chiarimento normativo, era quello di vedere aumentare il carico fiscale in modo non giustificato. Una famiglia monoreddito con un reddito lordo annuo di 24.000 euro, ad esempio, avrebbe potuto ritrovarsi a versare un acconto Irpef più alto di diverse centinaia di euro, basato su una tassazione che non riflette più la reale imposta dovuta grazie alle nuove aliquote e detrazioni introdotte nel 2024 e confermate per il 2025.

Questa correzione si inserisce inoltre nel più ampio disegno del Governo di rendere il sistema fiscale più equo, progressivo e favorevole ai redditi medio-bassi. Il passaggio da quattro a tre scaglioni Irpef e l’aumento delle detrazioni per lavoro dipendente sono interventi che vanno proprio in questa direzione. La norma di salvaguardia sull’acconto è quindi un tassello necessario per non vanificare gli effetti redistributivi della riforma.

Considerazioni finali

L’intervento normativo annunciato dal MEF sull’acconto Irpef 2025 si inserisce in un contesto di transizione fiscale complesso, segnato dalla recente riforma delle aliquote Irpef e dalla necessità di evitare effetti distorsivi nel passaggio tra la normativa 2023 e quella vigente. Il chiarimento offerto attraverso il comunicato del 25 marzo 2025 si è reso necessario per rispondere ai dubbi interpretativi sollevati dai CAF e da vari operatori del settore.

Stabilire che il calcolo dell’acconto 2025 dovrà avvenire tenendo conto delle regole effettivamente applicabili al periodo d’imposta 2024, e non delle aliquote precedenti, consente di preservare l’equilibrio del sistema tributario e di evitare oneri non dovuti, in particolare per i lavoratori dipendenti e i pensionati privi di altri redditi imponibili.

Questo approccio rappresenta un passo importante nella direzione di una maggiore coerenza normativa e di una fiscalità più trasparente, in linea con i principi di equità che dovrebbero guidare ogni riforma tributaria. Resta ora da attendere la pubblicazione del provvedimento legislativo che tradurrà l’intento del Governo in norma vigente, così da fornire indicazioni precise in tempo utile per la determinazione dell’acconto.

IVA Agenzie di Viaggio: i chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate su regime speciale e disponibilità dei servizi

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Quando un’agenzia di viaggio può davvero applicare il regime IVA sul margine? Qual è la linea di confine tra attività di intermediazione e vendita in nome proprio? E soprattutto: come devono strutturarsi le agenzie per accedere al regime agevolato previsto dall’art. 74-ter del DPR 633/1972?

Domande sempre più centrali per il settore turistico, che oggi si trova a fare i conti con modelli di business sempre più digitali e flessibili. Proprio per rispondere ai numerosi dubbi operativi e fiscali, l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato la Risposta a interpello n. 80 del 21 marzo, offrendo importanti chiarimenti sul corretto utilizzo del regime speciale IVA delle agenzie di viaggio e turismo, con particolare attenzione alla cessione di singoli servizi turistici e al concetto di “disponibilità anticipata” dei servizi.

La novità è rilevante perché ribadisce che, per applicare il regime sul margine, non serve acquistare i servizi, ma è sufficiente averne la disponibilità prima della richiesta del cliente. Un passaggio che può fare la differenza tra risparmiare legalmente sull’IVA o trovarsi esposti a rischi fiscali e sanzioni.

In questo articolo analizziamo in dettaglio i contenuti dell’interpello, la normativa di riferimento, le sentenze chiave, e soprattutto come devono strutturarsi oggi le agenzie di viaggio – tradizionali e online – per operare in piena regola e beneficiare dei vantaggi fiscali previsti. Con esempi pratici, strategie operative e strumenti utili per fare chiarezza in un ambito ancora troppo spesso sottovalutato.

Risposta n. 80 del 2025

Con la Risposta a interpello n. 80 del 21 marzo 2025, l’Agenzia delle Entrate torna a fare chiarezza sul regime IVA applicabile alle agenzie di viaggio, ribadendo un punto cruciale: per beneficiare del regime speciale previsto dall’art. 74-ter del DPR 633/1972, l’agenzia deve avere la disponibilità dei servizi prima della richiesta del cliente. La risposta è indirizzata a una società estera extra-UE, operativa tramite una piattaforma online, che commercializza servizi turistici (hotel, voli e pacchetti) rivolti a clienti finali.

L’aspetto interessante di questo caso è la struttura contrattuale denominata “X Collect Booking”, con cui l’operatore acquisisce in anticipo e in via esclusiva la disponibilità di camere d’hotel, senza necessità di conferma per ogni singola prenotazione. In altre parole, l’agenzia agisce in nome proprio e con disponibilità effettiva dei servizi, condizione chiave per l’accesso al regime speciale TOMS (Tour Operators Margin Scheme), recepito in Italia.

La società ha chiesto conferma di poter applicare il regime IVA agevolato anche se non stabilita in Italia, sottolineando come la giurisprudenza comunitaria abbia ormai consolidato l’estensione del regime TOMS anche ai servizi turistici singoli, e non solo ai pacchetti.

La risposta delle Entrate conferma implicitamente la correttezza dell’impostazione dell’istante, a patto che sussistano le due condizioni fondamentali: agire in nome proprio e avere la disponibilità del servizio prima della richiesta del cliente. Un modello che, se adottato correttamente, permette di beneficiare del regime forfettario IVA sulla base del margine, evitando l’applicazione dell’IVA ordinaria su ogni singolo servizio.

Normativa e giurisprudenza

Il regime IVA speciale delle agenzie di viaggio non si applica solo ai pacchetti turistici “completi”, ma può estendersi anche alla cessione di singoli servizi turistici (come pernottamenti, trasporti o visite guidate), purché siano rispettate precise condizioni. A regolare questa possibilità è il comma 5-bis dell’art. 74-ter del DPR 633/1972, che specifica come l’imposta si applichi sul margine anche per i singoli servizi forniti da terzi e acquisiti nella disponibilità dell’agenzia prima della richiesta del cliente, seppure questi servizi non configurino un pacchetto turistico ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 111/1995.

Questo passaggio normativo è stato chiarito ulteriormente dall’Agenzia delle Entrate nella risposta n. 80/2025, in cui viene ribadito che non è necessario l’acquisto definitivo del servizio: è sufficiente che l’agenzia ne abbia la disponibilità effettiva, intesa come possibilità di disporne in via esclusiva, senza bisogno di autorizzazioni, almeno fino a una certa scadenza temporale.

Un principio confermato anche dalla giurisprudenza: la Sentenza n. 3857/2022 della Corte di Cassazione sottolinea che “non è richiesto che il servizio sia acquistato, ma solo che sia stato acquisito nella disponibilità dell’agenzia prima della richiesta del cliente”. Anche la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha sposato questa interpretazione, in linea con l’obiettivo di semplificare e uniformare il trattamento IVA nel settore turistico.

In sostanza, l’elemento discriminante è la “disponibilità anticipata” del servizio, non la proprietà. Questo apre uno scenario interessante per molte agenzie, soprattutto quelle digitali, che potrebbero strutturarsi per rientrare nel regime speciale e beneficiare così dell’IVA sul margine.

Impatti pratici per le agenzie

I chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate e confermati dalla giurisprudenza comportano conseguenze operative significative per le agenzie di viaggio, in particolare per quelle che lavorano con modelli flessibili, basati su prenotazioni su richiesta. Il punto centrale è che, per rientrare nel regime IVA speciale sul margine, l’agenzia deve dimostrare di avere la disponibilità dei servizi prima della richiesta del cliente, anche nel caso di servizi singoli e non solo di pacchetti.

Questo cambia radicalmente l’approccio contrattuale: molte agenzie dovranno rivedere gli accordi con i fornitori (hotel, tour operator, compagnie di trasporto), puntando su formule che garantiscano un diritto esclusivo e anticipato alla vendita del servizio. Un esempio virtuoso è il modello “X Collect Booking” descritto nell’interpello n. 80/2025, in cui l’agenzia ottiene preventivamente la disponibilità esclusiva di camere d’albergo, pur senza acquistarle immediatamente.

Inoltre, sarà fondamentale documentare in modo chiaro e tracciabile la disponibilità dei servizi, anche ai fini di eventuali controlli fiscali. Questo può comportare l’adozione di sistemi gestionali digitali evoluti e una maggiore attenzione agli aspetti contrattuali.

D’altra parte, le agenzie che non riescono a garantire tale disponibilità anticipata dovranno rinunciare al regime agevolato e applicare l’IVA ordinaria su ogni singolo servizio intermediato, con un impatto evidente sulla competitività e sulla marginalità.

In questo contesto, la scelta del modello operativo e contrattuale diventa una leva strategica non solo fiscale, ma anche commerciale.

Vantaggi fiscali

Rientrare nel regime IVA speciale delle agenzie di viaggio, disciplinato dall’art. 74-ter del DPR 633/1972, non è solo una questione di compliance normativa, ma anche una scelta strategica che può generare vantaggi significativi sia fiscali che gestionali. Il principale beneficio riguarda il fatto che l’IVA si applica solo sul margine, cioè sulla differenza tra il prezzo di vendita del servizio e il costo sostenuto per acquisirlo, e non sull’intero importo incassato dal cliente.

Questo significa che, in pratica, l’agenzia versa meno IVA rispetto al regime ordinario, dove l’imposta va calcolata sull’intero corrispettivo, e non può detrarre l’IVA a monte. Tale configurazione è particolarmente vantaggiosa in settori come il turismo, dove i margini possono essere contenuti ma i volumi di transazione sono elevati. Inoltre, trattandosi di un regime forfettario, esso consente una semplificazione degli adempimenti fiscali e contabili.

Per le agenzie che operano nel B2C (verso consumatori finali), questa impostazione consente anche di praticare prezzi più competitivi, grazie alla minor incidenza dell’IVA. E per quelle che vendono servizi a clienti non soggetti passivi IVA (es. privati o enti senza scopo di lucro), non potendo questi detrarre l’IVA, un prezzo più basso al lordo è un chiaro vantaggio commerciale.

Infine, in ottica di pianificazione fiscale, adottare il regime sul margine può aiutare a contenere l’IVA da versare, migliorare la liquidità e mantenere più risorse in azienda da destinare ad altre attività.

Come impostare i contratti per rispettare i requisiti IVA

Affinché un’agenzia di viaggio possa applicare correttamente il regime IVA speciale previsto dall’art. 74-ter, è fondamentale impostare in modo preciso i contratti con i fornitori di servizi turistici, come alberghi, tour operator, compagnie di trasporto e altri. L’elemento chiave richiesto dalla normativa è la disponibilità anticipata ed esclusiva del servizio prima della richiesta del cliente, anche senza un acquisto definitivo.

Nel concreto, questo significa che i contratti devono prevedere clausole che garantiscano all’agenzia la facoltà di vendere il servizio in autonomia, senza dover ottenere ogni volta l’autorizzazione del fornitore. La disponibilità deve essere documentabile e limitata nel tempo, ad esempio fino a una certa data o per un certo numero di camere, posti o slot.

Una prassi efficace è quella di stipulare accordi quadro con opzioni di blocco anticipato, simili al modello “X Collect Booking” evidenziato nell’interpello n. 80/2025. In questo modo, l’agenzia può dimostrare alle Entrate di avere un diritto esclusivo di vendita e quindi la disponibilità richiesta per accedere al regime sul margine.

Inoltre, è utile allegare ai contratti eventuali documenti integrativi (email di conferma, calendari di disponibilità, sistemi gestionali con tracciabilità) che dimostrino l’effettiva esistenza del diritto di disporre del servizio. Questa documentazione sarà decisiva in caso di controlli fiscali.

Infine, è consigliabile che l’agenzia si doti di consulenza fiscale specializzata per la revisione dei contratti e la definizione di un modello operativo coerente, per evitare rischi di contestazione e massimizzare i benefici fiscali previsti dal regime.

Regime speciale vs. regime ordinario

Capire la differenza tra il regime speciale IVA per le agenzie di viaggio (art. 74-ter) e il regime IVA ordinario è essenziale per evitare errori e ottimizzare la gestione fiscale. Il regime speciale, come già visto, si applica sul margine di guadagno, mentre quello ordinario prevede l’applicazione dell’IVA sull’intero importo fatturato al cliente, con diritto alla detrazione dell’IVA sugli acquisti.

Nel regime speciale sul margine, l’agenzia agisce in nome proprio, acquistando servizi da terzi (anche solo in disponibilità) e rivendendoli al cliente finale. Non deve scorporare l’IVA dalle singole voci (es. pernottamento, volo), ma calcolarla solo sulla differenza tra il prezzo pagato dal cliente e il costo del servizio. Non può però detrarre l’IVA sugli acquisti: l’IVA a monte resta un costo.

Nel regime ordinario, invece, l’agenzia agisce spesso come intermediario (nome e per conto del cliente o del fornitore). In tal caso, emette una fattura per la commissione percepita e l’IVA si applica sull’intera commissione, mentre l’IVA sulle spese sostenute per conto del cliente è neutra o deducibile, a seconda del tipo di operazione.

Dal punto di vista contabile, il regime speciale consente semplificazioni nella gestione delle liquidazioni IVA, ma richiede comunque attenzione alla corretta determinazione del margine, anche con strumenti informatici dedicati. Il regime ordinario, invece, impone un’analitica gestione dell’IVA per ogni singola voce, aumentando la complessità contabile e il rischio di errori.

Scegliere il regime giusto non è solo un fatto fiscale, ma anche organizzativo e strategico: applicare il regime speciale consente di ridurre l’IVA da versare e semplificare le operazioni, ma solo se si rispettano rigidamente le condizioni richieste dalla normativa.

Esempi pratici

Per comprendere appieno l’impatto fiscale dei diversi regimi IVA applicabili alle agenzie di viaggio, vediamo tre casi concreti con le stesse tariffe di riferimento. In ciascun esempio analizzeremo se si applica il regime speciale sul margine o quello ordinario, e come cambia la gestione dell’IVA.

Esempio 1 – Regime speciale IVA sul margine (art. 74-ter)

Un’agenzia ha un accordo contrattuale con un hotel che le garantisce la disponibilità esclusiva di camere per il mese di giugno, senza necessità di conferma per ogni prenotazione. Il costo concordato con l’hotel è di € 80 a notte, e l’agenzia rivende la camera a € 120 al cliente finale.

