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Corte Costituzionale Sentenza 22 luglio 2011, n. 234

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La sentenza della Corte Costituzionale 19-22 luglio 2011 n. 234 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 7, del Decreto Legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla Legge 19 luglio 1993, n. 236, nonché dell’articolo 1 della stessa Legge n. 236 del 1993, nella parte in cui tali norme non prevedono, per i lavoratori che fruiscono di assegno o pensione di invalidità, nel caso in cui si trovino ad avere diritto ai trattamenti di disoccupazione, il diritto di optare tra tali trattamenti e quelli di invalidità limitatamente al periodo di disoccupazione indennizzato.  Le predette norme, dichiarate costituzionalmente illegittime – laddove esse non prevedevano in favore dell’assicurato il diritto di opzione tra l’assegno di invalidità e l’indennità di disoccupazione – pertanto, hanno cessato di avere efficacia e non possono trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione della Consulta (Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 32 del 27-7-2011). Tale decisione riconosce all’assicurato il diritto di scegliere tra l’assegno ordinario di invalidità e l’indennità di disoccupazione limitatamente al periodo di disoccupazione indennizzato ferma restando l’incumulabilità delle due prestazioni.  

Corte Costituzionale Sentenza 22 luglio 2011, n. 234

In nome del popolo italiano la corte costituzionale ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 (Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, e dell’articolo 1 della stessa legge n. 236 del 1993, promosso dal Tribunale di Bologna nel procedimento vertente tra M. L. E l’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 4 maggio 2010, iscritta al n. 375 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti gli atti di costituzione di M. L. E dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore Luigi Mazzella; uditi gli avvocati Amos Andreoni e Vittorio Angiolini per M. L. , Antonietta Coretti per l’INPS e l’avvocato dello Stato Gabriella D’Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto 1. − Con ordinanza del 4 maggio 2010, il Tribunale di Bologna ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 (Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, nonché dell’articolo 1 della stessa legge n. 236 del 1993, «nella parte in cui tali norme non prevedono che i lavoratori che fruiscono di assegno o pensione di invalidità, nel caso si trovino ad avere diritto ai trattamenti di disoccupazione, possono optare tra tali trattamenti e quelli di invalidità, limitatamente al periodo di disoccupazione indennizzato».

Il rimettente riferisce che, nel giudizio sottoposto al suo esame la ricorrente, dopo la concessione dell’assegno di invalidità parziale, aveva continuato a prestare la propria attività lavorativa. Licenziata per riduzione di personale, ed essendo assicurata contro la disoccupazione presso l’Istituto nazionale di previdenza sociale (INPS), la predetta ricorrente aveva dichiarato di optare per il trattamento più favorevole tra l’assegno di invalidità e l’indennità di disoccupazione.

La sede INPS competente, tuttavia, aveva respinto la domanda, affermando che l’assegno di invalidità era incompatibile con l’indennità di disoccupazione, in forza dell’art. 5 del decreto-legge 11 dicembre 1992, n. 478 (Interventi urgenti a salvaguardia dei livelli occupazionali), non convertito in legge, i cui effetti sono stati fatti salvi dal successivo decreto-legge n. 148 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 236 del 1993. L’art. 6, comma 7, del predetto decreto-legge n. 148 del 1993, infatti, riferisce il rimettente, inizialmente prevedeva solo che i trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione e l’indennità di mobilità fossero incompatibili con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, nonché dei lavoratori autonomi. In seguito, prosegue il rimettente, tale norma è stata modificata per effetto della sentenza n. 218 del 1995, con cui questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dello stesso articolo, nonché dell’art. 1 della legge n. 236 del 1993, solo per lavoratori aventi diritto alla mobilità, nella parte in cui non prevedono che, all’atto di iscrizione nelle liste di mobilità, i lavoratori che fruiscono dell’assegno o della pensione di invalidità, possono optare tra tali trattamenti e quello di mobilità, nei modi e con gli effetti di cui agli artt. 2, comma 5, e 12, comma 2, del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299 (Disposizioni urgenti in materia di occupazione e di fiscalizzazione degli oneri sociali), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451. Tornando al caso del giudizio a quo, il rimettente riferisce che, poiché la normativa in vigore prevede tale facoltà solo nel caso di concorso tra il trattamento di mobilità e l’assegno o la pensione di invalidità, la ricorrente, avendo diritto al solo trattamento ordinario di disoccupazione, non aveva avuto la facoltà di optare tra l’assegno di invalidità, di cui è titolare, e il predetto trattamento di disoccupazione, in concreto più favorevole.

Ebbene, secondo il Tribunale di Bologna, la mancata previsione delle facoltà di opzione anche nel caso di concorso tra indennità di disoccupazione e trattamento di invalidità, si pone in contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost. , per le stesse ragioni poste a fondamento della già citata sentenza n. 218 del 1995 della Corte costituzionale, violando ulteriormente l’art. 3 della Carta costituzionale, sotto l’aspetto della disparità di trattamento tra chi, fruendo di un trattamento di invalidità, si trova in stato di disoccupazione con o senza collocazione in mobilità, posto che nel primo caso può esercitare la facoltà di opzione del trattamento più favorevole, mentre nel secondo tale facoltà è preclusa. Secondo il rimettente, la questione di costituzionalità della norma citata, inoltre, è rilevante nel giudizio a quo, posto che l’art. 6, comma 7, del decreto-legge n. 148 del 1993 e l’art. 1 della legge n. 236 del 1993 non prevedono la suddetta opzione e non sono superabili in via meramente interpretativa, stante il letterale e chiaro disposto delle norme in questione.

2. − Con memoria depositata il 22 dicembre del 2010, l’Istituto nazionale per la previdenza sociale ha chiesto che la sollevata questione sia dichiarata inammissibile e infondata. Quanto alla dedotta inammissibilità, secondo l’INPS, l’ordinanza di rimessione non sarebbe motivata in modo esauriente ed autosufficiente, facendo rinvio alle «ragioni poste a fondamento della già citata sentenza n. 218 del 1995 della Corte costituzionale», senza motivare in ordine alla configurabilità di una coincidenza – quanto a natura, presupposti ed effetti – tra il trattamento di disoccupazione ed il trattamento di mobilità, così riproducendo il profilo di inammissibilità stigmatizzato dalla Corte nell’ordinanza n. 297 del 2000, in relazione ad altra questione sollevata con riferimento alla medesima norma. Quanto al merito, l’INPS ha chiesto che la questione di costituzionalità sia dichiarata infondata, attesa la non comparabilità tra l’istituto dell’indennità di disoccupazione, rispetto al quale è intervenuta la sentenza citata dal rimettente, e quello dell’indennità di disoccupazione. Secondo l’INPS, infatti, nei due istituti sarebbero diversi la natura giuridica, i presupposti di applicabilità e la struttura, per cui, come rimarcato dalla Corte nella citata ordinanza n. 297 del 2000, la pronuncia additiva richiesta non sarebbe “a rime obbligate”.

3. − Con memoria, depositata il 23 dicembre 2011, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, ed ha chiesto che la questione di legittimità sollevata sia dichiarata inammissibile e comunque infondata. Quanto al primo aspetto, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sottolineato il carattere eccezionale dell’art. 2, comma 5, del decreto-legge n. 299 del 1994 – norma della cui efficacia il rimettente ha chiesto l’estensione anche alla fattispecie sottoposta al suo esame – atteso che, come già la Corte costituzionale avrebbe evidenziato nell’ordinanza n. 218 del 2000, tale norma, introducendo l’opzione soltanto tra l’indennità di mobilità e le prestazioni di invalidità, costituirebbe eccezione al principio generale, dettato dall’art. 6, comma 7, del decreto-legge n. 148 del 1993, di incompatibilità tra trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione, indennità di mobilità e trattamenti pensionistici diretti. Nel merito, secondo il Presidente del Consiglio non vi sarebbe coincidenza tra l’indennità di mobilità e l’indennità di disoccupazione: mentre la prima, connessa strettamente al trattamento di integrazione salariale, sarebbe svincolata dall’accertamento dello stato di bisogno individuale e sarebbe legata a obiettivi di politica economico-sociale di tutela dell’occupazione (tanto da essere strettamente connessa alla dimensione occupazionale dell’azienda presso la quale il lavoratore presta la sua opera), la seconda avrebbe natura prettamente assicurativa e sarebbe legata funzionalmente alla situazione di bisogno del lavoratore. Inoltre, quanto ai presupposti, l’indennità di mobilità, a differenza di quella di disoccupazione (riconosciuta a tutti i lavoratori, in conseguenza di un licenziamento anche individuale), è attribuita ai soli lavoratori dipendenti di imprese del settore industriale con almeno quindici dipendenti e a condizione che possano far valere un minimo di anzianità lavorativa presso l’azienda datrice di lavoro, e solo a seguito di licenziamento collettivo e dopo l’inizio di una procedura sindacale di messa in mobilità. Diverse, poi, sarebbero anche la struttura e l’articolazione dei due istituti indennitari, sia con riferimento all’entità che alla durata dei benefici concessi.

4. − Si è costituita in giudizio anche la ricorrente L. M. , chiedendo che la questione di costituzionalità sollevata sia dichiarata rilevante nel giudizio a quo, a causa della impossibilità di riconoscere al titolare dell’indennità di invalidità il diritto di optare per l’indennità di disoccupazione in via interpretativa, sulla base della legislazione vigente. Essa ha poi chiesto che la questione sia dichiarata fondata, potendosi desumere la ratio decidendi dell’accoglimento dalla stessa sentenza n. 218 del 1995, citando alcuni passi della stessa pronuncia e svolgendo ulteriori considerazioni a sostegno della tesi della perfetta adattabilità di tale pronuncia anche al caso della opzione tra indennità di invalidità ed indennità di disoccupazione.

5. − Con memoria depositata in data 14 giugno 2001, la parte privata ha illustrato ulteriormente le proprie argomentazioni a sostegno della sollevata questione. Considerato in diritto 1. − Il Tribunale di Bologna dubita, in riferimento agli articoli 3 e 38 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 (Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, nonché dell’articolo 1 della stessa legge 19 luglio 1993, n. 236, nella parte in cui non prevedono che i lavoratori che fruiscono di assegno o pensione di invalidità, nel caso si trovino ad avere diritto ai trattamenti di disoccupazione, possono optare tra tali trattamenti e quelli di invalidità, limitatamente al periodo di disoccupazione indennizzato.

1. 1. − La norma censurata, nella sua originaria formulazione, si limitava ad introdurre il divieto di cumulo dei trattamenti ordinari e speciali di disoccupazione e dell’indennità di mobilità con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità e la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, degli ordinamenti sostitutivi, esonerativi ed esclusivi dell’assicurazione medesima, nonché delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi; escludendo, dunque, che i soggetti che si trovavano nelle condizioni di poter astrattamente fruire, contemporaneamente, di entrambi tali tipologie di prestazioni previdenziali potessero in concreto godere di entrambe, cumulandole.

1. 2. − Successivamente alla sua emanazione, la norma è stata integrata per effetto dell’art. 2 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299 (Disposizioni urgenti in materia di occupazione e di fiscalizzazione degli oneri sociali), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, che ha introdotto un temperamento al divieto di cumulo, consentendo, ai soli lavoratori aventi diritto alla mobilità, di scegliere, all’atto di iscrizione nelle liste di mobilità, tra tali trattamenti e quello di mobilità e stabilendo che, in caso di opzione a favore del trattamento di mobilità, l’erogazione dell’assegno o della pensione di invalidità resti sospesa per tutto il periodo di fruizione del predetto trattamento. Tale facoltà di opzione, invece, non risulta estensibile ai lavoratori titolari dell’assegno di invalidità che abbiano diritto al solo trattamento ordinario di disoccupazione. Questi ultimi, al momento del licenziamento, durante il periodo di disoccupazione potranno percepire il solo assegno parziale di invalidità.

1. 3. − In seguito, questa Corte, con la sentenza n. 218 del 1995, ha esteso l’operatività del diritto di opzione anche al periodo precedente alla riforma del 1994, rendendo, dunque, retroattiva la norma introdotta dal legislatore appena l’anno precedente.

2. − Preliminarmente, deve osservarsi che la questione è stata sollevata con riferimento sia all’art. 6, comma 7, del decreto-legge n. 148 del 1993, sia all’art. 1 della legge n. 236 del 1993, che, nel convertire in legge il predetto decreto, ha fatto salvi gli effetti prodotti da analoghe disposizioni di decreti-legge non convertiti (decreto-legge 10 marzo 1993, n. 57, decreto-legge 5 gennaio 1993, n. 1, decreto-legge 5 dicembre 1992, n. 472, decreto-legge 1° febbraio 1993, n. 26, decreto-legge 8 ottobre 1992, n. 398, decreto-legge 11 dicembre 1992, n. 478 e decreto-legge 12 febbraio 1993, n. 31), tra i quali v’è quella posta a fondamento dell’impugnato provvedimento di reiezione dell’istanza di opzione.

2. 1. − Sempre in via preliminare, l’INPS e il Presidente del Consiglio hanno eccepito l’inammissibilità della questione, in quanto la stessa, in punto di non manifesta infondatezza, risulterebbe motivata solo per relationem, mediante rinvio integrale alle argomentazioni contenute in altra sentenza di questa Corte. Tale eccezione è fondata solo con riferimento all’art. 38 Cost. Questa Corte ha avuto modo di ribadire (ex plurimis, sentenze n. 64 del 2009, n. 328 del 2008 e ordinanze n. 354, n. 75 e n. 42 del 2007, n. 312 del 2005) che, nell’ordinanza di rimessione, il giudice deve rendere esplicite le ragioni che lo portano a dubitare della costituzionalità della norma con una motivazione autosufficiente, non potendosi limitare ad un generico richiamo alla giurisprudenza, o ad altri atti estranei all’ordinanza stessa. Ebbene, con riferimento al parametro di cui all’art. 38 Cost. , l’ordinanza di rimessione, oggi in esame, risulta motivata unicamente attraverso il rinvio recettizio alle motivazioni contenute nella già citata sentenza n. 218 del 1995. Al di fuori di tale inammissibile rinvio, non è rinvenibile alcuna motivazione specificamente riferibile all’art. 38 Cost. Pertanto, la predetta questione va dichiarata, in parte qua, inammissibile. Al contrario, con riferimento al principio di cui all’art. 3 Cost. , l’eccezione di inammissibilità deve essere respinta. Il rimettente, infatti, dopo aver richiamato le argomentazioni contenute nella motivazione della predetta sentenza, nel prosieguo dell’ordinanza, individua in modo autonomo il vulnus costituzionale denunciato con riferimento al principio di uguaglianza, identificandolo nella disparità di trattamento tra lavoratori aventi diritto alla mobilità e lavoratori che, pur disoccupati, ne sono esclusi. Tale motivazione, ancorché sintetica, deve ritenersi idonea a circoscrivere in modo adeguato ed autosufficiente l’oggetto dello scrutinio di costituzionalità demandato a questa Corte.

2. 3. − Né sussiste l’eccepito profilo di inammissibilità, connesso all’asserito carattere non “a rime obbligate” dell’intervento additivo richiesto, perché quest’ultimo costituisce l’unica possibile soluzione alla denunciata disparità di trattamento.

3. − Nel merito, la questione è fondata.

3. 1. − La disposizione censurata, come integrata dall’art. 2 del decreto-legge n. 299 del 1994 e dalla sentenza n. 218 del 1995, determina un’oggettiva diversità di trattamento tra il lavoratore inabile, titolare di un assegno o di una pensione di invalidità che, al momento del licenziamento, rientri nel novero dei lavoratori aventi diritto al trattamento di mobilità e quello che abbia invece diritto al solo trattamento ordinario di disoccupazione. Mentre nel primo caso, infatti, il lavoratore che, a causa del regime di incompatibilità, non può percepire entrambi gli assegni (di invalidità e di mobilità), ha però la facoltà di scegliere tra le due prestazioni, a seconda di quale dei due trattamenti sia, in concreto, più conveniente, nel secondo caso, non ha tale possibilità di scelta e si trova, di fatto, obbligato a beneficiare di quello connesso al suo stato di invalidità. L’impossibilità di optare per il trattamento di disoccupazione in occasione del licenziamento, determina, dunque, per i soli lavoratori inabili non aventi diritto alla mobilità, la concreta inutilizzabilità di tale tutela assicurativa.