  • Prezzo di vendita al cliente: € 120

  • Costo del servizio turistico: € 80

  • Margine imponibile IVA: € 40

  • IVA dovuta (22% sul margine): € 8,80

L’agenzia può applicare il regime speciale sul margine, perché ha la disponibilità preventiva del servizio e agisce in nome proprio. L’IVA si applica solo sui € 40 di margine.

Esempio 2 – Regime ordinario per intermediazione

Un’altra agenzia non ha alcun accordo di disponibilità con l’hotel. Propone la camera al cliente, ma solo dopo la conferma e il pagamento del cliente, effettua la prenotazione. L’hotel fattura direttamente al cliente, mentre l’agenzia incassa una commissione di € 15 per l’intermediazione.

  • Prezzo pagato dal cliente all’hotel: € 120 (fatturato dall’hotel)

  • Commissione dell’agenzia: € 15

  • IVA dovuta (22% sulla commissione): € 3,30

In questo caso, l’agenzia è un intermediario: non ha la disponibilità del servizio, quindi deve applicare il regime ordinario e calcolare l’IVA sull’intera commissione.

Esempio 3 – Vendita in nome proprio ma senza disponibilità

Una piattaforma turistica vende la camera in nome proprio, quindi emette fattura al cliente per € 120, ma non ha accordi con l’hotel. Prenota la camera solo dopo che il cliente ha effettuato l’ordine. Il costo del soggiorno per l’agenzia è € 80.

  • Prezzo di vendita al cliente: € 120

  • Costo del servizio: € 80

  • IVA dovuta (22% su € 120): € 21,60

Anche se agisce in nome proprio, non può applicare il regime speciale perché manca la disponibilità preventiva del servizio. Deve quindi applicare l’IVA sull’intero importo (regime ordinario).

Strategie operative

Alla luce dei chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate e della giurisprudenza, le agenzie di viaggio interessate ad applicare il regime IVA speciale devono adottare una strategia organizzativa e contrattuale ben definita, orientata a dimostrare concretamente la disponibilità anticipata dei servizi turistici. Non si tratta solo di una formalità, ma di una scelta che può influenzare in modo decisivo la fiscalità e la marginalità dell’impresa.

Ecco le principali azioni operative consigliate:

1. Rivedere gli accordi con i fornitori

Inserire nei contratti clausole che attribuiscano esclusiva e disponibilità preventiva del servizio. Questo può includere:

  • Opzioni di prenotazione anticipata

  • Allotment con scadenza

  • Blocchi temporanei di disponibilità senza acquisto

2. Formalizzare la disponibilità con documenti tracciabili

È fondamentale poter dimostrare la disponibilità in caso di controllo: email, sistemi gestionali, file di allotment, o moduli contrattuali che confermino la possibilità esclusiva di vendere il servizio prima della richiesta del cliente.

3. Adottare software gestionali evoluti

I sistemi di prenotazione e CRM devono consentire di tracciare la disponibilità, la conferma e la data della richiesta del cliente, per ricostruire in modo preciso il processo di vendita.

4. Formare il personale amministrativo e commerciale

Chi si occupa di vendite e di fatturazione deve conoscere la differenza tra regime ordinario e speciale, per non commettere errori nella determinazione dell’IVA e nella scelta del regime.

5. Valutare il supporto di un commercialista esperto nel settore turistico

Un consulente specializzato può aiutare a verificare la corretta applicazione del regime, redigere contratti conformi e gestire eventuali verifiche fiscali.

Considerazioni finali

I recenti chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate, in particolare con la Risposta a interpello n. 80 del 21 marzo, segnano un punto fermo importante nell’interpretazione del regime IVA speciale delle agenzie di viaggio, confermando l’orientamento già espresso dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria: non è necessario acquistare i servizi, ma è essenziale averne la disponibilità anticipata ed esclusiva.

Per le agenzie, si tratta di un’opportunità da cogliere con attenzione: accedere al regime IVA sul margine consente di alleggerire il carico fiscale, aumentare la marginalità sui servizi venduti, semplificare la gestione contabile e offrire prezzi più competitivi sul mercato, soprattutto nel segmento B2C.

Tuttavia, tutto ciò richiede una riorganizzazione strutturale, soprattutto per chi opera in modalità “on demand” o tramite piattaforme digitali. Le regole sono chiare, ma la loro corretta applicazione richiede una pianificazione fiscale attenta, un uso intelligente dei contratti e una gestione documentale impeccabile.

Il messaggio è chiaro: chi si struttura correttamente può ottenere vantaggi fiscali legittimi, mentre chi improvvisa rischia contestazioni, recuperi IVA e sanzioni.

Nel settore turistico – dove la concorrenza è alta e i margini spesso ridotti – il regime IVA speciale non è solo un tema fiscale, ma una vera e propria leva di competitività.

Bonus dipendenti maturati all’estero: tassazione, doppia imposizione e credito d’imposta

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Nell’era della globalizzazione, sempre più lavoratori si trovano a operare in contesti internazionali, collaborando con aziende multinazionali o prestando la propria attività lavorativa in più Stati nell’arco di uno stesso anno fiscale. Questo scenario ha portato alla nascita di situazioni sempre più complesse dal punto di vista della fiscalità del lavoro, in particolare quando si parla di bonus e compensi variabili maturati all’estero, ma erogati successivamente o in un diverso Stato rispetto a quello in cui sono stati effettivamente generati.

Una delle questioni più dibattute riguarda proprio il trattamento fiscale dei bonus maturati in diversi Paesi: a chi spetta il diritto di tassazione? In quale Stato devono essere dichiarati i redditi? E soprattutto, come evitare la doppia imposizione? Queste domande non riguardano soltanto i lavoratori, ma coinvolgono anche i datori di lavoro, i consulenti fiscali e gli stessi Stati, in una vera e propria “battaglia fiscale” che ha portato a numerose interpretazioni, circolari e persino sentenze giurisprudenziali.

In questo articolo analizzeremo il quadro normativo italiano, ci soffermeremo su circolari dell’Agenzia delle Entrate, convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, sentenze di rilievo e criteri di territorialità del reddito, cercando di fornire una guida chiara per affrontare queste situazioni nel rispetto delle norme e con un occhio attento al risparmio fiscale.

Caso pratico

Bonus maturati nel Regno Unito e tassati anche in Italia

Il caso oggetto di analisi riguarda un dipendente che ha lavorato nel Regno Unito fino a dicembre 2023 e che, a partire dal 2024, ha avviato un nuovo rapporto di lavoro in Italia, presso la stabile organizzazione italiana della stessa società multinazionale.

Durante il periodo di impiego nel Regno Unito, il dipendente ha maturato un bonus legato a un piano di incentivazione aziendale, il cui scopo è quello di premiare e motivare le performance lavorative durante il cosiddetto vesting period, ovvero il periodo di maturazione che precede l’assegnazione effettiva del beneficio economico.

La peculiarità del piano di incentivazione, come illustrato dalla società nell’interpello rivolto all’Agenzia delle Entrate, risiede nella condizione per cui il bonus viene riconosciuto solo se il dipendente mantiene attivo il rapporto di lavoro con una delle società del gruppo fino alla fine del periodo di vesting.

In altri termini, anche se l’attività che ha generato il bonus è stata svolta prevalentemente nel Regno Unito, la sua erogazione concreta avviene successivamente, quando il dipendente si trova fiscalmente residente in Italia.

Questo ha creato una criticità rilevante: il bonus è stato assoggettato a tassazione sia nel Regno Unito (in quanto maturato lì), sia in Italia (in quanto percepito da un soggetto fiscalmente residente), dando origine a un chiaro caso di doppia imposizione internazionale.

La società ha quindi sollevato la questione presso l’Agenzia delle Entrate, chiedendo chiarimenti in merito all’applicazione delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione e alla possibilità di recuperare le imposte pagate all’estero tramite credito d’imposta, ai sensi dell’art. 165 del TUIR.

Indicazioni dell’Agenzia delle Entrate

Con riferimento al caso sottoposto, l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti decisivi nella Risposta all’interpello, richiamando i principi sanciti dalla Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni e dalla normativa fiscale italiana. Il fulcro dell’interpretazione si basa sul principio di territorialità del reddito da lavoro dipendente, secondo il quale il diritto di tassazione spetta allo Stato nel quale l’attività lavorativa è stata effettivamente svolta, a prescindere dalla residenza fiscale del lavoratore nel momento in cui il bonus viene materialmente percepito.

In linea con quanto previsto dall’art. 15 del Modello OCSE, i redditi di lavoro dipendente devono essere tassati nel Paese dove il lavoro è stato eseguito. Ne consegue che i bonus maturati durante il periodo di lavoro nel Regno Unito devono essere tassati unicamente nel Regno Unito, anche se il dipendente, al momento dell’effettiva erogazione, risulta essere fiscalmente residente in Italia.

Al contrario, i bonus maturati successivamente, nel periodo di lavoro svolto in Italia, devono essere assoggettati a imposizione in Italia, e in questo caso sarà la stabile organizzazione italiana a dover agire come sostituto d’imposta.

Un ulteriore aspetto importante chiarito dall’Agenzia riguarda la possibilità di richiedere il rimborso delle imposte italiane eventualmente trattenute in modo improprio su redditi che, in base al principio di territorialità, dovevano essere tassati all’estero.

In sostanza, il lavoratore potrà presentare istanza di rimborso per le ritenute subite in Italia su redditi che dovevano essere assoggettati esclusivamente a tassazione nel Regno Unito. Questo passaggio è fondamentale per evitare casi di doppia imposizione non giustificata.

Convenzioni internazionali e il credito d’imposta

Nel contesto della mobilità internazionale dei lavoratori, il rischio di doppia imposizione è concreto e frequente. Per questo motivo, l’Italia ha stipulato numerose convenzioni contro le doppie imposizioni, tra cui quella con il Regno Unito, basata sul Modello OCSE. Queste convenzioni hanno lo scopo di regolare i diritti di tassazione tra Stati contraenti e di evitare che uno stesso reddito venga tassato due volte, introducendo criteri chiari di ripartizione del potere impositivo.

Nel caso in esame, le disposizioni convenzionali stabiliscono che i redditi da lavoro dipendente devono essere tassati nello Stato in cui il lavoro è stato effettivamente prestato, a meno che non ricorrano particolari eccezioni (es. trasferta breve sotto i 183 giorni, datore di lavoro residente nello Stato estero, ecc.).

Tuttavia, se un reddito è stato comunque assoggettato a tassazione in entrambi i Paesi, il meccanismo di eliminazione della doppia imposizione previsto dall’art. 23 della Convenzione Italia-Regno Unito entra in gioco tramite il credito d’imposta estero.

Ai sensi dell’art. 165 del TUIR, il contribuente residente in Italia ha diritto a detrarre dall’IRPEF dovuta le imposte pagate all’estero in via definitiva, a condizione che si tratti di imposte analoghe a quelle italiane e relative a redditi che concorrono alla formazione del reddito complessivo in Italia.

Questo strumento consente di neutralizzare l’effetto della doppia imposizione, ma richiede una corretta documentazione delle imposte pagate all’estero, la verifica della competenza territoriale e la ripartizione del reddito in base ai periodi di attività.

Tuttavia, è importante sottolineare che il credito d’imposta non è sempre applicabile se il reddito estero non è imponibile in Italia secondo la convenzione, come nel caso di un bonus maturato interamente nel Regno Unito: in tal caso, si applica la tassazione esclusiva nello Stato estero e l’Italia non dovrebbe trattenere nulla.

Obblighi e responsabilità

Dal punto di vista operativo, la gestione dei bonus legati a periodi di lavoro svolti in più Stati presenta numerose criticità, soprattutto per quanto riguarda gli adempimenti fiscali dei datori di lavoro. Nello specifico, le stabili organizzazioni italiane di società estere, come nel caso in esame, devono prestare particolare attenzione al momento in cui il lavoratore diventa fiscalmente residente in Italia e al periodo di maturazione del bonus.

Come chiarito dall’Agenzia delle Entrate, la sostituzione d’imposta da parte del datore di lavoro italiano si applica solo ai bonus maturati durante il periodo di lavoro effettivo in Italia. Ciò significa che la stabile organizzazione italiana è tenuta a effettuare le ritenute IRPEF e a dichiarare il reddito solo per la parte di bonus riferibile al periodo di attività svolto in Italia, a partire dalla data in cui il dipendente ha preso servizio. Al contrario, per la parte di bonus maturata nel Regno Unito, non spetta alla sede italiana trattenere imposte, essendo tale reddito di competenza esclusiva dello Stato estero.

Questa distinzione comporta la necessità, da parte del datore di lavoro, di effettuare una ripartizione analitica del bonus in base al periodo e al luogo di maturazione, sulla base di criteri oggettivi (come giorni di lavoro effettivi in ciascuno Stato). In mancanza di una corretta attribuzione territoriale, il rischio è quello di applicare ritenute fiscali in Italia anche su somme che, in base alle convenzioni internazionali, non risultano imponibili, con conseguente obbligo di successivi rimborsi da parte dell’amministrazione finanziaria.

Inoltre, il datore di lavoro deve fornire al dipendente una certificazione chiara e completa (CU), specificando le somme tassate in Italia, quelle escluse e le eventuali imposte estere trattenute, così da consentire al lavoratore di richiedere correttamente il credito d’imposta o eventuali rimborsi.

Tutela fiscale

Il lavoratore coinvolto in un piano di incentivazione multinazionale, come nel caso del bonus maturato in più Stati, deve adottare un approccio consapevole e proattivo alla propria posizione fiscale. In primo luogo, è fondamentale avere tracciabilità documentale del periodo di vesting del bonus, ovvero l’intervallo di tempo in cui è maturato il diritto all’incentivo. Questo dato è essenziale per determinare con precisione il luogo di maturazione del reddito e quindi la sua corretta tassazione.

Nel caso in cui il bonus sia stato tassato anche in Italia, ma riferibile a un’attività svolta nel Regno Unito (o in altro Stato), il lavoratore ha il diritto di richiedere il rimborso delle imposte indebitamente trattenute, come previsto dall’art. 38 del DPR 602/1973. In alternativa, se il reddito è imponibile in entrambi i Paesi, potrà avvalersi del credito d’imposta per imposte estere ai sensi dell’art. 165 del TUIR, allegando alla propria dichiarazione dei redditi (modello Redditi PF) la documentazione che dimostri l’avvenuto pagamento all’estero delle imposte.