3. 2. − Come questa Corte ha affermato, il legislatore, nel regolamentare il concorso tra più assicurazioni sociali e, in particolare, tra quelle connesse allo stato di invalidità e vecchiaia e quelle connesse allo stato di disoccupazione, gode certamente della più ampia discrezionalità (e può ben valutare, quindi, come sufficiente l’attribuzione di un unico trattamento previdenziale al fine di garantire al lavoratore assicurato mezzi adeguati alle esigenze di vita sue e della sua famiglia), ma, nel fare tale scelta, deve soddisfare il principio di eguaglianza e di ragionevolezza (sentenza n. 218 del 1995). Nel caso in esame, la descritta diversità di disciplina tra indennità di disoccupazione ed indennità di mobilità non è ragionevole, perché, non essendo connessa a rilevanti differenze strutturali delle due situazioni poste a confronto, risulta irragionevolmente discriminatoria. Diversamente, infatti, da quello che sostengono l’INPS e il Presidente del Consiglio dei ministri, circa la non equiparabilità dell’assegno ordinario di disoccupazione al trattamento di mobilità, le differenze tra i due emolumenti (che si assumono essere connesse a diversità di presupposti, entità e struttura degli stessi) sono marginali e non giustificano, per i lavoratori non aventi diritto alla mobilità, la mancata previsione del diritto di opzione. Infatti, l’indennità ordinaria di disoccupazione e l’indennità di mobilità − valutate non in astratto ma con specifico riferimento alla ratio della disposizione di cui si chiede l’estensione – presentano, nella finalità e nella struttura, assorbenti analogie, perché tali sussidi rientrano nel più ampio genus delle assicurazioni sociali contro la disoccupazione. Un tale inquadramento è stato già avallato, da questa Corte, nella sentenza n. 184 del 2000, laddove si è affermato che, nell’ambito dei cosiddetti “ammortizzatori sociali”, l’indennità di mobilità − a differenza della Cassa integrazione guadagni, connessa ad un mero stato transitorio di crisi dell’impresa – è finalizzata a favorire il ricollocamento del lavoratore in altre imprese ed è, dunque, collegata ad una crisi irreversibile dell’impresa. Essa, cioè, deve considerarsi un vero e proprio trattamento di disoccupazione.

3. 3. − D’altra parte, la norma censurata, come da questa Corte sottolineato (per i lavoratori in mobilità) nella citata sentenza n. 218 del 1995, presenta un’ulteriore disparità di trattamento, perché discrimina i lavoratori disoccupati invalidi, non aventi diritto alla mobilità, anche rispetto agli altri lavoratori disoccupati pienamente validi. I primi, infatti, secondo la normativa attualmente vigente, percepiscono la sola indennità di invalidità (che potrebbe, peraltro, essere solo parziale), mentre i secondi, a partire dal momento del licenziamento, godono del più vantaggioso trattamento, ordinario o speciale, di disoccupazione. Anche sotto tale profilo, pertanto, la norma censurata determina una lesione del principio di uguaglianza, dal momento che, come questa Corte ha avuto modo di chiarire nella più volte citata sentenza n. 218 del 1995, «il lavoratore parzialmente invalido, ove collocato in mobilità, viene a trovarsi in una situazione di più urgente bisogno del lavoratore valido, anch’egli collocato in mobilità, essendo prevedibile che egli, rispetto a quest’ultimo, abbia maggiori esigenze di mantenimento», e considerato che «chi subisce plurimi eventi pregiudizievoli si trova esposto ad una situazione di bisogno maggiore di chi ne subisce uno solo e quindi il primo non potrà, rispetto a quest’ultimo, avere un trattamento deteriore».

4. − Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale, in parte qua, delle norme censurate. Per questi motivi la corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 (Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, nonché dell’articolo 1 della stessa legge n. 236 del 1993, che ha fatti salvi gli effetti prodotti da analoghe disposizioni di decreti-legge non convertiti (decreto-legge 10 marzo 1993, n. 57, decreto-legge 5 gennaio 1993, n. 1, decreto-legge 5 dicembre 1992, n. 472, decreto-legge 1° febbraio 1993, n. 26, decreto-legge 8 ottobre 1992, n. 398, decreto-legge 11 dicembre 1992, n. 478 e decreto-legge 12 febbraio 1993, n. 31), nella parte in cui dette norme non prevedono, per i lavoratori che fruiscono di assegno o pensione di invalidità, nel caso si trovino ad avere diritto ai trattamenti di disoccupazione, il diritto di optare tra tali trattamenti e quelli di invalidità, limitatamente al periodo di disoccupazione indennizzato.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 luglio 2011.  

Circolare n. 138 Roma, 26/10/2011

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La sentenza della Corte Costituzionale 19-22 luglio 2011 n. 234 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 7, del Decreto Legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla Legge 19 luglio 1993, n. 236, nonché dell’articolo 1 della stessa Legge n. 236 del 1993, nella parte in cui tali norme non prevedono, per i lavoratori che fruiscono di assegno o pensione di invalidità, nel caso in cui si trovino ad avere diritto ai trattamenti di disoccupazione, il diritto di optare tra tali trattamenti e quelli di invalidità limitatamente al periodo di disoccupazione indennizzato.  

Direzione Centrale Prestazioni a Sostegno del Reddito Roma, 26/10/2011 Circolare n. 138 OGGETTO: Diritto di opzione fra Assegno di invalidità e Indennità di Disoccupazione. Sentenza della Corte Costituzionale 19-22 luglio 2011 n. 234.

SOMMARIO: 1. Premessa 2. Istruzioni operativa

Premessa

La sentenza della Corte Costituzionale 19-22 luglio 2011 n. 234 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 7, del Decreto Legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla Legge 19 luglio 1993, n. 236, nonché dell’articolo 1 della stessa Legge n. 236 del 1993, nella parte in cui tali norme non prevedono, per i lavoratori che fruiscono di assegno o pensione di invalidità, nel caso in cui si trovino ad avere diritto ai trattamenti di disoccupazione, il diritto di optare tra tali trattamenti e quelli di invalidità limitatamente al periodo di disoccupazione indennizzato.  

Le predette norme, dichiarate costituzionalmente illegittime – laddove esse non prevedevano in favore dell’assicurato il diritto di opzione tra l’assegno di invalidità e l’indennità di disoccupazione – pertanto, hanno cessato di avere efficacia e non possono trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione della Consulta (Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 32 del 27-7-2011). Tale decisione riconosce all’assicurato il diritto di scegliere tra l’assegno ordinario di invalidità e l’indennità di disoccupazione limitatamente al periodo di disoccupazione indennizzato ferma restando l’incumulabilità delle due prestazioni.

ISTRUZIONI OPERATIVE 

Si forniscono di seguito le istruzioni operative in attuazione di quanto in premessa. – Per un corretto esercizio del diritto di opzione è condizione indefettibile che l’assicurato presenti alla competente Struttura dell’Istituto domanda amministrativa, da cui risulti in modo non equivoco la propria volontà di scegliere. L’indennità di disoccupazione in luogo dell’assegno ordinario di invalidità. A tal fine è in corso di implementazione la procedura di presentazione della domanda di indennità di disoccupazione attraverso le modalità telematiche – direttamente da cittadino tramite WEB, Contact center integrato, Patronati/Intermediari dell’Istituto – affinché consentano di manifestare la suddetta opzione avente valore di domanda amministrativa. Nelle more l’opzione in argomento sarà esercitata con apposita richiesta scritta presentata alla Struttura INPS territorialmente competente. – Nel caso in cui i lavoratori diventino titolari di assegno ordinario di invalidità successivamente alla presentazione della domanda di indennità di disoccupazione o durante il periodo di fruizione dell’indennità medesima gli stessi possono esercitare, con apposita richiesta scritta, la facoltà di opzione a favore dell’indennità di disoccupazione entro 60 giorni dalla data in cui è stato notificato il provvedimento di accoglimento della domanda di assegno ordinario di invalidità.

Qualora essi non esercitino tale opzione o la esercitino in ritardo, l’importo dell’indennità di disoccupazione corrisposto diventa non dovuto e deve essere oggetto di compensazione/recupero sui pagamenti relativi all’assegno di invalidità. – In ogni caso di opzione a favore dell’indennità di disoccupazione, l’erogazione dell’assegno ordinario di invalidità resta sospesa per tutto il periodo di fruizione della predetta indennità. – I lavoratori che abbiano esercitato la facoltà di opzione per l’indennità di disoccupazione, possono rinunciare all’indennità in qualsiasi momento ottenendo il ripristino del pagamento dell’assegno di invalidità.

La rinuncia, che ha valore dalla data in cui viene effettuata, ha carattere definitivo e il lavoratore che l’ha esercitata non può più essere ammesso a percepire la parte residua di disoccupazione. Con l’occasione si precisa che la sentenza della Corte Costituzionale estende i suoi effetti esclusivamente ai rapporti ancora pendenti tra l’assicurato e l’Inps a decorrere dal giorno della sua pubblicazione. La statuizione della Consulta non produce, invece, più alcun effetto nei confronti dei rapporti ormai irreversibilmente esauriti anteriormente a detta pronuncia di illegittimità costituzionale, per effetto di intervenuto giudicato che ha fissato definitivamente la regola iuris da applicare al caso concreto oggetto di contenzioso, oppure per effetto della loro consolidata intangibilità ascrivibile all’avveramento della prescrizione estintiva decennale oppure all’avveramento della decadenza sostanziale, istituti sanzionatori entrambi riconducibili all’inerzia del titolare del relativo diritto.  

Cosa fare in caso di scontrino errato

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Cosa fare in caso di scontrino errato

In primis non farsi prendere dal panico, succede, si verifica sovente, soprattutto  in   attività  dove   l’operatore  alla   cassa   è   fortunatamente ancora l’uomo  e non il robot, è caso tipico dei bar dove  la fila alla cassa e la confusione portano quasi automaticamente a commettere un errore del genere.

COSA FARE IN CASO DI SCONTRINO ERRATO

In primis non farsi prendere dal panico, succede, si verifica sovente, soprattutto  in   attività  dove   l’operatore  alla   cassa   è   fortunatamente ancora l’uomo  e non il robot, è caso tipico dei bar dove tra la fila alla cassa e la confusione portano quasi automaticamente a commettere un errore del genere. La  norma  che  disciplina  la  fattispecie  in  esame  è  il  d. P. R. 633/72 art. 24 (consiglio personalmente di  leggere anche l’articolo 22),   si  devono distinguere due ipotesi o momenti di rilievo:

a)   lo  scontrino  errato  è  stato  rilasciato  (il  cliente  se  è  andato  e  non  è recuperabile la sua copia);

b)  lo scontrino errato non è stato rilasciato.

Nel caso a) ossia quando lo scontrino è stato rilasciato al cliente, se ne deve dare indicazione “per  giustificati motivi” nel  registro dei  corrispettivi 1o  sul  registro di prima nota (sostitutivo del reg. Dei corrispettivi quando quest’ultimo non viene tenuto presso il luogo ove si svolge l’attività) , di fatto in questa situazione lo scontrino errato non può essere annullato.

Nel   caso   b),  quando   si   è   “battuto”  lo   scontrino   accorgendosi   immediatamente dell’errore, si    evita  l’ipotesi  della  consegna  al  cliente  con  impossibilità  di  poter tornare   in   possesso   della   relativa   copia   e   si   risolve   il   tutto annullando lo scontrino errato riportando su di esso    idonea annotazione ed annessa causa (scontrino errato per errata digitazione/battitura)  ed   allegandolo  allo   scontrino  di chiusura giornaliero.

Il termine per la registrazione dei corrispettivi: -“la registrazione dei corrispettivi deve essere effettuata entro il primo giorno non festivo successivo all’incasso del corrispettivo o alla cessione del bene se antecedente”.

Decreto legislativo n. 119 del 18 luglio 2011.

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In attuazione dell’art. 23 della legge 4 novembre 2010, n. 183 – recante delega al Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi – è stato emanato il decreto legislativo n. 119 del 18 luglio 2011. Tale decreto prevede, agli artt. 2 e 8, alcune novità riguardanti i congedi e permessi riconosciuti alle lavoratrici ed ai lavoratori dipendenti in occasione dell’evento di maternità/paternità. In particolare, l’art. 2 del presente decreto dispone testualmente: “all’articolo 16 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità di cui al D. Lgs. 151/2001, dopo il comma 1, è aggiunto il seguente: “1 bis. Nel caso di interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gestazione, nonché in caso di decesso del bambino alla nascita o durante il congedo di maternità, le lavoratrici hanno facoltà di riprendere in qualunque momento l’attività lavorativa, con un preavviso di dieci giorni al datore di lavoro, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla loro salute. ”  

In attuazione dell’art. 23 della legge 4 novembre 2010, n. 183 – recante delega al Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi – è stato emanato il decreto legislativo n. 119 del 18 luglio 2011. Tale decreto prevede, agli artt. 2 e 8, alcune novità riguardanti i congedi e permessi riconosciuti alle lavoratrici ed ai lavoratori dipendenti in occasione dell’evento di maternità/paternità.

In particolare, l’art. 2 del presente decreto dispone testualmente: “all’articolo 16 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità di cui al D. Lgs. 151/2001, dopo il comma 1, è aggiunto il seguente: “1 bis.

Nel caso di interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gestazione, nonchè in caso di decesso del bambino alla nascita o durante il congedo di maternità, le lavoratrici hanno facoltà di riprendere in qualunque momento l’attività lavorativa, con un preavviso di dieci giorni al datore di lavoro, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla loro salute. ”

Il successivo art. 8 recita: “all’art. 45 del D. Lgs. 151/2001 sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 1 le parole “entro il primo anno di vita del bambino” sono sostituite dalle seguenti “entro un anno dall’ingresso del minore in famiglia; b)…”. Si forniscono di seguito le istruzioni relative alle disposizioni normative sopra citate. 1. Modifica della disciplina del congedo di maternità di cui all’art. 16 T. U. In caso interruzione di gravidanza successiva al 180° giorno nonché in caso di decesso del nato al momento della nascita o nei periodi di congedo post partum(art. 2 del d. Lgs. 119/2011) Come noto, il comma 1 dell’art. 16 del T. U. Prevede il divieto del datore di lavoro di adibire al lavoro le lavoratrici in avanzato stato di gravidanza nonché durante il periodo di puerperio. Ne consegue che, ove la lavoratrice, anche con il proprio consenso, prestasse attività di lavoro nei periodi di congedo indicati dall’art. 16 del T. U. , il datore di lavoro incorrerebbe nella sanzione prevista al successivo art. 18, ossia nell’arresto fino a sei mesi. Con l’entrata in vigore dell’art. 2 del decreto 119/2011, che ha aggiunto all’art. 16 del vigente T. U. Il comma 1 bis, il legislatore – fermo restando, in circostanze normali, il divieto per il datore di lavoro di adibire la lavoratrice all’attività lavorativa  nei periodi di cui all’art. 16 – ha introdotto la possibilità per la lavoratrice di riprendere, in presenza di particolari eventi e a determinate condizioni, l’attività lavorativa, rinunciando in tutto o in parte al congedo di maternità post partum.

Gli eventi che consentono alla lavoratrice in congedo di maternità di optare per la ripresa del lavoro sono: l’interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gestazione; il decesso del bambino alla nascita ovvero durante il congedo di maternità. Riguardo all’interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza, si ritiene che la facoltà di riprendere l’attività lavorativa sia riconoscibile anche in caso di interruzione verificatasi in coincidenza del 180° giorno (messaggio Inps n. 9042 del 18. 04. 2011).