Tra i documenti fondamentali da conservare e presentare figurano:

  • la certificazione del datore di lavoro estero sulle imposte trattenute,

  • la documentazione del piano di incentivazione (regolamento, date di vesting),

  • il contratto di lavoro e le comunicazioni di distacco o trasferimento,

  • eventuali CU e buste paga italiane.

Un’altra opportunità che il lavoratore potrebbe valutare è quella legata al regime degli impatriati (art. 16 del D.Lgs. 147/2015), se ne ricorrono i requisiti. Questo regime consente una detassazione parziale del reddito da lavoro dipendente per i lavoratori che trasferiscono la residenza fiscale in Italia, riducendo sensibilmente l’imponibile IRPEF.

Tuttavia, l’applicabilità di tale agevolazione deve essere valutata caso per caso, in funzione del momento del trasferimento, della natura del rapporto di lavoro e delle caratteristiche del bonus.

Sentenze e chiarimenti

Negli ultimi anni, la complessità dei rapporti di lavoro internazionali ha spinto l’Agenzia delle Entrate e la giurisprudenza a pronunciarsi in modo sempre più dettagliato sul trattamento fiscale dei bonus e degli incentivi legati a piani di stock option o performance bonus transnazionali.

Un punto fermo in tal senso è rappresentato da numerosi interpelli, tra cui la Risposta n. 484/2019, che ha chiarito che la tassazione del reddito di lavoro dipendente deve avvenire pro quota, in base ai giorni di lavoro effettivamente prestati nei singoli Stati, durante il periodo di maturazione del bonus.

Un’altra pronuncia rilevante è la Risposta n. 360/2020, in cui l’Agenzia ha sottolineato l’obbligo del datore di lavoro italiano di non trattenere ritenute su redditi che, in base alle convenzioni internazionali, risultano imponibili solo all’estero. In tale occasione, venne evidenziato che l’errata applicazione del criterio di tassazione territoriale può comportare l’illegittima doppia imposizione, in violazione del principio di capacità contributiva sancito dalla Costituzione.

Anche la Corte di Cassazione si è espressa più volte sulla materia, affermando che, ai fini della tassazione, occorre fare riferimento non al momento della percezione del bonus, ma al periodo e al luogo in cui esso è stato maturato. Ad esempio, nella sentenza n. 25698/2019, la Suprema Corte ha ribadito che un reddito di lavoro dipendente maturato all’estero non può essere soggetto a tassazione in Italia, anche se corrisposto quando il lavoratore è diventato fiscalmente residente nel territorio nazionale.

Queste interpretazioni rafforzano l’obbligo, sia per i datori di lavoro che per i dipendenti, di adottare un approccio analitico alla gestione di tali redditi, evitando automatismi e tenendo conto delle normative internazionali.

Considerazioni finali

Il trattamento fiscale dei bonus maturati in più Paesi è una questione tecnica e delicata, che richiede una gestione accurata da parte di tutte le parti coinvolte: lavoratori, datori di lavoro e consulenti fiscali. L’elemento cruciale è comprendere che il momento di erogazione del bonus non coincide necessariamente con il momento della sua tassazione, che invece dipende dal luogo in cui il reddito è stato maturato, secondo il principio di territorialità sancito dalle convenzioni internazionali e dalla normativa italiana.

Per i datori di lavoro, è fondamentale implementare sistemi di tracciamento dei periodi di vesting legati ai piani di incentivazione, in modo da distinguere con precisione la quota di bonus maturata in ciascun Paese. Una corretta ripartizione consente di evitare ritenute indebite e possibili contenziosi fiscali, oltre a favorire una gestione trasparente nei confronti dei dipendenti.

Per i lavoratori, è altrettanto importante conservare tutta la documentazione utile (contratti, regolamenti dei piani, buste paga, certificazioni estere) e, se necessario, rivolgersi a un commercialista esperto in fiscalità internazionale per valutare le opzioni disponibili: richiesta di rimborso per le imposte italiane non dovute, utilizzo del credito d’imposta estero, oppure accesso a regimi agevolati come quello degli impatriati.

Infine, entrambi i soggetti devono considerare il potenziale rischio reputazionale e sanzionatorio derivante da un errato adempimento degli obblighi fiscali. La corretta applicazione delle regole – oggi sempre più oggetto di controlli incrociati tra amministrazioni fiscali – è una garanzia di compliance, ma anche una leva di risparmio fiscale, se gestita in modo strategico.

Sospensione degli Ammortamenti 2020-2023: Effetti, obblighi e impatti sul bilancio 2024

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Tra le misure emergenziali adottate per sostenere le imprese durante la pandemia, una delle più significative – e al tempo stesso più controverse – è stata la possibilità di sospendere gli ammortamenti nei bilanci dal 2020 al 2023. Una scelta che ha permesso a migliaia di aziende italiane di limitare le perdite contabili, rafforzare temporaneamente il patrimonio netto e mostrare bilanci più “solidali” in un periodo di grande incertezza. Ma, come tutte le deroghe straordinarie, anche questa ha avuto un costo: quello che si presenta ora, nel 2024.

Con la fine della deroga e il ritorno alla normalità contabile, le imprese che hanno beneficiato della sospensione devono oggi affrontare una serie di effetti tecnici, fiscali e finanziari che incidono in modo diretto sul bilancio 2024 e su quelli a venire. Dalla rivalutazione dei piani di ammortamento alla liberazione delle riserve indisponibili, dal riassorbimento delle imposte differite alla revisione del risultato d’esercizio, il bilancio di quest’anno rischia di subire forti impatti, anche in termini di redditività apparente e rating bancario.

Come prepararsi correttamente a questo passaggio? Quali sono le azioni da intraprendere per limitare gli effetti negativi e tutelare l’equilibrio aziendale? In questo articolo analizziamo tutto quello che c’è da sapere sulla sospensione degli ammortamenti, i riferimenti normativi aggiornati e le migliori strategie operative e fiscali per affrontare con consapevolezza il bilancio 2024.

La sospensione degli ammortamenti

Nel pieno della crisi economico-sanitaria del 2020, il Legislatore è intervenuto con una misura straordinaria per sostenere la tenuta contabile delle imprese italiane: la possibilità di non rilevare, nel bilancio civilistico, le quote di ammortamento delle immobilizzazioni materiali e immateriali relative all’esercizio in corso al 15 agosto 2020. Un intervento previsto dall’art. 60, comma 7-bis, del Decreto Legge 104/2020 (cd. Decreto Agosto), convertito con modificazioni dalla Legge 126/2020.

Questa facoltà – perché tale era, non un obbligo – ha generato numerosi dibattiti in dottrina, tra perplessità applicative e interrogativi sull’effettiva utilità della deroga rispetto ai principi di rappresentazione veritiera e corretta del bilancio. Tuttavia, nel contesto emergenziale in cui è nata, la misura ha rappresentato un’ancora di salvezza per molte aziende, soprattutto nei settori più colpiti dalle chiusure e dalla contrazione della domanda.

La deroga è stata poi prorogata per l’esercizio 2021, e successivamente anche per il 2022, giustificata dal perdurare della crisi economica internazionale aggravata dal conflitto bellico in Ucraina. Infine, l’art. 3, comma 8, del Decreto Milleproroghe (DL 198/2022, convertito in Legge 14/2023) ha esteso l’applicabilità della norma anche ai bilanci 2023, limitatamente ai soggetti che non redigono il bilancio secondo i principi contabili internazionali (IAS/IFRS). La proroga non ha introdotto novità sostanziali, ma si è limitata a replicare la disciplina originaria.

Obblighi, vincoli e implicazioni fiscali

Nel periodo 2020-2023, le imprese hanno potuto decidere se sospendere totalmente o parzialmente la rilevazione delle quote di ammortamento delle immobilizzazioni materiali e immateriali, mantenendo inalterato il valore contabile di iscrizione dei cespiti, come risultante dall’ultimo bilancio approvato. Questa libertà di scelta ha rappresentato un’opportunità importante ma, al tempo stesso, ha comportato precisi obblighi informativi e patrimoniali.

In particolare, i soggetti che hanno optato per la sospensione hanno dovuto:

  1. Costituire una riserva indisponibile di utili, di importo pari agli ammortamenti non rilevati. In assenza di utili dell’esercizio, la riserva doveva essere alimentata attingendo da altre riserve patrimoniali disponibili; se anche queste risultavano insufficienti, si sarebbe dovuto attendere la formazione di utili futuri per integrare la riserva;

  2. Fornire un’informativa dettagliata in Nota integrativa, oppure in calce allo Stato patrimoniale per le microimprese, indicando: l’ammontare degli ammortamenti sospesi, le motivazioni della scelta, l’importo della riserva indisponibile e l’impatto della decisione sul risultato d’esercizio.

A supporto delle imprese, l’OIC ha pubblicato il documento interpretativo OIC 9, contenente le modalità operative e contabili da seguire.

Sul piano fiscale, la norma ha lasciato libertà di dedurre comunque gli ammortamenti sospesi ai fini IRES e IRAP. In tal caso, tuttavia, era necessario operare una variazione in diminuzione in dichiarazione dei redditi, generando un disallineamento tra valore civilistico e fiscale, con conseguente obbligo di rilevare imposte differite passive. Un tema tecnico che richiede attenzione, soprattutto nella prospettiva del riallineamento a fine vita utile del bene.

Infine, sin dalle prime applicazioni nel 2020, non sono mancati dubbi sull’aderenza al principio di veridicità del bilancio: estendere la sospensione a tutti i beni e a tutti i contribuenti, senza distinzione tra settori colpiti o meno dalla crisi, ha sollevato più di una critica in dottrina, critica che si è accentuata con le successive proroghe fino al 2023.

Bilancio 2024

La possibilità di sospendere gli ammortamenti si è conclusa con i bilanci 2023: per l’esercizio 2024, la deroga non è stata prorogata. Tuttavia, le imprese che in uno o più esercizi tra il 2020 e il 2023 hanno scelto di sospendere le quote di ammortamento, dovranno ora gestire gli effetti contabili e fiscali di quella scelta, che si rifletteranno non solo sul bilancio 2024, ma anche su quelli successivi.

Gli impatti principali sono tre:

  • la rideterminazione delle quote di ammortamento;

  • la liberazione della riserva indisponibile;

  • il riassorbimento delle imposte differite.

1. Rideterminazione dell’ammortamento

Secondo quanto previsto dal documento interpretativo OIC 9, occorre verificare se la vita utile del bene è stata modificata. In tal caso, la nuova quota di ammortamento sarà ottenuta dividendo il valore netto contabile per la nuova vita utile residua. In base alle scelte passate (sospensione totale o parziale) e alla revisione della vita utile, la nuova quota potrà risultare maggiore, minore o uguale rispetto a quella ante-deroga.

2. Liberazione della riserva indisponibile

La riserva di utili costituita in bilancio a fronte della sospensione degli ammortamenti può essere liberata:

  • progressivamente, con la ripresa dell’ammortamento;

  • in un’unica soluzione, in caso di cessione del bene.

Tale liberazione avviene in sede di approvazione del bilancio, al momento della destinazione degli utili.

3. Riassorbimento della fiscalità differita

Le imposte differite passive, rilevate in passato a fronte della deduzione fiscale di quote non iscritte a bilancio, vengono riassorbite:

  • o durante il nuovo piano di ammortamento;

  • o in caso di alienazione del bene.

Infine, pur non essendo obbligatorio, è opportuno che l’impresa dia evidenza in Nota integrativa degli effetti contabili e patrimoniali della sospensione, con un dettaglio sulle nuove quote, sull’utilizzo della deroga e sulla movimentazione delle riserve. Questo approccio aumenta la trasparenza e rafforza la credibilità del bilancio agli occhi di terzi (banche, investitori, revisori).

Impatti economici, finanziari e fiscali

Con la ripresa della normale imputazione degli ammortamenti nel bilancio 2024, le imprese si trovano a dover riportare nei conti economici costi che negli anni passati erano stati “sospesi”, con effetti potenzialmente significativi sulla redditività e sui principali indicatori economico-finanziari.

A livello economico, l’aumento delle quote di ammortamento può comportare una riduzione dell’utile d’esercizio, specialmente per le aziende che avevano beneficiato di sospensioni totali e ora si trovano a dover accelerare il processo di ammortamento residuo. Questo impatta direttamente:

  • sulla capacità di distribuzione degli utili;

  • sulla remunerazione degli azionisti o soci;

  • sulla capacità di autofinanziamento dell’impresa.

Sul piano finanziario, la situazione può aggravarsi se si considera che una minore redditività contabile può influenzare negativamente il rating bancario e quindi l’accesso al credito. Alcuni indicatori patrimoniali e finanziari – come il ROE, il ROI e l’EBITDA – potrebbero peggiorare, almeno nel breve termine, rendendo necessario un adeguato supporto informativo nella Nota integrativa e nel dialogo con stakeholder esterni.

Dal punto di vista fiscale, la cessazione della deroga porta con sé la fine delle variazioni in diminuzione operate in dichiarazione, e l’inizio del riassorbimento delle imposte differite passive iscritte nei bilanci precedenti. Il disallineamento tra valori fiscali e civilistici, che ha caratterizzato gli esercizi dal 2020 al 2023, inizierà gradualmente a rientrare, ma ciò richiederà un attento monitoraggio da parte degli uffici amministrativi e dei consulenti fiscali, per evitare errori o incongruenze.

In sintesi, il bilancio 2024 rappresenta un punto di svolta: la sospensione degli ammortamenti ha offerto un vantaggio temporaneo, ma ora è il momento di gestirne il ritorno con lungimiranza. Pianificazione, trasparenza e adeguata consulenza saranno le chiavi per non subire passivamente gli effetti di una norma pensata per un contesto emergenziale.

Aspetti fiscali

Uno degli elementi più delicati della sospensione degli ammortamenti è rappresentato dal trattamento fiscale delle quote non imputate civilisticamente. Infatti, la normativa ha previsto che, pur in assenza di rilevazione a conto economico, le imprese potessero dedurre integralmente le quote di ammortamento ai fini IRES e IRAP, generando un disallineamento tra valori civilistici e fiscali.