La facoltà in esame è esercitabile a condizione che il ginecologo del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) oppure convenzionato con il SSN ed il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro attestino che la ripresa dell’attività non arrechi pregiudizio alla salute della lavoratrice interessata.

La norma prevede anche un preavviso di 10 giorni al datore di lavoro. Tanto premesso, per gli aspetti di competenza dell’Istituto, si precisa quanto segue. La lavoratrice che riprende l’attività lavorativa, rinunciando in tutto o in parte al congedo di maternità post partum, non ha diritto all’indennità di maternità a decorrere dalla data della ripresa dell’attività stessa. Pertanto, i datori di lavoro tenuti all’anticipazione dell’indennità di maternità per conto dell’Inps, potranno portare a conguaglio le somme anticipate a tale titolo fino al giorno precedente alla data della ripresa dell’attività lavorativa. Al fine di verificare quanto sopra, occorre che la lavoratrice porti a conoscenza dell’Istituto l’evento che ha reso possibile l’esercizio dell’opzione in esame nonché la data in cui è avvenuta la ripresa dell’attività lavorativa. In particolare, in caso di interruzione di gravidanza la lavoratrice produrrà all’Istituto, come di regola, certificato medico di gravidanza indicante la data presunta del parto e certificazione sanitaria attestante la data in cui si è verificata l’interruzione di gravidanza. Riguardo all’altra ipotesi – ossia decesso del bambino verificatosi al momento del parto oppure durante il periodo di congedo post partum – la lavoratrice che intenda avvalersi della facoltà di cui trattasi presenterà all’Inps il certificato di morte del bambino oppure, in alternativa, dichiarazione sostitutiva di certificazione ai sensi dell’art. 46 del d. P. R. 445/2000.

La data di ripresa dell’attività è invece comprovata dalla lavoratrice mediante dichiarazione sostitutiva di fatto notorio, ai sensi dell’art. 47 del medesimo d. P. R. 445/2000. In particolare l’interessata è tenuta a dichiarare sotto la propria responsabilità: di aver presentato al datore di lavoro le specifiche attestazioni mediche previste dal comma 1 bis, nelle quali è dichiarato che le proprie condizioni di salute sono compatibili con la ripresa del lavoro; la data di ripresa dell’attività lavorativa. Sarà cura delle singole Strutture territoriali dare la più ampia diffusione possibile alle disposizioni fornite con la presente circolare mediante le modalità di comunicazione all’Utenza ritenute più adeguate. Si fa presente infine che le istruzioni sopra fornite trovano applicazione anche riguardo alle lavoratrici iscritte alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della L. 335/1995. Infatti, considerato che, a seguito dell’entrata in vigore del D. M. 12. 07. 07, il divieto di prestare attività lavorativa nei periodi di cui all’art. 16 T. U. è esteso anche le lavoratrici iscritte alla gestione separata (circ. 137/2007), appare evidente che la modifica normativa oggetto d’esame – innovativa dell’art. 16 T. U. – debba trovare applicazione anche nei confronti di tali categorie di lavoratrici.

2. Modifica formale del comma 1 dell’art. 45 del T. U. In materia di riposi giornalieri “per allattamento” in caso di adozione o affidamento (art. 8 del D. Lgs. 119/2011) L’art. 8 del decreto in esame modifica il comma 1 dell’art. 45 del T. U. Disponendo che i riposi giornalieri per allattamento, in caso di adozione o affidamento, sono fruibili “entro il primo anno dall’ingresso del minore nella famiglia” anziché “entro un anno di vita del bambino”. La novella in esame, tuttavia, interviene esclusivamente da un punto di vista formale posto che, sul piano sostanziale del diritto, già a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 104 del 9 aprile 2003, i riposi in questione sono fruibili dai genitori adottivi/affidatari entro un anno dall’ingresso in famiglia del minore. Si rammenta infatti che la Corte costituzionale, con la citata sentenza, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 45 del T. U. Nella parte in cui prevede che i riposi giornalieri di cui agli artt. 39, 40 e 41 del T. U. “si applichino, anche in caso di adozione e di affidamento, “entro il primo anno di vita del bambino” anziché “entro il primo anno dall’ingresso del minore nella famiglia”. Pertanto, sull’argomento in esame si rimanda alle istruzioni a suo tempo fornite con circolare n. 91 del 26. 05. 2003.  

Nuovi Minimi Focus sui requisiti soggettivi e sull’età

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Il nuovo regime dei minimi entrerà in vigore dal 1° gennaio 2012 (articolo 27, Dl 98/2011), esaminiamo in sintesi  due aspetti principali : 1. Requisiti soggettivi per i nuovi minimi; 2. No anagrafe o inesistenza del limite di età.

Nuovi Minimi Focus sui requisiti soggettivi e sull’età

Il nuovo regime dei minimi entrerà in vigore dal 1° gennaio 2012 (articolo 27, Dl 98/2011), esaminiamo in sintesi  due aspetti principali :

1.       Requisiti soggettivi per i nuovi minimi;

2.       No anagrafe o inesistenza del limite di età.

 
Requisiti soggettivi per i nuovi minimi

In ordine al requisito della nuova attività bisogna fare riferimento all’articolo 13 della legge 388/2000 (nuove iniziative produttive o vecchio forfetino visitabile su www. Omniatax. Net ) e alle circolari emanate al riguardo dall’agenzia delle Entrate (1 e 8 del 2001).

 
Infatti, l’accesso al regime dei minimi, richiede che il contribuente non debba avere esercitato nei tre anni precedenti l’inizio dell’attività, alcuna attività professionale, d’impresa anche in forma associata o familiare; inoltre la nuova attività non deve costituire in nessun modo la prosecuzione di altra attività svolta sottoforma di lavoro dipendente. Appare eccessivo escludere dal regime un soggetto che sia stato lavoratore subordinato in settore analogo a quello relativo alla nuova attività intrapresa.  

Il divieto, secondo le indicazioni fornite a suo tempo dall’agenzia delle Entrate, dovrebbe riguardare l’ipotesi in cui il soggetto prosegua l’attività nei medesimi locali e nei confronti della clientela già servita. La norma prevede che il nuovo regime possa essere applicato anche ai soggetti che hanno iniziato l’attività dopo il 31 dicembre 2007. Nella fattispecie non necessariamente tali contribuenti nel corso del 2011 devono applicare il regime dei contribuenti minimi, ma possono rientrare sia nel regime delle nuove iniziative produttive che nel regime di contabilità semplificata. In questo caso i soggetti che attualmente non applicano il regime dei minimi, ma che vi possono rientrare rispettandone i limiti, possono transitarvi se non sono vincolati ad altro regime per effetto di opzione.

Inoltre, i contribuenti già in attività al 1° gennaio 2008, con ogni probabilità dovrebbero anch’essi rispettare i nuovi requisiti di accesso ovvero, il non aver svolto attività nel triennio precedente alla data di inizio e che l’attività svolta non sia il proseguimento di altre.  

Inesistenza del limite di età

Tra le cause di esclusione non c’è l’anagrafe: il regime dei minimi può benissimo essere sfruttato da persone avanti negli anni, come pensionati o lavoratori che hanno perso l’impiego. Quello che cambia è la permanenza: normalmente, infatti, si potrà sfruttare la tassazione di favore per un massimo di cinque anni (a patto, ovviamente, di mantenere per tutto questo periodo i requisiti). I giovani al di sotto dei 35 anni, invece, avranno più tempo, perché – a prescindere dalla data di ingresso nell’agevolazione – potranno restarvi fino al periodo d’imposta in cui compiono il 35° anno d’età. Naturalmente i giovani avranno maggiori opportunità di accedere al regime, dato che è più facile che a centrare i requisiti previsti dalla normativa sia un’impresa di nuova costituzione.  

Redditometro: Nullatenente proprietario di tre automobili

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Redditometro: Nullatenente proprietario di tre automobili

Motivi della decisione La CTR ha affermato che “E’ illegittima l’applicazione del redditometro a persona disoccupata

Le due autovetture Golf 1600. E Fiat Croma sono state per possesso e uso della società XXXXX s. R. L. Come da contratto di comodato. La terza vettura non risulta mai acquistata”.

Sentenza

Cassazione Civile Sent. N. 12448 del 08-06-2011

Svolgimento del processo

Il reddito 1995 di R. A. , che non aveva presentato dichiarazione Irpef, fu accertato in base al D. M. 10 settembre 1992, risultando egli proprietario di tre autovetture e di un motorino. La CTR della Campania ha annullato l’avviso. L’Agenzia ricorre per la cassazione della sentenza con due motivi.

Motivi

Motivi della decisione La CTR ha affermato che “E’ illegittima l’applicazione del redditometro a persona disoccupata.

Le due autovetture Golf 1600. E Fiat Croma sono state per possesso e uso della società Riccio s. R. L. Come da contratto di comodato. La terza vettura non risulta mai acquistata”. Col ricorso si deduce violazione del D. P. R. N. 600 del 1973, art. 38, e vizio di motivazione illogica.

Si trascrive i contenuto dell’atto di trascrizione al PRA, prodotto in giudizio, nel quale risulta annotato il trasferimento della vettura Mercedes da R. A. Alla Riccio s. R. L.

Avvenuto il 27. 12. 1996; si osserva che ai fini dell’applicazione degli indici di capacità contributiva di cui al D. P. R. N. 600 del 1973, art. 38, la condizione di disoccupazione è irrilevante; si aggiunge che la disponibilità delle autovetture non è esclusa dal fatto che siano risultate affidate in comodato ad altre persone.

Il ricorso è fondato.

Il D. M. 10 settembre 1992 individua la disponibilità dei beni indicati come indici e coefficienti presuntivi di capacità contributiva ai fini dell’applicazione del D. P. R. N. 600 del 1973, art. 38, nella condizione di chi “a qualsiasi titolo o anche di fatto utilizza o fa utilizzare i beni”.

Vi rientra certamente anche la condizione dell’intestatario che concede il bene in uso gratuito a terze persone.

Scopo della normativa è quello di individuare fonti di reddito non dichiarate, sicché la titolarità di un reddito da lavoro è certamente estranea alla logica dell’istituto. L’affermazione che la vettura Mercedes “risulta in atti mai acquistata e in possesso del signor R. A. ” contrasta in modo palese con la risultanza del PRA che ne indica la cessione, avvenuta il 27. 12. 1996, dal contribuente alla omonima società.

Va dunque accolto il ricorso e cassata la sentenza impugnata.

La causa va decisa nel merito col rigetto dell’originario ricorso del contribuente, introduttivo della lite, poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto (art. 384 c. P. C. ).

Possono compensarsi le spese dei gradi di merito. Quelle del giudizio di legittimità debbono seguire la soccombenza.

P. Q. M. Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e – decidendo nel merito – rigetta il ricorso originario del contribuente, introduttivo della lite.

Compensa fra le parti le spese dei giudizi di merito.

Condanna il contribuente a rimborsare quelle del giudizio di legittimità, liquidate in Euro. 1. 000 per onorari, oltre spese prenotate a debito.

Redditometro: Acquisto immobile con fondi da cessione azienda

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esente iva (art 10),Fac simile clausola opzione IVA locazione immobili strumentali,locazione esente iva (art 10),Contratto di locazione esente IVA art 10 fac simile,affitto esente iva art 10,Esenzione Iva locazione immobili strumentali,Locazione immobile strumentale IVA reverse charge,locazione commerciale esente iva (art 10)

La controversia ha per oggetto l’impugnazione da parte della contribuente S. C. Dell’avviso di accertamento IRPEF e ILOR per l’anno 1997; 2. La C. T. P. Di Napoli accoglieva il ricorso sul presupposto del mancato rispetto delle disposizioni della circolare ministeriale 101/E del 30 aprile 1999 e della prova fornita dalla contribuente circa il reperimento di fondi, provenienti dal nucleo familiare, finalizzato a un acquisto immobiliare di rilevante entità; 3. La C. T. R. Ha accolto l’appello rilevando che la cessione di azienda che avrebbe finanziato l’acquisto immobiliare era avvenuta oltre 14 mesi dopo l’acquisto immobiliare e costituiva pertanto una circostanza inidonea a impedire l’applicazione dell’accertamento sintetico (cd. Redditometro);

Sentenza

Cassazione Civile Ord. N. 21661 del 22-10-2010

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Letti gli atti depositati;

1. La controversia ha per oggetto l’impugnazione da parte della contribuente S. C. Dell’avviso di accertamento IRPEF e ILOR per l’anno 1997;

2. La C. T. P. Di Napoli accoglieva il ricorso sul presupposto del mancato rispetto delle disposizioni della circolare ministeriale 101/E del 30 aprile 1999 e della prova fornita dalla contribuente circa il reperimento di fondi, provenienti dal nucleo familiare, finalizzato a un acquisto immobiliare di rilevante entità;

3. La C. T. R. Ha accolto l’appello rilevando che la cessione di azienda che avrebbe finanziato l’acquisto immobiliare era avvenuta oltre 14 mesi dopo l’acquisto immobiliare e costituiva pertanto una circostanza inidonea a impedire l’applicazione dell’accertamento sintetico (cd. Redditometro);

4. Ricorre per cassazione la contribuente con due motivi di impugnazione attinenti al difetto di motivazione. In particolare S. C. Con il primo motivo rileva l’insussistenza dei presupposti per l’accertamento sintetico che, secondo la circolare n. 7 del 30 aprile 1977 (punti 59 e 60), ricorrono quando la determinazione del reddito complessivo netto, quantificato con il metodo analitico, risulta in evidente contrasto con le realtà relative al tenore di vita e ad altri elementi o circostanze di fatto che inducono a far ritenere l’esistenza di redditi sottratti alla valutazione analitica. Afferma poi che la prova contraria che il ricorrente deve fornire non attiene alle modalità con le quali vengono messe a sua disposizione i fondi necessari per l’acquisto di un immobile essendo sufficiente provare il concorso alla spesa di altri componenti della famiglia che possa giustificare la presenza di redditi sufficienti a giustificare in concreto la reale capacità contributiva posta in essere dal contribuente all’atto dell’investimento. In altri termini rileva che la prova contraria, che il contribuente deve fornire, attiene unicamente alla dimostrazione che la sua capacità di spesa è compatibile con il cumulo del suo reddito con quello degli altri componenti il nucleo familiare;

5. In data 24 settembre 2009 veniva depositata in Cancelleria relazione ex art. 380 bis c. P. C. , con la quale si affermava la palese infondatezza del primo motivo di ricorso alla luce del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. 8738/2002 e 2656/2007) secondo cui il dettato del D. P. R. N. 600 del 1973, art. 38, che disciplina i criteri di rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche prevede che il controllo della congruità delle stesse venga effettuato partendo da dati certi e utilizzando gli stessi come indici di capacità di spesa per dedurne, avvalendosi di specifici e predeterminati parametri di valorizzazione (cd. Redditometro), il reddito presuntivamente necessario a garantirla.