Tale possibilità, pur vantaggiosa nell’immediato (in quanto ha consentito una riduzione dell’imponibile fiscale), ha avuto come effetto collaterale la necessità di:

  • effettuare una variazione in diminuzione nel modello Redditi;

  • iscrivere imposte differite passive in bilancio, in ottemperanza al principio della competenza economica e al corretto matching tra componenti positivi e negativi.

Con la ripresa dell’ammortamento nel 2024, questi disallineamenti iniziano gradualmente a riassorbirsi. In pratica, la quota che ora torna a essere rilevata a conto economico non è più fiscalmente deducibile, poiché già dedotta negli esercizi precedenti. Di conseguenza:

  • non si opera alcuna variazione in dichiarazione;

  • l’impresa dovrà stornare progressivamente le imposte differite passive, seguendo lo stesso ritmo con cui viene contabilizzato il nuovo piano di ammortamento.

Va evidenziato che questo processo di riallineamento richiederà una pianificazione attenta, soprattutto nei casi in cui l’impresa abbia esteso la vita utile del bene: in tal caso, la deduzione fiscale anticipata può protrarsi oltre il piano di ammortamento civilistico, generando effetti distorsivi sulle imposte di esercizio e sul tax rate aziendale.

Considerazioni finali

Il ritorno alla normalità contabile nel 2024, dopo quattro anni di sospensione degli ammortamenti, segna un momento cruciale per moltissime imprese italiane. Se da un lato la deroga introdotta nel 2020 ha rappresentato un sollievo temporaneo, oggi occorre gestirne le conseguenze con competenza e visione strategica, per evitare squilibri nei conti e nel profilo fiscale.

Ogni impresa che ha beneficiato della sospensione, anche solo per un esercizio, dovrà:

  • ricalcolare attentamente i nuovi piani di ammortamento, tenendo conto delle disposizioni OIC e della vita utile residua dei beni;

  • gestire con precisione la liberazione delle riserve indisponibili, evitando errori nella destinazione degli utili;

  • monitorare le imposte differite passive, per garantire un corretto allineamento tra valori civilistici e fiscali;

  • valutare gli impatti economici e finanziari, soprattutto in ottica di rapporti con le banche e con investitori esterni.

In un contesto in cui il bilancio assume sempre più una funzione comunicativa – oltre che fiscale – è fondamentale predisporre una Nota integrativa trasparente e analitica, che dia conto delle scelte passate e degli effetti attuali.

Per le imprese più strutturate, può essere utile affiancare il bilancio civilistico con un’analisi per indici e un report gestionale che evidenzi i corretti margini operativi, “ripuliti” dall’impatto contabile della deroga. Questo consente di presentare un’immagine veritiera e affidabile anche agli stakeholder finanziari.

Infine, è consigliabile confrontarsi con il proprio commercialista o CFO per valutare eventuali manovre correttive o compensative (come il riallineamento civilistico-fiscale o l’utilizzo di strumenti di patrimonializzazione) che possano attenuare l’impatto dell’ammortamento “recuperato” sul conto economico 2024.

Bonus affitto per trasferimento dei neoassunti 2025

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Wooden blocks with the word Bonus. A bond is a security that indicates that the investor has provided a loan to the issuer.

La Legge di Bilancio 2025 (legge n. 207/2024) introduce una nuova misura fiscale volta a favorire la mobilità lavorativa e l’inserimento stabile nel mondo del lavoro. Si tratta del cosiddetto bonus affitto per trasferimento dei neoassunti, un’agevolazione che prevede l’esenzione dal reddito imponibile, fino a 5.000 euro annui per due anni, delle somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro ai dipendenti assunti a tempo indeterminato nel corso del 2025 per il pagamento dell’affitto e la manutenzione ordinaria dell’immobile.

La misura nasce con l’obiettivo di incentivare il trasferimento geografico dei lavoratori, riconoscendo i costi connessi al cambio di residenza per motivi professionali. A differenza di altri fringe benefit già esistenti, il bonus affitto si configura come un beneficio fiscale mirato e cumulabile, destinato a specifiche categorie di lavoratori e soggetto a requisiti ben definiti.

Nel presente articolo vengono analizzati in dettaglio i presupposti normativi, le condizioni di accesso, le modalità operative e gli impatti fiscali e gestionali per lavoratori e aziende, con l’obiettivo di fornire una panoramica completa e aggiornata su una delle novità fiscali più rilevanti dell’anno.

Bonus affitto

Con l’intento di sostenere la mobilità dei lavoratori e rispondere alle esigenze di un mercato del lavoro in continua evoluzione, la Legge di Bilancio 2025 (Legge n. 207/2024, art. 1, commi 386-389) ha introdotto una nuova agevolazione fiscale a favore dei lavoratori neoassunti a tempo indeterminato. Il beneficio si inserisce nel quadro delle misure finalizzate a rendere più attrattiva l’assunzione stabile e a favorire il trasferimento geografico per motivi professionali.

La misura prevede che, a decorrere dal 1° gennaio 2025, siano escluse dal reddito imponibile IRPEF le somme fino a un massimo di 5.000 euro annui, erogate o rimborsate dal datore di lavoro a titolo di contributo per:

  • le spese di locazione dell’abitazione;

  • le spese di manutenzione ordinaria dell’immobile locato.

L’esenzione è valida per un periodo massimo di due anni, permettendo quindi un risparmio fiscale potenziale fino a 10.000 euro complessivi. Si tratta a tutti gli effetti di un fringe benefit, ma con caratteristiche specifiche che lo distinguono dalle soglie ordinarie previste per il 2025, pari a:

  • 1.000 euro annui per i dipendenti senza figli a carico;

  • 2.000 euro annui per i lavoratori con figli fiscalmente a carico.

Il nuovo bonus affitto per trasferimento non sostituisce ma si aggiunge a questi limiti, rappresentando una leva fiscale aggiuntiva per i datori di lavoro che vogliono incentivare la disponibilità al trasferimento e fidelizzare i nuovi assunti.

Chi può accedere

L’accesso al bonus affitto per neoassunti introdotto dalla Legge di Bilancio 2025 è subordinato al rispetto di requisiti precisi, che mirano a garantire che l’agevolazione venga effettivamente destinata a chi si sposta per motivi lavorativi e ha una reale necessità di sostegno economico.

In primo luogo, il lavoratore deve:

  • essere stato assunto nel 2025 con contratto a tempo indeterminato (sono esclusi i contratti a tempo determinato e le trasformazioni da tempo determinato, salvo futuri chiarimenti da parte dell’Agenzia delle Entrate);

  • aver trasferito la propria residenza anagrafica nel Comune sede del nuovo lavoro, situato ad almeno 100 km di distanza dal Comune di residenza precedente;

  • aver percepito un reddito da lavoro dipendente non superiore a 35.000 euro nel 2024.

Si tratta di un’agevolazione di natura esclusivamente fiscale, che quindi non ha effetti contributivi ai fini previdenziali. Il bonus è inoltre discrezionale, ovvero il datore di lavoro non è obbligato ad erogarlo alla totalità dei dipendenti, ma può decidere di riconoscerlo solo a determinati lavoratori in base a proprie politiche aziendali.

Per usufruire dell’agevolazione, il dipendente deve fornire una dichiarazione sostitutiva di atto notorio in cui attesta:

  • di aver avuto residenza, nei sei mesi precedenti l’assunzione, in un Comune diverso da quello del luogo di lavoro;

  • di rispettare il limite reddituale previsto.

È importante precisare che, sebbene le somme erogate siano esenti da IRPEF, esse concorrono al calcolo dell’ISEE, influenzando quindi l’accesso a eventuali prestazioni assistenziali o agevolazioni legate al reddito. Inoltre, sono escluse dal beneficio eventuali spese accessorie come i costi di trasloco o deposito mobili.

Come anticipato, il bonus può essere cumulato con gli altri fringe benefit ordinari, che restano fissati a 1.000 euro (o 2.000 euro per i lavoratori con figli a carico). In tal modo, un lavoratore in possesso di tutti i requisiti può potenzialmente ricevere fino a 10.000 euro in due anni per l’affitto, oltre agli ulteriori benefici fiscali legati al pagamento delle utenze domestiche.

Come funziona

L’erogazione del bonus affitto per neoassunti avviene direttamente a cura del datore di lavoro, che può decidere se rimborsare le spese sostenute dal dipendente o erogare anticipatamente un importo a titolo di contributo. In entrambi i casi, è necessario che la somma sia documentata e riconducibile a spese reali per il pagamento del canone di locazione o per la manutenzione ordinaria dell’immobile in uso al lavoratore.

Dal punto di vista fiscale, le somme erogate con questa finalità non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente, purché rispettino i requisiti indicati dalla normativa e siano correttamente indicate nella CU (Certificazione Unica). Per l’azienda, ciò comporta un’attenzione particolare alla tracciabilità del beneficio e alla sua corretta imputazione contabile, dato che si tratta di un’esenzione limitatamente riconosciuta e soggetta a verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria.

È consigliabile che il datore di lavoro predisponga una procedura interna, eventualmente supportata da un regolamento aziendale, in cui siano stabilite:

  • le modalità di richiesta del bonus da parte del lavoratore;

  • i documenti da allegare (es. contratto di locazione, ricevute di pagamento, dichiarazione sostitutiva);

  • i tempi e le modalità di erogazione del beneficio.

Dal punto di vista operativo, è bene ricordare che, trattandosi di una misura fiscale ma non contributiva, non comporta l’applicazione di contributi INPS né IRAP, ma ha un impatto gestionale non trascurabile per le aziende, che devono tenere traccia dei rimborsi erogati per ciascun dipendente.

Infine, per i lavoratori è importante sapere che eventuali somme non effettivamente spese o non correttamente giustificate potrebbero essere oggetto di ripresa a tassazione in sede di controllo fiscale. L’erogazione deve quindi avvenire sempre nel rispetto di criteri di trasparenza, coerenza e documentazione.

Vantaggi fiscali

Il bonus affitto per trasferimento neoassunti rappresenta un’occasione vantaggiosa sia per i lavoratori che per i datori di lavoro, configurandosi come uno strumento efficace di ottimizzazione fiscale e al tempo stesso una leva strategica per attrarre e fidelizzare il personale.

Per il lavoratore, il beneficio consente di ricevere fino a 5.000 euro all’anno (per due anni) esenti da imposte, cioè netti in busta paga, purché finalizzati al pagamento dell’affitto o alla manutenzione ordinaria dell’immobile in cui ha trasferito la residenza. Questo significa un incremento reale del potere d’acquisto, soprattutto in contesti urbani ad alta tensione abitativa, dove il costo degli alloggi può incidere significativamente sul bilancio familiare.

Inoltre, la possibilità di cumulare questo bonus con i fringe benefit ordinari rende il pacchetto complessivo ancora più interessante, arrivando a valori complessivi superiori ai 10.000 euro in due anni.

Dal lato delle imprese, il bonus si traduce in un vantaggio fiscale immediato: le somme erogate non sono soggette né a IRPEF né a contribuzione previdenziale, riducendo così il cuneo fiscale e il costo del lavoro. Inoltre, si tratta di un incentivo che può essere utilizzato in modo selettivo, senza obbligo di applicazione generalizzata, consentendo alle aziende di modulare il proprio piano di welfare aziendale secondo le reali esigenze di attrazione e retention del personale.

In un contesto in cui il reperimento di figure qualificate e la mobilità geografica rappresentano sfide quotidiane per le aziende, il bonus affitto 2025 si configura come una misura concreta, flessibile e fiscalmente efficiente, capace di coniugare esigenze aziendali e benefici per i dipendenti.

Casi pratici, consigli utili e cosa aspettarsi

Per comprendere meglio il funzionamento e le potenzialità del bonus affitto, può essere utile analizzare alcuni esempi concreti.

Immaginiamo il caso di Luca, 29 anni, assunto a tempo indeterminato da un’azienda informatica a Milano nel febbraio 2025. Luca, residente fino a gennaio a Rimini (oltre 300 km di distanza), si trasferisce a Milano in un appartamento in affitto con un canone mensile di 900 euro. Presentando al nuovo datore di lavoro il contratto di locazione, le ricevute di pagamento e l’autodichiarazione richiesta, può ricevere un rimborso annuale fino a 5.000 euro, totalmente esente da IRPEF e contributi, oltre a eventuali fringe benefit ordinari (buoni spesa, utenze, ecc.).

Per i lavoratori interessati, il primo passo è:

  1. Verificare il rispetto dei requisiti (contratto a tempo indeterminato, residenza precedente, distanza di almeno 100 km, reddito inferiore a 35.000 euro nel 2024).

  2. Conservare la documentazione (contratto d’affitto, pagamenti, dichiarazione sostitutiva).

  3. Comunicare tempestivamente al datore di lavoro l’intenzione di accedere al beneficio.

Per le aziende, invece, è fondamentale:

  • predisporre una procedura interna chiara per la gestione del bonus;

  • aggiornare la documentazione contrattuale e fiscale;

  • formare il personale amministrativo o affidarsi a un consulente fiscale per evitare errori di inquadramento.

Sul piano operativo, al momento non è prevista una piattaforma centralizzata o una modulistica specifica. Tuttavia, si attendono chiarimenti attuativi da parte dell’Agenzia delle Entrate, soprattutto in merito:

  • ai documenti da conservare ai fini probatori;

  • all’applicabilità in caso di lavoratori in smart working;

  • alla gestione in caso di interruzione del contratto nei primi due anni.

È probabile che le prime FAQ ufficiali e una circolare esplicativa arrivino entro il secondo trimestre 2025, rendendo più chiaro il quadro operativo. Nel frattempo, si consiglia ai lavoratori interessati di muoversi per tempo, in modo da raccogliere la documentazione necessaria fin da subito, e ai datori di lavoro di valutare l’inserimento del bonus affitto nel piano di welfare aziendale 2025.

Considerazioni finali

Il bonus affitto per trasferimento neoassunti, introdotto con la Legge di Bilancio 2025, rappresenta una novità significativa nel panorama delle agevolazioni fiscali per i lavoratori dipendenti. In un’epoca in cui la mobilità è spesso necessaria ma costosa, questa misura consente di alleviare in modo concreto il peso economico del trasferimento, incentivando allo stesso tempo l’assunzione stabile e la crescita professionale.

Per chi cambia città per iniziare una nuova avventura lavorativa, avere la possibilità di ricevere fino a 10.000 euro in due anni esenti da tasse è un vantaggio reale e tangibile. Per le imprese, invece, si tratta di uno strumento fiscale intelligente, che può essere gestito in piena autonomia e adattato alle proprie esigenze organizzative, con benefici economici e motivazionali.

Come spesso accade con le novità fiscali, è fondamentale muoversi in modo informato, affidandosi a un commercialista o a un consulente esperto per garantire il corretto utilizzo del bonus e la massima ottimizzazione fiscale. Le regole ci sono, ma saperle applicare correttamente fa la differenza tra un’opportunità colta e un’occasione persa.

Società Sportive Dilettantistiche: le nuove regole fiscali e statutarie spiegate dal CNDCEC

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Composite image Football soccer game manager with statistic numbers. Mixed media

Negli ultimi anni le Società Sportive Dilettantistiche (SSD) hanno assunto un ruolo sempre più rilevante nel panorama economico e sociale italiano, soprattutto alla luce delle recenti riforme del Terzo Settore e della Riforma dello Sport. Tuttavia, il quadro normativo complesso e in continua evoluzione ha generato non pochi dubbi interpretativi per professionisti, dirigenti sportivi e associazioni.

Proprio per rispondere a queste esigenze di chiarezza, il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (CNDCEC) ha pubblicato un importante documento di ricerca che analizza in maniera dettagliata la disciplina delle SSD alla luce delle ultime modifiche legislative. Un lavoro prezioso, che non si limita alla teoria, ma offre una guida pratica su questioni fondamentali come la natura giuridica, le agevolazioni fiscali, le responsabilità degli organi sociali e i nuovi adempimenti previsti.

In questo articolo analizzeremo i contenuti più rilevanti del documento, evidenziando le opportunità che si aprono per chi gestisce una società sportiva dilettantistica e i rischi da evitare. Scopriremo inoltre come ottimizzare la gestione fiscale di queste realtà e quali strumenti possono essere adottati per ottenere risparmi legali sulle imposte.

La natura giuridica delle SSD

Il documento del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili analizza in modo approfondito la disciplina vigente delle Società Sportive Dilettantistiche (SSD), concentrandosi in particolare sugli articoli 6-12 del D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, così come modificati dal D.Lgs. 5 ottobre 2022, n. 163 e dal più recente D.Lgs. 29 agosto 2023, n. 120.

Nella prima parte, lo studio si sofferma sui tipi societari ammessi, sui requisiti statutari inderogabili e su alcune peculiarità giuridiche che caratterizzano le SSD, come la cosiddetta lucratività attenuata. Quest’ultima prevede che, pur potendo distribuire compensi ai soci in determinate condizioni, le SSD siano comunque obbligate alla devoluzione del patrimonio a fini sportivi in caso di scioglimento.

Il documento chiarisce come le SSD possano costituirsi in forma di associazione, ma anche come società di capitali o di persone, a condizione che rispettino le norme dello statuto sportivo, come previsto dalla Legge 289/2002 (art. 90) e dalle successive integrazioni normative.

Le finalità statutarie devono essere chiaramente rivolte alla promozione dell’attività sportiva dilettantistica, con esclusione dello scopo di lucro. Il documento sottolinea inoltre che la gestione patrimoniale e finanziaria deve essere ispirata a trasparenza e tracciabilità, elementi fondamentali per accedere a eventuali agevolazioni fiscali.

Una parte critica evidenziata riguarda il difficile coordinamento tra la disciplina societaria, la normativa fiscale e le linee guida delle federazioni sportive, che spesso generano dubbi interpretativi nella redazione degli statuti. È proprio questo intreccio normativo, non sempre perfettamente armonizzato, a creare margini di rischio per le SSD, soprattutto se non adeguatamente assistite da consulenti esperti.

Regime fiscale delle SSD

La seconda parte del documento del CNDCEC si concentra sugli aspetti fiscali delle Società Sportive Dilettantistiche, offrendo un’analisi chiara della normativa applicabile e dei regimi agevolati previsti per queste realtà. In particolare, viene sottolineata la complessità derivante dal coordinamento tra le disposizioni del D.Lgs. 36/2021 e la normativa fiscale vigente, con richiami frequenti a prassi dell’Agenzia delle Entrate e alle interpretazioni delle federazioni sportive nazionali.

Tra i principali benefici fiscali, si evidenzia la possibilità di accedere al regime forfetario ex Legge 398/1991, che prevede una semplificazione degli adempimenti contabili e il versamento di un’imposta sostitutiva forfettaria sui proventi commerciali. Questo regime, tuttavia, è accessibile solo se la SSD rispetta una serie di condizioni specifiche, come il limite dei ricavi (fissato a 400.000 euro annui) e la regolare iscrizione al registro CONI o al nuovo Registro nazionale delle attività sportive dilettantistiche (RASD).

Il documento segnala anche la presenza di criticità interpretative importanti. Ad esempio, non è ancora del tutto chiaro come armonizzare le finalità istituzionali non lucrative con l’attività commerciale accessoria, né come trattare le sponsorizzazioni in modo univoco ai fini IVA.

Inoltre, le SSD sono tenute a gestire con attenzione gli inserimenti di compensi e rimborsi ai collaboratori sportivi, alla luce dei nuovi obblighi previdenziali introdotti dalla riforma. La mancanza di coordinamento tra normativa civilistica, fiscale e sportiva rende ancora più urgente il ruolo dei commercialisti specializzati, in grado di interpretare correttamente le norme e orientare le società verso una gestione fiscale conforme e vantaggiosa.

Aspetti fiscali

Il documento del CNDCEC mette in evidenza un punto critico: sebbene la Riforma dello Sport abbia introdotto novità significative dal punto di vista civilistico, l’impatto sotto il profilo fiscale per le Società Sportive Dilettantistiche si è rivelato piuttosto limitato.

Le principali novità formali – come l’aggiornamento degli statuti, l’iscrizione nel nuovo Registro delle attività sportive dilettantistiche (che sostituisce di fatto il Registro CONI), le nuove regole sulle incompatibilità degli amministratori – si accompagnano a modifiche sostanziali che riguardano il necessario esercizio prevalente dell’attività sportiva dilettantistica e la distinzione tra attività istituzionale e attività diverse.

Tuttavia, queste trasformazioni non si sono tradotte in un reale rinnovamento del quadro tributario.

Il CNDCEC sottolinea come, in mancanza di un coordinamento sistematico tra le nuove norme sportive e il diritto tributario, le SSD siano ancora costrette a fare riferimento a fonti normative esterne alla riforma. Tra queste si annoverano il TUIR (D.P.R. 917/1986) per l’imposizione diretta, il D.P.R. 633/1972 per l’IVA, e il D.P.R. 642/1972 per l’imposta di bollo. L’art. 36, comma 2, del D.Lgs. 36/2021 conferma esplicitamente che, per tutto ciò che non è regolato dal decreto, si applicano le disposizioni del TUIR.

Le SSD possono comunque beneficiare di regimi di favore già noti, come il regime agevolato ex Legge 398/1991, applicabile solo al ricorrere di determinati requisiti, e delle disposizioni di decommercializzazione previste dall’art. 148, comma 3, TUIR e, ai fini IVA, dall’art. 4, comma 4, del D.P.R. 633/1972. A ciò si aggiungono norme utili come quelle contenute nell’art. 25, comma 2, della Legge 133/1999, relative alle raccolte pubbliche di fondi e attività accessorie.

Resta però espressamente esclusa per le SSD la possibilità di adottare il regime forfettario ai fini IRPEF previsto dall’art. 145 del TUIR, limitando così le opzioni disponibili per le società che intendono semplificare ulteriormente la gestione fiscale.

La redazione dello statuto delle SSD

Uno degli aspetti centrali trattati nel documento del CNDCEC riguarda la redazione e l’adeguamento degli statuti delle Società Sportive Dilettantistiche. La corretta formulazione dello statuto è infatti un requisito imprescindibile per accedere ai benefici fiscali e per l’ottenimento dell’iscrizione nel Registro nazionale delle attività sportive dilettantistiche. In questo senso, il documento fornisce indicazioni operative dettagliate, evidenziando quali sono le clausole inderogabili che ogni SSD deve inserire e quali accorgimenti adottare per evitare errori formali o sostanziali.

Tra gli elementi obbligatori da includere nello statuto figurano:

  • l’assenza di scopo di lucro e la destinazione degli utili al perseguimento dell’attività sportiva;

  • la previsione della devoluzione del patrimonio a fini sportivi in caso di scioglimento;

  • l’organizzazione democratica per le forme associative;

  • l’esplicita distinzione tra attività istituzionale e attività commerciale;

  • l’obbligo di tenuta di scritture contabili secondo quanto previsto dal regime fiscale applicabile.

Un errore frequente, sottolinea il CNDCEC, è quello di replicare modelli statutari standardizzati senza personalizzarli in base alla forma giuridica della SSD o alle disposizioni delle federazioni sportive di riferimento.

Questo può generare incompatibilità con il diritto societario, ma anche problemi in sede di verifica da parte dell’Agenzia delle Entrate, con il rischio concreto di perdere le agevolazioni fiscali o di vedersi negare l’iscrizione al Registro.

Il documento raccomanda pertanto di redigere lo statuto con il supporto di un professionista esperto, in grado di interpretare correttamente le norme e costruire un testo coerente con la realtà organizzativa e gestionale della società.

La responsabilità degli organi sociali

Un altro punto chiave evidenziato nel documento del CNDCEC riguarda la responsabilità degli organi sociali delle Società Sportive Dilettantistiche, in particolare di amministratori, consiglieri e presidenti. L’introduzione delle nuove normative con il D.Lgs. 36/2021 e le successive modifiche ha rafforzato il ruolo di questi soggetti, attribuendo loro obblighi di vigilanza e di corretta gestione sempre più stringenti, anche in ambito fiscale e contributivo.

Nel caso di SSD costituite in forma societaria (es. S.r.l. sportiva dilettantistica), la responsabilità degli amministratori segue le regole del codice civile in materia di società di capitali, con tutte le conseguenze derivanti da una cattiva gestione o da omissioni nella tenuta delle scritture contabili e degli adempimenti fiscali. In particolare, la mancata osservanza delle norme statutarie e fiscali può portare a responsabilità patrimoniale personale in caso di danni all’ente o a terzi.

Per le SSD costituite in forma associativa, la situazione è leggermente diversa, ma non meno delicata: anche qui i membri degli organi direttivi rispondono in caso di omessa vigilanza, di utilizzo scorretto dei fondi o di gestione non trasparente. Il documento del CNDCEC sottolinea come sia essenziale, soprattutto in queste realtà, adottare una gestione contabile ordinata e tracciabile, predisporre bilanci annuali anche se non obbligatori per legge e curare l’archiviazione di verbali, contratti e documentazione fiscale.

Infine, si raccomanda una formazione specifica degli organi sociali, in quanto spesso i dirigenti delle SSD provengono dal mondo sportivo e non da quello giuridico o fiscale. Una maggiore consapevolezza dei propri compiti e delle proprie responsabilità può prevenire sanzioni, ispezioni e contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria o degli enti sportivi di riferimento.

Vantaggi fiscali

Una gestione corretta e conforme alla normativa consente alle Società Sportive Dilettantistiche di accedere a numerose agevolazioni fiscali e opportunità strategiche che possono fare la differenza nella sostenibilità economica dell’attività sportiva. Il documento del CNDCEC, oltre a fornire chiarimenti interpretativi, evidenzia come una SSD strutturata in modo efficace possa massimizzare i benefici previsti dalla legge riducendo al minimo l’esposizione al rischio fiscale.

Tra le principali agevolazioni si segnala la possibilità di:

  • applicare il regime agevolato ex L. 398/1991, che riduce l’IVA da versare al 50% e consente un’imposizione forfettaria dei ricavi;

  • usufruire della decommercializzazione dei proventi ottenuti per l’attività istituzionale (es. quote associative, corrispettivi specifici), che non concorrono alla formazione del reddito imponibile;

  • gestire raccolte pubbliche di fondi senza doverle qualificare come attività commerciale, se nel rispetto dei limiti e delle modalità stabilite dalla legge;

  • ottenere esenzioni o riduzioni tributarie locali, spesso previste dai Comuni per promuovere l’associazionismo sportivo.

Inoltre, una SSD ben gestita può valorizzare ulteriormente le proprie attività mediante partnership e sponsorizzazioni, accedendo anche a forme di contribuzione pubblica o bandi sportivi nazionali ed europei.

È fondamentale però rispettare con precisione i requisiti normativi: ad esempio, la tenuta di una contabilità separata per l’attività commerciale rispetto a quella istituzionale è imprescindibile per non perdere il diritto alle agevolazioni.

Anche l’utilizzo corretto dei collaboratori sportivi (ex art. 25 D.Lgs. 36/2021), con una gestione trasparente dei compensi e degli obblighi previdenziali, rappresenta una leva per coniugare legalità e ottimizzazione dei costi.

Considerazioni finali

Come abbiamo visto, le Società Sportive Dilettantistiche operano oggi in un contesto normativo ricco di potenzialità ma anche di complessità. Il documento del CNDCEC rappresenta una bussola preziosa per orientarsi tra obblighi statutari, agevolazioni fiscali, criticità operative e nuove responsabilità gestionali. Tuttavia, per tradurre questi contenuti in strategie concrete di gestione e sviluppo, è fondamentale affidarsi a commercialisti e consulenti specializzati nel settore sportivo.

Una SSD ben organizzata, con uno statuto aggiornato e coerente, una contabilità trasparente e una corretta gestione dei collaboratori, può davvero diventare un modello virtuoso capace di sostenere lo sport dilettantistico e al tempo stesso beneficiare di importanti vantaggi fiscali. Viceversa, errori formali o interpretazioni errate della normativa possono comportare la perdita di benefici, contestazioni da parte degli enti sportivi o fiscali, e addirittura conseguenze patrimoniali per gli organi dirigenti.

Per questo motivo, il consiglio finale è chiaro: non lasciare nulla al caso. Rivolgiti a professionisti esperti che conoscano a fondo il settore, le norme fiscali e le prassi delle federazioni. Solo così sarà possibile valorizzare davvero il potenziale della tua SSD, tutelarla sotto ogni profilo e permetterle di crescere in modo solido, legale e sostenibile.