Quando il reddito determinato in tal modo si discosta da quello dichiarato per almeno due annualità l’ufficio può procedere all’accertamento con metodo sintetico determinando il reddito induttivamente e quindi utilizzando i parametri indicati a condizione che il reddito così determinato sia superiore di almeno un quarto a quello dichiarato. L’unico onere dell’ufficio è quello di individuare elementi certi indicatori di capacità di spesa, mentre i coefficienti presuntivi vengono utilizzati sia al fine di accertare l’incongruità del reddito dichiarato sia al fine di determinare sinteticamente il reddito da accertare, ferma restando la possibilità per il contribuente, oltre che, ovviamente, di contestare il possesso degli indicatori di capacità di spesa, di provare, con idonea documentazione, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, posto che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora il contribuente, in sede di risposta ad apposito questionario, ammetta la proprietà e l’utilizzazione di determinati beni, indici di capacità contributiva, ha l’onere di provare in modo rigoroso che detti beni appartengono a terzi e sono da questi utilizzati -, restando altrimenti esposto alle conseguenze, in tema di accertamento presuntivo del reddito della propria dichiarazione (Cassazione civile, sez. Trib. , 18 giugno 2002, n. 8738);

6. La stessa relazione con riferimento al secondo motivo di ricorso rilevava che con tale motivo si propone un riesame dell’accertamento relativo alla carenza della prova a carico della contribuente e nello stesso tempo si contesta la interpretazione della CTR della norma regolante il contenuto di tale prova. La relazione affermava la infondatezza di entrambi i profili il primo per la evidente logicità della motivazione della CTR nel rilevare lo sfalsamento temporale fra acquisto dell’immobile e cessione dell’azienda familiare (che secondo la contribuente avrebbe finanziato l’acquisto) e per la oscurità del quesito di diritto relativo a una pretesa alterità fra prova delle modalità del finanziamento e prova del concorso alla spesa da parte dei familiari;

7. In considerazione della imminente decisione delle SS. UU. Civili della Corte di Cassazione in materia di parametri all’udienza del 18 novembre 2009 la causa veniva rinviata a nuovo ruolo;

8. A seguito della pronuncia delle Sezioni Unite n. 26635 del 18 dicembre 2009 la giurisprudenza di legittimità si è arricchita nel frattempo dei seguenti principi di diritto:
a) in tema di accertamento tributario, la necessità che lo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli studi di settore testimoni una “grave incongruenza”, espressamente prevista dal D. L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62 sexies, aggiunto dalla Legge Di Conversione 29 ottobre 1993, n. 427, ai fini dell’avvio della procedura finalizzata all’accertamento, deve ritenersi implicitamente confermata, nel quadro di una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, dalla L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, comma 1, il quale, pur richiamando direttamente l’art. 62 sexies cit. , non contempla espressamente il requisito della gravità dello scostamento;b) la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri e degli studi di settore costituisce un sistema unitario, frutto di un processo di progressivo affinamento degli strumenti di rilevazione della normale redditività per categorie omogenee di contribuenti, che giustifica la prevalenza, in ogni caso, e la conseguente applicazione retroattiva dello strumento più recente rispetto a quello precedente, in quanto più affinato e, pertanto, più affidabile;
c) la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte.

In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito;
ritiene che:
1. Riletta alla luce di questa più recente giurisprudenza la relazione del 24 settembre 2009 conserva la sua validità;
2. Permangono altresì i presupposti per la trattazione della controversia in camera di consiglio e se l’impostazione della presente relazione verrà condivisa dal Collegio per il rigetto del ricorso;
ritenuto che tale relazione appare pienamente condivisibile cosicchè il ricorso deve essere respinto. Sussistono giusti motivi per compensare integralmente le spese del giudizio di Cassazione;

P. Q. M. La Corte rigetta il ricorso. Compensa interamente le spese del giudizio di cassazione

Redditometro: Legittimo acquistare la casa con i lasciti paterni

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Redditometro: Legittimo acquistare la casa con i lasciti paterni

Sentenza Commissione tributaria provinciale PIEMONTE Vercelli, sez. II, 23-02-2011, n. 22 – Pres. Carenzo Franco – Rel. Catania Antonio

Accertamento – Redditometro – Incrementi patrimoniali – Attribuzione anni precedenti – Semplice divisione matematica – Illegittimità – Art. 38, comma 5, D. P. R. 29 settembre 1973, n. 600
Non è legittimo l’accertamento col quale l’ente impositore determina il maggior reddito dell’anno accertato dividendo semplicemente il valore patrimoniale acquisito per il quinquennio (nel caso di specie, la contribuente aveva posto in essere acquisizioni patrimoniali nel 2006 per 455 mila euro, a fronte di un reddito imponibile dichiarato per l’anno 2004 pari a 10. 170,00 euro. Tale incremento patrimoniali derivava da lasciti e donazioni del padre nonché dalla vendita di alcuni valori mobiliari).

Fatto-Diritto

Con ricorso presentato 13/1/2010 la sig. Ra Bo. Ni. Impugnava avviso di accertamento per IRPEF anno 2004 da parte dell’Agenzia Entrate di Vercelli OSSERVA La contribuente si oppone avverso avviso di accertamento, chiedendone l’annullamento, con il quale l’Agenzia delle Entrate di Vercelli elevava il reddito da Euro 10107,00 ad Euro 91. 000,00.

L’atto impositivo deriva da accertamento sintetico posto in essere dall’Agenzia delle Entrate di Vercelli a seguito di segnalazione, da parte dell’Anagrafe tributaria, circa la non coerenza delle quote di incremento patrimoniale, rispetto ai redditi della contribuente relativi all’anno 2004. Tale incoerenza deriva dal fatto che la contribuente di che si tratta ha posto in essere acquisizioni patrimoniali, con atti registrati nell’anno 2006, per un importo di Euro 455. 000,00, che si contrappone ad un reddito imponibile dichiarato, per l’anno 2004, pari ad Euro 10107,00.

Contro tale determinazione la parte ricorrente oppone l’acquisizione di entrate derivanti da lasciti e donazioni da parte del padre Bo. Gi. , nonché con vendita di valori mobiliari, esponendo una serie di transazioni di assegni delle cui provenienza non viene data compiuta dimostrazione documentale, come non viene esaurientemente dimostrato che tali capitali derivino da redditi che abbiano assolto l’onore tributario, oppure derivano da redditi esenti o con tassazione alla fonte. Per sua stessa ammissione, come riportato dall’Agenzia in sede di controdeduzioni, la sig. Ra Bo.

Avrebbe giustificato la sua disponibilità di denaro, sia attraverso regalie da parenti, in particolare i nonni deceduti, sia da lavori lautamente compensati come bozzettista Olivetti e decoratrice artistica per facoltosi privati, di cui non è dato sapere l’anno di competenza e quindi comprenderne la relativa tassazione. Il ricorso quindi si incentra su una lunga elencazione dei movimenti di capitale avvenuti in capo alla sig. Ra Bo. , senza peraltro dare compiuta dimostrazione documentale, soprattutto in merito alla stretta inerenza di tale entrate con le acquisizioni effettuate. Acquisizioni che, peraltro, mostrano alcune singolarità avvenendo una, tra padre e figlia, e l’altra, con il singolare pagamento sotto forma di prestito effettuato in capo al venditore.

Cose che non contribuiscono alla trasparenza delle operazioni ma che, in questo contesto, non sono materia su cui questa Commissione deve esprimere giudizio, essendo chiamata unicamente a dirimere l’incoerenza del reddito rispetto alle operazioni patrimoniali poste in essere.

La parte ricorrente, nel suo ricorso, conclude nel richiedere, in via principale l’annullamento dell’avviso di accertamento, ed in via secondaria l’eventuale rideterminazione della pretesa impositiva, il tutto con rifusione delle spese. Da parte sua, l’Agenzia contro deduce ribadendo la correttezza dei presupposti che hanno portato all’emissione dell’accertamento sintetico, evidenziando peraltro le singolarità sopraesposte, e conclude con la richiesta di rigetto del ricorso, con vittoria delle spese. Il COLLEGIO osserva che la fattispecie in esame, alla luce di quanto già parzialmente esposto in premessa, presenta un duplice filone di giudizio, vale a dire:

1)     E’ indubbio che l’incoerenza rilevata sia un fatto reale che, nonostante lo sforzo difensivo profuso, non convince pienamente circa la completa inesistenza di redditi non assoggettati a tassazione, troppo elevato sarebbe in contrasto tra la disponibilità reddituale della ricorrente, rispetto all’entità dell’acquisizione patrimoniale posta in atto.

2)     E’ quindi indubbio che l’Agenzia delle Entrate abbia agito correttamente nel porre in atto l’accertamento sintetico, da cui è scaturito l’avviso contestato. Per contro non appare del tutto corretto il risultato raggiunto, il quale non è stato altro che la semplice suddivisione matematica, del valore patrimoniale acquisito per un quinquennio, vale a dire 455. 000,00:5= 91. 000,00. Tale metodo non ha minimamente tenuto conto, in modo critico, di tutte le componenti attive e passive che avrebbero dovuto concorrere alla corretta e reale determinazione del nuovo reddito imponibile.