Modello 730/2025 e Locazioni Brevi: Guida completa alla cedolare secca e risparmio fiscale

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Con l’entrata in vigore del Modello 730/2025, cambiano le regole per chi affitta immobili a breve termine, anche per pochi giorni all’anno. Le locazioni brevi – ossia i contratti inferiori a 30 giorni stipulati da privati – sono sempre più diffuse grazie a piattaforme come Airbnb o Booking, ma richiedono oggi una gestione fiscale più attenta e consapevole.

Tra le principali novità, l’Agenzia delle Entrate ha introdotto nuove istruzioni per dichiarare i redditi da locazioni brevi, rendendo obbligatoria l’indicazione dei canoni percepiti anche se già assoggettati a ritenuta tramite intermediari. Inoltre, viene confermata la possibilità di scegliere la cedolare secca al 21%, un regime fiscale agevolato che consente di pagare meno tasse, evitando IRPEF, addizionali, imposta di registro e bollo.

In questo articolo scoprirai tutto ciò che ti serve per affittare in regola e risparmiare sulle imposte, dalle novità del 730/2025 per le locazioni brevi alla convenienza della cedolare secca, passando per gli adempimenti fiscali da rispettare, le istruzioni pratiche per compilare correttamente il modello e utili esempi numerici per calcolare il risparmio effettivo.

Modello 730/2025

Il Modello 730/2025 introduce alcune importanti novità per chi effettua locazioni brevi, cioè contratti di durata non superiore a 30 giorni, stipulati da persone fisiche al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa. Si tratta di una forma di locazione sempre più diffusa, soprattutto grazie alle piattaforme digitali come Airbnb, che ormai fanno parte della gestione ordinaria di molti piccoli proprietari.

La novità principale riguarda l’obbligo di indicare in dichiarazione tutti i redditi derivanti da locazioni brevi, anche se gestiti da intermediari o piattaforme online che agiscono come sostituti d’imposta.

Una delle modifiche più rilevanti inserite nelle istruzioni ufficiali dell’Agenzia delle Entrate per il 730/2025, pubblicate a marzo, è l’introduzione di un nuovo campo dedicato proprio ai canoni percepiti da locazioni brevi, con la possibilità di scegliere direttamente l’opzione per la cedolare secca al 21%, evitando l’assoggettamento all’IRPEF progressiva.

In pratica, chi ha affittato un immobile per periodi inferiori a 30 giorni potrà inserire questi redditi nella sezione “Redditi fondiari”, specificando la natura del contratto e l’opzione fiscale scelta.

Inoltre, viene chiarito che non è più possibile evitare la dichiarazione di questi redditi anche nel caso in cui il canone sia stato già tassato alla fonte da una piattaforma online (ad esempio Airbnb): il reddito va comunque riportato nel 730, anche se il prelievo è già avvenuto, proprio per garantire una corretta tracciabilità fiscale.

Cedolare secca 2025

La cedolare secca rappresenta una forma alternativa e semplificata di tassazione sui redditi derivanti da locazione, che consente di evitare l’IRPEF ordinaria e le relative addizionali, applicando invece un’imposta sostitutiva con aliquota fissa. Per le locazioni brevi, l’aliquota prevista anche nel 2025 rimane al 21%, e l’opzione può essere esercitata direttamente nella dichiarazione dei redditi con il Modello 730.

Nel caso specifico delle locazioni brevi non superiori a 30 giorni, la cedolare secca può essere applicata anche quando il contratto viene gestito tramite intermediari immobiliari o piattaforme digitali. Tuttavia, a partire dal 2024 (e quindi con effetto sulla dichiarazione 2025), il legislatore ha stabilito che l’opzione per la cedolare secca deve essere esplicitata chiaramente nella dichiarazione anche se il reddito è già stato assoggettato a ritenuta d’acconto dall’intermediario. Questo per evitare fenomeni di doppia imposizione o errori nei calcoli.

Inoltre, la cedolare secca non comporta il pagamento di imposta di registro e di bollo sul contratto di locazione, a condizione che si tratti di immobili a uso abitativo e che l’opzione sia esercitata per intero. Un vantaggio non trascurabile per chi vuole massimizzare la redditività dei propri immobili senza appesantimenti burocratici.

Attenzione però: la cedolare non è sempre esercitabile. Ad esempio, non può essere scelta se il proprietario è una società o se si affittano più di quattro appartamenti, in tal caso si rientra nell’attività imprenditoriale e non nella locazione breve privata.

Requisiti e limiti

La cedolare secca è un regime opzionale che non tutti possono utilizzare: è pensato per le persone fisiche che concedono in locazione immobili a uso abitativo al di fuori dell’attività d’impresa. Questo significa che non è accessibile a società, enti o soggetti titolari di partita IVA che operano nel settore immobiliare in modo professionale.

Ecco i requisiti principali per poter accedere alla cedolare secca nel 2025:

  • Soggetto locatore: deve essere una persona fisica.
  • Società di persone, di capitali, enti o cooperative: escluse.
  • Tipo di immobile: solo immobili ad uso abitativo (categoria catastale da A1 a A11, esclusa A10 – uffici).
  • Tipologia di contratto: ammessi tutti i contratti abitativi, inclusi affitti brevi (max 30 giorni), purché non imprenditoriali.
  • Numero massimo di immobili affittati a breve termine: 4. Superato questo limite, si presume attività imprenditoriale.
  • Contratti con inquilini in regime d’impresa o con uso diverso dall’abitazione: non ammessi alla cedolare secca.

Inoltre, per le locazioni brevi tramite piattaforme online, è importante che:

  • il locatore resti una persona fisica, senza attività imprenditoriale;

  • non siano forniti servizi accessori “alberghieri” (pulizie giornaliere, colazione, reception, ecc.), che trasformerebbero l’attività in una forma di impresa turistica.

Novità 2025: è confermata l’incompatibilità tra cedolare secca e attività imprenditoriale. Questo è particolarmente rilevante per chi affitta diversi appartamenti o opera con continuità e sistematicità: in questi casi, potrebbe essere necessaria l’apertura della partita IVA e il passaggio a un regime fiscale ordinario.

Obblighi fiscali

Affittare un immobile a uso turistico o transitorio per periodi inferiori a 30 giorni può sembrare semplice, ma comporta diversi obblighi fiscali e comunicativi, ancora più stringenti con l’introduzione delle nuove regole per il Modello 730/2025.

Il primo obbligo fondamentale è la registrazione del contratto solo se supera i 30 giorni complessivi con lo stesso inquilino, altrimenti non è richiesta la registrazione, né il pagamento dell’imposta di registro. Tuttavia, il contratto deve comunque essere redatto in forma scritta, anche per eventuali controlli fiscali.

Un altro adempimento cruciale è la comunicazione alla Questura dei dati degli ospiti, obbligatoria entro 24 ore dall’arrivo tramite il portale “Alloggiati Web”, anche per una sola notte di permanenza. La mancata comunicazione può comportare sanzioni penali, anche se l’affitto è occasionale.

Sul piano fiscale, il reddito derivante da locazione breve deve essere riportato nel quadro B del Modello 730, indicando:

  • il codice identificativo dell’immobile,

  • i giorni di locazione,

  • il canone lordo percepito,

  • e l’eventuale opzione per la cedolare secca.

Nel caso in cui l’incasso avvenga tramite una piattaforma digitale, sarà quest’ultima a effettuare una ritenuta del 21% come acconto o imposta sostitutiva. Tuttavia, come chiarito dall’Agenzia delle Entrate, questi redditi vanno comunque dichiarati, e l’importo già trattenuto sarà detratto dal calcolo dell’imposta finale.

Infine, è importante conservare la documentazione relativa ai pagamenti, ai contratti e alle comunicazioni, almeno per 5 anni, per eventuali controlli dell’amministrazione finanziaria.

Vantaggi fiscali

La cedolare secca continua a rappresentare, anche nel 2025, una delle soluzioni fiscali più vantaggiose per chi affitta immobili a uso abitativo con contratti di breve durata. Scegliere questo regime permette al contribuente di pagare un’imposta sostitutiva pari al 21% sul canone lordo incassato, evitando l’applicazione dell’IRPEF progressiva, che spesso può superare il 30% nelle fasce di reddito medio-alte. Questo significa, in pratica, un risparmio fiscale concreto per chi ha altri redditi e rischierebbe di salire di scaglione IRPEF.

Un altro vantaggio importante è l’esonero da imposta di registro e di bollo: se si opta per la cedolare secca, anche nel caso delle locazioni brevi, non è dovuta l’imposta di registro sul contratto né quella di bollo sulle ricevute. Inoltre, non c’è obbligo di registrazione del contratto se non supera i 30 giorni complessivi con lo stesso locatario, riducendo ulteriormente la burocrazia.

Dal punto di vista della gestione amministrativa, il regime della cedolare secca è semplice da applicare: non richiede l’apertura della partita IVA e può essere utilizzato anche da chi affitta saltuariamente, purché resti nei limiti previsti dalla legge (massimo 4 immobili e non attività imprenditoriale).

Infine, in caso di ritenuta già effettuata dalla piattaforma intermediaria, come Airbnb, il contribuente può considerare tale ritenuta come imposta a titolo definitivo, se ha scelto la cedolare secca: questo elimina qualsiasi ulteriore saldo da versare, semplificando la dichiarazione dei redditi.

Come compilare il Modello 730/2025

Compilare correttamente il Modello 730/2025 in presenza di locazioni brevi è fondamentale per evitare accertamenti e ottimizzare la tassazione. La sezione da utilizzare è il Quadro B – Redditi dei fabbricati, dove andranno indicati i dati relativi all’immobile locato, al periodo di locazione e ai canoni percepiti.

Per ogni immobile concesso in locazione breve, bisogna:

  1. Inserire il codice catastale e l’identificativo catastale dell’immobile;

  2. Specificare il periodo dell’anno in cui è stato affittato (giorni effettivi di locazione);

  3. Riportare il canone lordo percepito;

  4. Indicare il codice “D” per locazione breve (come da istruzioni ufficiali 2025);

  5. Barrare l’apposita casella per l’opzione della cedolare secca, se scelta.

Nel caso in cui il canone sia stato gestito da una piattaforma (come Airbnb), bisogna indicare anche l’eventuale ritenuta del 21% già applicata: questo importo verrà riportato nel quadro F, sezione V, tra le ritenute subite, e verrà sottratto dal calcolo dell’imposta dovuta.

È bene anche verificare la corrispondenza dei dati con la Certificazione Unica eventualmente ricevuta dall’intermediario. Se la piattaforma ha agito da sostituto d’imposta, il contribuente potrà trovare questi redditi precompilati nel proprio 730, ma è sempre consigliabile controllare e integrare le informazioni mancanti.

Infine, per chi presenta il 730 tramite CAF o commercialista, è importante fornire tutta la documentazione: contratti, ricevute, movimenti bancari e CU da piattaforme. Una buona compilazione è la miglior difesa contro errori e contestazioni future.

Aspetti fiscali

La cedolare secca è un regime fiscale agevolato e sostitutivo, pensato per semplificare la tassazione degli affitti a uso abitativo. In pratica, chi la sceglie paga un’imposta unica sul canone percepito, sostituendo l’IRPEF, le addizionali regionali e comunali, e l’imposta di registro e di bollo. Nel 2025, l’aliquota prevista per le locazioni brevi (fino a 30 giorni) è del 21% fisso sul canone lordo, indipendentemente dal reddito complessivo del locatore.

Dal punto di vista fiscale, la cedolare secca:

  • Non concorre alla formazione del reddito complessivo IRPEF, quindi non fa “salire di scaglione”;

  • È esente da addizionali regionali e comunali;

  • Elimina l’obbligo di versare l’imposta di registro (che normalmente è del 2% annuo del canone) e quella di bollo (16 euro ogni 4 facciate del contratto).

L’imposta è sostitutiva anche se il contratto è di breve durata e non registrato, purché rientri nei casi previsti dalla normativa. Il pagamento della cedolare avviene in autoliquidazione tramite modello F24 (per chi presenta il modello Redditi) oppure tramite conguaglio nel 730, con eventuale trattenuta in busta paga se il 730 è presentato tramite sostituto d’imposta.

Un altro aspetto importante riguarda le ritenute operate dagli intermediari (come Airbnb o Booking): se viene applicata la ritenuta del 21%, il contribuente potrà detrarla dall’imposta dovuta, indicando l’importo nella sezione apposita del modello 730.

Tuttavia, la cedolare secca non dà diritto a deduzioni o detrazioni tipiche dell’IRPEF ordinaria (es. detrazione per lavori di ristrutturazione sull’immobile affittato), ed è incompatibile con la possibilità di dedurre spese o costi legati alla locazione.

Esempi pratici

Vediamo ora con alcuni casi pratici quanto si può risparmiare utilizzando la cedolare secca al 21% rispetto alla tassazione ordinaria IRPEF con scaglioni progressivi.

Esempio 1 – Proprietario con reddito medio

  • Reddito complessivo da lavoro: 35.000 €

  • Canoni percepiti da locazione breve nel 2024: 6.000 €

Scenario A – Tassazione ordinaria IRPEF:

  • I 6.000 € si sommano al reddito complessivo.

  • Parte di questi cade nello scaglione del 35%.

  • Tasse da pagare sui canoni: circa 2.100 €

Scenario B – Cedolare secca al 21%:

  • Imposta fissa sui 6.000 €: 1.260 €

  • Risparmio fiscale: circa 840 €

Esempio 2 – Proprietario con reddito alto

  • Reddito da lavoro o pensione: 60.000 €

  • Locazione breve percepita: 8.000 €

Scenario A – IRPEF ordinaria:

  • Questi canoni vengono tassati allo scaglione massimo (43%).

  • Tasse da pagare sui canoni: circa 3.440 €

Scenario B – Cedolare secca al 21%:

  • Imposta sostitutiva sui canoni: 1.680 €

  • Risparmio fiscale: 1.760 €

Esempio 3 – Proprietario con reddito basso

  • Reddito annuo complessivo: 12.000 €

  • Canoni da locazione breve: 5.000 €

Scenario A – IRPEF ordinaria (23%) + no detrazioni aggiuntive:

  • Tasse su canoni: circa 1.150 €

Scenario B – Cedolare secca 21%:

  • Imposta: 1.050 €

  • Risparmio limitato ma gestione semplificata (niente imposta di registro, niente bollo).

Considerazioni finali

La gestione fiscale delle locazioni brevi nel 2025 richiede maggiore attenzione, ma offre anche strumenti vantaggiosi per chi sceglie di affittare in modo trasparente e regolare. Il Modello 730/2025 introduce nuove modalità per dichiarare i redditi derivanti da affitti brevi e chiarisce definitivamente l’importanza di riportare in dichiarazione anche i canoni già tassati tramite piattaforme.

In questo contesto, l’opzione per la cedolare secca al 21% si conferma una soluzione ideale per molti proprietari: semplice, conveniente e perfettamente legale. Permette di alleggerire il carico fiscale, evitare l’IRPEF progressiva, saltare imposte accessorie come registro e bollo, e di dichiarare il tutto con facilità attraverso il 730.

Abbiamo visto come funziona, chi può accedervi, quali obblighi sono da rispettare e quanto si può risparmiare davvero, attraverso esempi numerici e casi concreti.

Affittare oggi non significa solo guadagnare: significa anche gestire correttamente il proprio reddito, evitando sanzioni e sfruttando tutte le agevolazioni disponibili.

Affidarsi a un commercialista esperto o a una consulenza fiscale specializzata può fare la differenza: la normativa è chiara, ma in continua evoluzione. Con le giuste informazioni e un approccio strategico, la locazione breve può diventare una fonte di reddito stabile, redditizia e fiscalmente ottimizzata.

Impresa con fattori ESG: come la sostenibilità ti fa ottenere finanziamenti a tassi agevolati

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Nel panorama economico attuale, dove le sfide ambientali e sociali sono sempre più centrali, le imprese non possono più permettersi di ignorare il tema della sostenibilità. Ma se fino a qualche anno fa integrare i fattori ESG (Environmental, Social, Governance) sembrava un’azione etica e “di buona volontà”, oggi rappresenta una vera e propria strategia di vantaggio competitivo, soprattutto in ambito finanziario.

Le banche e gli investitori, infatti, sono sempre più orientati a premiare le imprese che dimostrano un impegno concreto verso l’ambiente, il rispetto dei diritti sociali e una governance trasparente. Come? Offrendo finanziamenti a condizioni più favorevoli, con tassi d’interesse agevolati, accesso semplificato al credito, e in alcuni casi anche priorità nell’assegnazione di fondi pubblici e comunitari.

Dunque, adottare una strategia ESG oggi non è solo una scelta responsabile, ma un vero strumento di risparmio fiscale, economico e finanziario.

In questo articolo vedremo perché e come implementare i criteri ESG nella propria impresa può significare ottenere vantaggi concreti, analizzando anche le agevolazioni in essere, le direttive europee e i casi in cui questo modello ha già portato risultati tangibili.

Cosa sono i fattori ESG

I fattori ESG rappresentano tre pilastri fondamentali che definiscono la sostenibilità di un’impresa: Environmental (ambientale), Social (sociale) e Governance (gestione aziendale). Integrare questi aspetti nelle decisioni strategiche non è più un optional: oggi rappresenta un criterio essenziale per valutare la solidità e l’affidabilità di un’azienda, non solo da un punto di vista etico, ma anche economico.

Nel dettaglio, il fattore ambientale analizza come l’azienda gestisce l’impatto sul clima, l’uso delle risorse naturali, la riduzione delle emissioni e la transizione energetica. Il fattore sociale riguarda le condizioni dei lavoratori, l’inclusione, il rispetto dei diritti umani e il coinvolgimento delle comunità locali. La governance, infine, comprende la trasparenza nella gestione, l’integrità aziendale, la presenza di politiche anti-corruzione e un’efficace struttura di controllo interno.

A rendere centrali questi criteri è il cambiamento di rotta del sistema finanziario: sempre più banche, fondi di investimento e istituti pubblici usano gli standard ESG per valutare il merito creditizio delle imprese. Questo significa che un’impresa sostenibile viene percepita come meno rischiosa, più resiliente e quindi più meritevole di condizioni favorevoli, anche sul piano fiscale e bancario.

Inoltre, dal 2024, con l’entrata in vigore della Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) dell’Unione Europea, molte imprese italiane saranno obbligate a rendicontare pubblicamente le loro performance ESG. Questo conferma come l’integrazione ESG non sia solo una tendenza, ma una necessità normativa e strategica.

Finanziamenti agevolati

Sempre più istituti bancari e intermediari finanziari stanno adattando le proprie politiche di credito per favorire le imprese che dimostrano un impegno concreto nei confronti dei criteri ESG. Questo approccio nasce dalla consapevolezza che le aziende sostenibili non solo riducono i rischi reputazionali e ambientali, ma sono anche più solide nel lungo periodo.

Secondo quanto riportato da Fisco e Tasse, le imprese con un profilo ESG elevato possono accedere a finanziamenti con tassi di interesse più bassi, beneficiare di condizioni bancarie più vantaggiose e, spesso, ottengono una posizione preferenziale nei bandi pubblici e nell’assegnazione di fondi europei. Alcuni istituti, come Intesa Sanpaolo, UniCredit e BNL, offrono già prodotti finanziari green basati su parametri ESG, nei quali il tasso di interesse può diminuire progressivamente al raggiungimento di specifici obiettivi di sostenibilità.

In particolare, si parla di “sustainability-linked loans”, ovvero finanziamenti vincolati a obiettivi di sostenibilità (KPI ESG): se l’azienda raggiunge determinati traguardi – come la riduzione delle emissioni di CO₂ o l’aumento dell’inclusione sociale – ottiene condizioni migliori sul prestito. È un meccanismo win-win: la banca riduce il rischio, l’impresa risparmia sul finanziamento.

Inoltre, molte PMI che implementano pratiche ESG migliorano il proprio rating bancario, semplificando l’accesso a nuove linee di credito. Questo è particolarmente strategico in un periodo di aumento generalizzato dei tassi d’interesse, dove anche un punto percentuale di sconto può tradursi in migliaia di euro risparmiati ogni anno.

Normativa europea

L’adozione dei criteri ESG da parte delle imprese non è più una scelta opzionale. Con l’introduzione della nuova direttiva CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), entrata in vigore il 1° gennaio 2024, le aziende europee – comprese molte realtà italiane – saranno chiamate a rendicontare in modo dettagliato, trasparente e standardizzato il proprio impatto ambientale, sociale e di governance.

La CSRD si applica inizialmente alle grandi imprese e alle società quotate, ma nei prossimi anni verrà estesa progressivamente anche alle PMI quotate e, in alcuni casi, a quelle non quotate ma inserite nelle catene di fornitura di grandi gruppi. L’obiettivo è creare una trasparenza comparabile tra le imprese europee, favorendo gli investimenti sostenibili e incentivando le aziende a integrare criteri ESG nella loro strategia.

Per le imprese che non si adegueranno, i rischi sono diversi: difficoltà di accesso al credito, perdita di competitività nei confronti di fornitori più virtuosi, ma anche sanzioni amministrative e danni reputazionali. Al contrario, chi anticipa l’obbligo e inizia fin da ora a strutturare un bilancio di sostenibilità, potrà posizionarsi meglio nel mercato, attrarre investitori responsabili e ottenere agevolazioni.

In questo senso, l’adeguamento alla CSRD non è solo un adempimento burocratico, ma un’opportunità concreta per ripensare la governance, migliorare l’efficienza e ottenere risparmi fiscali e finanziari, grazie anche ai nuovi strumenti di supporto messi a disposizione da enti pubblici e privati.

PMI e sostenibilità

Se è vero che le grandi imprese sono le prime coinvolte dalle normative europee sulla sostenibilità, è altrettanto vero che anche le PMI italiane sono chiamate a fare la loro parte. In particolare, le piccole e medie imprese che vogliono accedere a finanziamenti agevolati, bandi pubblici o entrare in filiere internazionali, dovranno dimostrare il proprio impegno ESG.

Ma come fare, concretamente, per iniziare a integrare questi criteri, soprattutto in contesti con risorse limitate? Il primo passo è la valutazione dell’impatto ambientale e sociale delle proprie attività, anche attraverso strumenti semplificati messi a disposizione da associazioni di categoria, camere di commercio e consorzi locali. A questa fase può seguire l’adozione di policy aziendali che definiscano impegni chiari su energia, gestione rifiuti, welfare aziendale e trasparenza gestionale.

Alcuni strumenti utili per le PMI includono:

  • Rating ESG semplificati, come quelli offerti da Cerved o Crif ESG, pensati per imprese non quotate.
  • Checklist ESG sviluppate da enti pubblici e regionali.
  • Consulenze agevolate tramite fondi interprofessionali o incentivi camerali.
  • Software di rendicontazione per costruire bilanci di sostenibilità accessibili.

L’adozione di criteri ESG, inoltre, può portare benefici interni immediati: miglior clima aziendale, attrazione di giovani talenti, ottimizzazione dei costi energetici. Il tutto si traduce in una maggiore credibilità nei confronti delle banche e degli stakeholder finanziari, aprendo le porte a condizioni più vantaggiose e a nuovi mercati.

ESG e risparmio fiscale

Integrare criteri ESG nella gestione aziendale non significa solo accedere a tassi più bassi o migliorare l’immagine aziendale: in molti casi, può tradursi anche in vantaggi fiscali concreti. Negli ultimi anni, il legislatore italiano ha infatti introdotto agevolazioni fiscali, detrazioni e contributi a fondo perduto per incentivare gli investimenti green e socialmente responsabili.

Ad esempio, tra le misure attualmente attive troviamo:

  • Superbonus e Bonus Energia, per le aziende che investono in efficienza energetica o fonti rinnovabili;
  • Credito d’imposta per investimenti in beni strumentali 4.0, valido anche per impianti e tecnologie a basso impatto ambientale;
  • Contributi per l’inclusione lavorativa e per l’adozione di modelli organizzativi orientati alla parità di genere e alla conciliazione vita-lavoro;
  • Agevolazioni regionali e PNRR, che spesso premiano nei punteggi le imprese con un bilancio di sostenibilità o un rating ESG positivo.

Questi strumenti permettono alle aziende non solo di ridurre il carico fiscale, ma anche di finanziare parte degli investimenti iniziali necessari per diventare più sostenibili. Si tratta di un doppio vantaggio: l’impresa migliora il proprio profilo ESG e, allo stesso tempo, abbassa le imposte e accede a fondi altrimenti non disponibili.

Va ricordato, infine, che i consulenti fiscali possono giocare un ruolo chiave nell’individuare le misure più adatte alla singola impresa, sfruttando le possibilità offerte dal quadro normativo nazionale e comunitario.

Casi di successo

Sempre più aziende italiane – anche piccole e medie – stanno dimostrando come l’integrazione dei criteri ESG possa essere non solo sostenibile, ma anche estremamente vantaggiosa dal punto di vista economico e finanziario.

Un esempio virtuoso è quello di Illycaffè, storica azienda triestina, tra le prime a ottenere un rating ESG positivo e a emettere un sustainability-linked bond, cioè un’obbligazione con tasso variabile legato al raggiungimento di obiettivi ambientali. Il risultato? Accesso facilitato a capitale con tassi più bassi e maggiore attrattività verso investitori etici.

Un altro caso interessante è quello di Fratelli Carli, azienda ligure dell’alimentare, che ha ottenuto finanziamenti a condizioni vantaggiose grazie al miglioramento delle performance ambientali nella filiera produttiva. La certificazione ESG le ha permesso anche di ottenere punteggi più alti nei bandi pubblici legati al PNRR e in quelli europei per l’agroalimentare.

Anche nel settore manifatturiero troviamo esempi come Pietro Fiorentini Spa, che ha investito in transizione ecologica e governance interna, migliorando il proprio rating ESG assegnato da Cerved, con un impatto diretto sulle linee di credito e sulle condizioni di finanziamento.

Questi casi dimostrano come il rispetto dei criteri ESG non sia più solo una “moda”, ma un vero driver di sviluppo e vantaggio competitivo, con ricadute positive sul piano operativo, finanziario e anche fiscale.

Diventare ESG-ready

Avviare un percorso ESG non richiede rivoluzioni immediate, ma una strategia graduale e ben strutturata. Ogni impresa, indipendentemente dalla dimensione o dal settore, può iniziare a lavorare sulla sostenibilità e ottenere benefici tangibili in termini di accesso al credito, vantaggi fiscali e reputazione sul mercato.

Ecco i principali step consigliati per diventare ESG-ready:

  • Analisi iniziale (audit ESG): valutare l’attuale posizione dell’impresa rispetto a criteri ambientali, sociali e di governance. Esistono strumenti gratuiti o a basso costo per le PMI.

  • Definizione degli obiettivi sostenibili: fissare KPI chiari e misurabili, come riduzione delle emissioni, pari opportunità, governance trasparente.

  • Integrazione nei processi aziendali: aggiornare politiche interne, formazione del personale, revisione della supply chain, digitalizzazione e innovazione responsabile.

  • Rendicontazione e comunicazione: anche se non obbligatorio, redigere un bilancio di sostenibilità può fare la differenza nell’ottenere punteggi più alti nei rating bancari o nei bandi pubblici.

  • Accesso ai fondi e strumenti agevolati: mappare le opportunità offerte da PNRR, fondi europei, incentivi fiscali e bandi regionali, spesso riservati o prioritari per chi adotta pratiche ESG.

  • Monitoraggio e miglioramento continuo: l’adozione ESG è un percorso evolutivo, che va misurato e migliorato costantemente per garantire risultati e ritorni economici.

Con questi passaggi, un’impresa può non solo adeguarsi alle nuove normative, ma anche trasformare la sostenibilità in un motore di crescita, migliorando le proprie performance economiche, finanziarie e competitive.

Considerazioni finali

In un contesto economico in rapida evoluzione, in cui la sostenibilità è diventata un requisito richiesto da banche, investitori e istituzioni pubbliche, integrare i criteri ESG non è più una scelta facoltativa. È un passaggio strategico che ogni impresa, anche piccola o media, dovrebbe affrontare con visione e metodo.

I vantaggi sono reali e immediati: accesso agevolato al credito, finanziamenti con tassi inferiori, maggiori possibilità di ottenere contributi pubblici, incentivi fiscali e, non meno importante, una reputazione più solida verso clienti, partner e stakeholder.

L’esperienza dimostra che le aziende più resilienti e innovative sono quelle che hanno saputo guardare oltre il breve termine, investendo in sostenibilità come leva per il futuro. E oggi, grazie anche agli strumenti normativi e finanziari messi a disposizione, diventare un’impresa ESG-ready non è mai stato così accessibile.

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Sicurezza sul lavoro e macchinari datati: le nuove indicazioni INL nella circolare n. 2668 del 2025

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Nel 2025 si riafferma con forza il tema della sicurezza sul lavoro, con particolare attenzione ai macchinari datati e agli obblighi dei datori di lavoro. A riaccendere i riflettori su questi aspetti è la circolare INL n. 2668 del 6 marzo 2025, che fornisce importanti precisazioni operative su modalità di accertamento delle violazioni, criteri sanzionatori, e utilizzo di attrezzature non conformi ai requisiti minimi di sicurezza. L’obiettivo è quello di rafforzare la cultura della prevenzione e chiarire responsabilità e limiti per evitare fraintendimenti normativi.

In particolare, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro pone l’attenzione sui macchinari costruiti prima del 1996, ovvero prima dell’entrata in vigore della Direttiva Macchine (Direttiva 89/392/CEE, poi confluita nella 2006/42/CE). Molti di questi strumenti sono ancora utilizzati nei reparti produttivi di PMI italiane e pongono il problema dell’adeguamento ai requisiti minimi di sicurezza previsti dal D.Lgs. 81/2008.

L’INL chiarisce anche come comportarsi in sede ispettiva: quali parametri seguire per valutare una violazione, come quantificare le sanzioni, e quali obblighi gravano sul datore di lavoro. Si tratta di un cambio di passo importante, che punta a fare chiarezza in un ambito spesso oggetto di interpretazioni diverse e che coinvolge direttamente la gestione del rischio nelle aziende italiane.

La circolare INL 2668/2025

La circolare n. 2668 del 6 marzo 2025 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro rappresenta un documento di indirizzo fondamentale per tutti gli operatori del settore sicurezza e per i datori di lavoro. Il testo mira a uniformare i comportamenti degli ispettori durante le attività di controllo e a offrire criteri oggettivi per la valutazione delle violazioni in materia di sicurezza, in particolare in relazione all’uso di attrezzature di lavoro non conformi.

La circolare si inserisce nel quadro normativo del D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico sulla Sicurezza) e si propone di evitare discrezionalità nelle verifiche, offrendo un approccio tecnico-giuridico più preciso.

Uno degli aspetti centrali del documento riguarda la distinzione tra violazioni gravi e non gravi, concetto che influisce direttamente sull’applicazione delle sanzioni. L’INL specifica che la gravità della violazione va valutata in funzione del rischio residuo per il lavoratore, considerando l’insieme delle misure adottate dal datore di lavoro. Per esempio, un macchinario datato può risultare ancora utilizzabile se correttamente manutenuto e integrato con dispositivi di sicurezza aggiuntivi.

La circolare richiama anche l’obbligo, da parte degli ispettori, di fornire motivazioni dettagliate nei verbali di ispezione, con riferimento sia alla norma violata che al rischio effettivamente riscontrato. Questo punto è cruciale perché riduce il margine di ambiguità in sede di contenzioso e rafforza la trasparenza dell’intero sistema ispettivo.

Macchinari ante 1996

Uno dei punti chiave affrontati nella circolare INL 2668/2025 riguarda l’utilizzo dei macchinari costruiti prima del 1996, ovvero prima dell’entrata in vigore della Direttiva Macchine 89/392/CEE (recepita in Italia con il D.P.R. 459/1996), oggi confluita nella Direttiva 2006/42/CE. Queste attrezzature, spesso ancora in uso in molti contesti produttivi, non sono soggette all’obbligo di marcatura CE, ma devono comunque rispettare i requisiti minimi di sicurezza imposti dal Titolo III del D.Lgs. 81/2008, in particolare dall’Allegato V.

L’INL chiarisce che la vetustà del macchinario non è di per sé sufficiente a configurare una violazione: ciò che conta è la sua conformità ai requisiti di sicurezza applicabili. Questo significa che un’attrezzatura costruita prima del 1996 può essere legittimamente utilizzata, a patto che il datore di lavoro ne garantisca la piena efficienza e sicurezza attraverso interventi di manutenzione, dispositivi aggiuntivi di protezione, e adeguata formazione degli operatori.

È importante sottolineare che in caso di ispezione, il datore di lavoro deve essere in grado di dimostrare le misure adottate per la tutela della sicurezza, comprese eventuali verifiche tecniche, certificazioni interne o perizie asseverate. Il principio cardine è la valutazione del rischio effettivo: anche un macchinario non marchiato CE può essere considerato sicuro se il rischio residuo è stato minimizzato e documentato.

Questo approccio mira a evitare sanzioni pretestuose, ma responsabilizza i datori di lavoro a mantenere elevati standard di sicurezza, indipendentemente dall’anno di costruzione delle attrezzature.

Verifiche ispettive

Una delle novità più rilevanti introdotte dalla circolare riguarda le modalità con cui gli ispettori del lavoro devono accertare e verbalizzare le violazioni in materia di sicurezza. L’Ispettorato Nazionale del Lavoro sottolinea l’importanza di adottare criteri tecnici, oggettivi e coerenti per valutare ogni situazione. L’obiettivo è garantire un approccio uniforme su tutto il territorio nazionale, evitando disparità interpretative tra diverse sedi ispettive.

Nel caso specifico dei macchinari datati, gli ispettori dovranno valutare la presenza o meno dei requisiti minimi previsti dall’Allegato V del D.Lgs. 81/2008. Non è sufficiente rilevare l’assenza della marcatura CE o il fatto che il macchinario sia stato costruito prima del 1996: ciò che va accertato è se il macchinario presenta caratteristiche tecniche e dispositivi di sicurezza tali da minimizzare il rischio per l’operatore. In caso contrario, si configura una violazione.

La circolare specifica inoltre che ogni accertamento deve essere accompagnato da una motivazione dettagliata nel verbale: l’ispettore deve indicare quale norma è stata violata, quale rischio concreto è stato riscontrato, e perché le misure adottate dall’azienda sono state giudicate inadeguate. Questo approccio documentale consente non solo una maggiore trasparenza, ma anche una più solida difesa per entrambe le parti in caso di contenzioso.

Infine, viene raccomandata la collaborazione tra ispettori e tecnici delle ASL, in modo da integrare competenze normative e tecniche per una valutazione completa e coerente delle situazioni aziendali.

Sanzioni

La circolare INL 2668/2025 introduce una maggiore chiarezza anche sul fronte sanzionatorio. Le sanzioni per violazioni in materia di sicurezza sul lavoro possono variare notevolmente in base alla gravità dell’infrazione, all’eventuale recidiva e all’effettivo pericolo per i lavoratori.

In particolare, l’Ispettorato distingue tra:

  • Violazioni formali (ad esempio, carenza documentale o formazione incompleta);
  • Sostanziali (mancanza di dispositivi di sicurezza, utilizzo di macchinari pericolosi);
  • Violazioni gravi e imminenti, che giustificano anche provvedimenti di sospensione dell’attività lavorativa.

Le sanzioni pecuniarie per violazioni del Titolo III del D.Lgs. 81/2008 possono arrivare anche a 6.400 euro per ciascun lavoratore interessato, oltre ad eventuali responsabilità penali, in particolare quando si accerta la colpa del datore di lavoro per omessa prevenzione.

Per evitare o ridurre le sanzioni, la circolare ribadisce l’importanza dell’approccio proattivo del datore di lavoro.

Questo significa:

  • effettuare verifiche tecniche periodiche sulle attrezzature datate;
  • aggiornare la valutazione dei rischi (DVR);
  • dotare i macchinari obsoleti di dispositivi di protezione integrativi;
  • documentare ogni intervento migliorativo (anche attraverso perizie giurate);
  • mantenere tracciabilità delle manutenzioni.

Inoltre, la collaborazione con consulenti tecnici può rivelarsi decisiva per dimostrare la buona fede e l’impegno dell’azienda nella prevenzione, fattori che possono incidere nella modulazione delle sanzioni o nella concessione di tempi per l’adeguamento.

Casi pratici e ricadute sulle PMI

Le piccole e medie imprese italiane, in particolare nei settori manifatturiero, metalmeccanico e agricolo, rappresentano il segmento più esposto alle novità introdotte dalla circolare INL 2668/2025. Questo perché molte di esse continuano ad utilizzare macchinari acquistati prima del 1996, perfettamente funzionanti, ma non marcati CE. Fino ad oggi, in assenza di direttive univoche, spesso si sono trovate in balia di interpretazioni ispettive diverse da regione a regione.

Con le nuove indicazioni, l’INL fornisce finalmente una linea guida nazionale: non è più il solo anno di costruzione a determinare la sanzionabilità di un’attrezzatura, bensì il livello di rischio residuo in base alle condizioni di utilizzo. Questo rappresenta un sollievo per molti imprenditori, ma impone anche un cambio di mentalità: non basta che il macchinario “funzioni”, è necessario documentare che funzioni in sicurezza.

Facciamo un esempio concreto: un tornio industriale del 1990 può ancora essere utilizzato se:

  • è stato sottoposto a manutenzione regolare;
  • sono presenti carterature e protezioni aggiuntive;
  • l’operatore è formato e consapevole dei rischi;
  • l’azienda ha aggiornato il DVR con la valutazione specifica su quel macchinario.

Al contrario, l’uso di un’attrezzatura datata priva di qualsiasi intervento correttivo o documentazione, può portare a sanzioni, sospensione dell’attività e responsabilità penale in caso di infortunio.

Questa circolare, quindi, può essere letta anche come un’opportunità: adeguarsi oggi significa prevenire problemi domani e aumentare il valore complessivo dell’impresa.

Responsabilità del datore di lavoro

Nel quadro delineato dalla circolare INL 2668/2025, viene ulteriormente rafforzata la responsabilità del datore di lavoro quale principale garante della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. In caso di utilizzo di attrezzature non conformi o obsolete, non è sufficiente sostenere l’assenza di alternative o la mancanza di fondi per la sostituzione: la legge pretende un comportamento attivo e diligente nella gestione del rischio.

Secondo il D.Lgs. 81/2008, il datore di lavoro ha l’obbligo non solo di fornire attrezzature sicure, ma anche di aggiornare costantemente la valutazione dei rischi, adottare le misure tecniche e organizzative necessarie, e garantire formazione specifica ai lavoratori. L’inosservanza di questi obblighi può portare a sanzioni amministrative, civili e penali, con aggravanti in caso di infortunio o malattia professionale.

Tuttavia, la circolare riconosce che ci sono anche spazi per una difesa consapevole e ben documentata.

In sede ispettiva o giudiziaria, il datore di lavoro può ridurre o evitare la responsabilità dimostrando di aver:

  • attuato tutti gli interventi tecnicamente possibili;
  • incaricato professionisti qualificati per verifiche e adeguamenti;
  • aggiornato la documentazione tecnica (DVR, verbali di manutenzione, istruzioni operative);
  • adottato misure compensative rispetto alle carenze del macchinario.

In sostanza, è la diligenza concreta nell’attività preventiva a fare la differenza. La circolare spinge in questa direzione, tutelando chi si impegna davvero nella sicurezza, anche senza poter sostituire ogni attrezzatura obsoleta.

Come adeguarsi alla normativa

Alla luce delle indicazioni della circolare INL 2668/2025, le aziende – in particolare le PMI – devono impostare un percorso di adeguamento chiaro e tracciabile per mettersi al riparo da violazioni, sanzioni e responsabilità penali. Il principio guida è quello della prevenzione attiva: intervenire prima che il problema emerga, non dopo un’ispezione o un infortunio.

Ecco una strategia in 5 passi consigliata per adeguarsi correttamente:

  1. Mappatura delle attrezzature datate: identificare tutti i macchinari costruiti prima del 1996, verificando la loro documentazione tecnica e le condizioni attuali di utilizzo.

  2. Valutazione dei rischi specifici: aggiornare il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) includendo l’analisi puntuale delle attrezzature non marcate CE, con l’eventuale supporto di consulenti tecnici.

  3. Interventi di messa in sicurezza: installare protezioni aggiuntive, sistemi di arresto d’emergenza, segnaletica, e adeguare la postazione di lavoro secondo quanto previsto dall’Allegato V del D.Lgs. 81/2008.

  4. Formazione mirata per gli operatori: istruire i lavoratori sull’uso sicuro delle attrezzature, con focus su rischi specifici, comportamenti corretti e uso dei dispositivi di protezione individuale (DPI).

  5. Documentazione e tracciabilità: conservare ogni intervento tecnico o formativo effettuato, comprese eventuali perizie asseverate o check-list di conformità. Questi documenti saranno fondamentali in sede ispettiva.

Attuare questi passaggi permette non solo di prevenire sanzioni, ma anche di migliorare la sicurezza generale e la reputazione dell’impresa, elemento sempre più rilevante nel rapporto con clienti, stakeholder e appalti pubblici.

Considerazioni finali

La circolare INL n. 2668/2025 rappresenta un passaggio importante nel percorso verso una maggiore chiarezza normativa in materia di sicurezza sul lavoro, soprattutto in riferimento all’utilizzo di macchinari datati. Non si tratta di un irrigidimento sanzionatorio, ma di un invito esplicito all’adeguamento consapevole e responsabile.

Le aziende non sono obbligate a rottamare le attrezzature non marcate CE, ma devono dimostrare – con dati e documenti – che quelle attrezzature sono utilizzate in modo sicuro, grazie a manutenzioni, aggiornamenti tecnici e formazione adeguata.

Per le PMI, questa è un’opportunità per migliorare i propri standard operativi, rafforzare la cultura della sicurezza e valorizzare il proprio impegno anche verso clienti e partner commerciali. In un contesto dove la reputazione aziendale gioca un ruolo sempre più strategico, essere in regola con le norme può diventare anche un vantaggio competitivo.

Adeguarsi oggi significa evitare sanzioni, blocchi produttivi, o peggio, infortuni sul lavoro. Ma significa anche rendere l’ambiente di lavoro più efficiente, stabile e sostenibile. Un datore di lavoro che investe nella sicurezza non solo tutela la salute dei propri dipendenti, ma rafforza il futuro della propria impresa.

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