Che la fattispecie, in assenza di una corretta impostazione analitica nella determinazione del reddito, debba ragionevolmente essere trattata, da parte di questa Commissione, in maniera equitativa, contemperando sia la convinzione che il contribuente non è stato in grado di dissolvere tutti i dubbi circa l’incoerenza appalesata, sia la superficialità dell’Agenzia nel rideterminare un reddito sintetico solo attraverso un esercizio di semplice calcolo aritmetico, sviluppato in maniera acritica senza dimostrata attinenza con la realtà.

Che pare equo quindi confermare la correttezza nel porre in essere un accertamento sintetico, ma nel contempo addivenire a quanto richiesto, in seconda istanza, da parte della ricorrente in ordine alla rimodulazione in maniera equitativa del reddito. P. Q. M. Accoglie parzialmente il ricorso rideterminando il reddito sintetico accertato, da Euro 91. 000,00 ad Euro 45. 500,00, demandando all’Agenzia delle Entrate di Vercelli la rideterminazione dell’imposta dovuta, e dei relativi oneri accessori.

In ordine alle spese, in considerazione del tipo di giudicato, ritiene esserci i presupposti per la loro compensazioni.

Redditometro: Proprietà azienda ereditata in successione

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Redditometro: Proprietà azienda ereditata in successione

SENTENZA Cassazione Civile Sent. N. 23171 del 17-11-2010

Svolgimento del processo

P. N. Ha impugnato l’avviso di accertamento relativo ad IRPEF, ILOR e SSN 1995, notificatogli nel 2001 sulla base dell’imputazione a tale annualità – D. P. R. N. 600 del 1973, ex art. 38 – di un sesto (L. 7 3. 333. 000) del reddito presuntivamente derivante da un acquisto di azienda per L. 490. 000. 000 – effettuato dal P. Nel 1998 (previa detrazione della somma di L. 56. 606. 000 – pervenuta al contribuente per successione nel 1997).

La Commissione Tributaria Provinciale ha respinto il ricorso, disattendendo, oltre le doglianze di carattere processuale, quelle relative a fatto che l’esborso iniziale relativo all’acquisto era stato di L. 1 40. 500. 000, mentre gli ulteriori pagamenti erano avvenuti negli anni successivi.

La Commissione Tributaria Regionale della Lombardia ha accolto con sentenza 4 aprile 2005 il ricorso del P. In relazione alla valutazione dell’esborso effettivo, provato dall’appellante attraverso la produzione dell’atto di acquisto, qualificato come vendita a rate (con acconto iniziale, seguito da cambiali e da una rivendita nel 2001 dell’azienda, mediante accollo del residuo debito di L. 254. 000. 000 da parte del nuovo acquirente)ed ha quindi annullato integralmente all’avviso di accertamento in quanto basato su un importo superiore a quello pagato dai P.

L’Agenzia delle Entrate chiede la cassazione di tale sentenza sulla base di un unico motivo, cui P. N. Resiste con controricorso e ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo. Motivi della decisione
I ricorsi proposti avverso la medesima sentenza vanno riuniti à sensi dell’art. 335 c. P. C. Con l’unico motivo del ricorso principale si censura la sentenza impugnata per violazione del D. P. R. N. 600 del 1973, art. 38, e art. 2697 c. C. , nonchè per difetto di motivazione in ordine alla mancata applicazione, da parte dei giudici tributari, della disposizione del D. P. R. N. 600 del 1973, art. 38, comma 5, che prevede, in caso di accertamento sintetico del reddito netto in relazione a spesa per incrementi patrimoniali, che tale spesa si presume comunque sostenuta con redditi conseguiti in quote costanti nell’anno in cui è stata effettuata e nei cinque anni precedenti.

Nel caso in esame quindi la Commissione Regionale avrebbe dovuto eventualmente ridurre il reddito relativo al 1995 in relazione alla somma pagata dal contribuente nel 1998 (secondo un insieme di calcoli esposti nella doglianza in esame), ma non annullare “in toto l’avviso impugnato. Il controricorrente eccepisce l’inammissibilità della domanda di merito introdotta dall’Agenzia ricorrente per la prima volta in sede di Legittimità, dopo che nei due gradi precedenti l’Ufficio aveva sempre sostenuto la conferma dell’avviso sulla base della maggior somma in indicata, per cui il giudice d’appello non poteva pronunciare oltre i limiti della domanda. In sede di ricorso incidentale il P. Contesta la compensazione delle spese applicata dai giudici d’appello.

Il ricorso principale e fondato e va accolto, con assorbimento del ricorso incidentale.

Il giudice tributario, che è giudice del rapporto, può modificare il contenuto dell’accertamento, nell’ambito dell’importo preteso dall’Ufficio, di cui le Commissioni tributarie possono operare la riduzione, ove correttamente motivata (Cass. 10816/2002), come riscontrabile dagli elementi e dalle circostanze di causa. Infatti secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass. 15825/2006; 16252/2007; 13868/2010; 13132/2010) essendo il processo tributario annoverabile non tra i processi di “impugnazione/annullamento”, ma fra quelli di “impugnazione/merito”, in quanto non diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva, sia della dichiarazione del contribuente che dell’accertamento dell’Ufficio, il giudice che ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare, come nella specie, l’atto impositivo, ma deve esaminare il merito della pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, ricondurla eventualmente nella corretta misura, purchè entro i limiti, della domanda. Nella fattispecie, noi 1998, l’esborso da parte del contribuente, come dato accertato e non contestato ulteriormente dall’Agenzia, e stato di L. 140. 000. 500, e a tale somma vanno dunque rapportate le quote di reddito presunto nel quinquennio precedente, il relativo calcolo andrà verificato dal giudice di rinvio, che si indica previa cassazione sul punto della sentenza impugnata – in altra Sezione della Commissione Tributaria regionale della Lombardia, la quale liquiderà anche le spese del presente grado di giudizio.

P. Q. M. La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese, ad altra Sezione della Commissione Tributaria regionale della Lombardia

Redditometro Possesso automobile e spese di mantenimento

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Redditometro Possesso automobile e spese di mantenimento

Sentenza Commissione tributaria provinciale PIEMONTE Alessandria, sez. VI, 22-02-2011, n. 13 – Pres. Liuzzo Fabio – Rel. Quarati Antonio

Accertamento – Accertamento sintetico

E’ legittimo il redditometro laddove il contribuente non dimostri che il reddito presunto è costituito da entrate reddituali (Nel caso di specie, al contribuente veniva contestato il possesso di un’auto ALFA ROMEO 156 2,4 JTD, alimentata a gasolio, di 22 cavalli fiscali, ed immatricolata nel 2004. Tra i vari motivi, il contribuente contestava all’ente impositore di non aver tenuto conto del ricalcolo del reddito riferibile all’auto basato sull’applicazione di dati relativi a presunti costi annuali desunti da tabelle pubblicate dall’ACI).

(1) Sentenza non condivisibile. Ben può il contribuente chiedere la disapplicazione dell’atto presupposto, vale a dire del Decreto Ministeriale 10 settembre 1992, laddove si ravvisino i vizi tipici dell’atto amministrativo, quali l’illogicità, la contraddittorietà, il difetto di istruttoria, il travisamento ed erronea valutazione dei fatti, etc. Nel caso di specie, non pare sia infondata la censura della disapplicazione dei consumi attribuibili ad un’auto alla luce delle tariffe ACI. Si pensi alle auto storiche. Vi è l’esenzione dal bollo auto, vi è un’assicurazione di modesto ammontare, il numero di chilometri percorsi è decisamente inferiore a quello generalmente percorso da altre autovetture non storiche.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorsi pervenuti in data 11/03/2010 il sig. Sp. Ro. Opponeva gli avvisi di accertamento n. (. ) con i quali l’Agenzia delle Entrate Ufficio di Tortona, in allora competente, accertava a suo carico maggiori redditi, per gli anni di imposta 2004 e 2005. Applicando la metodologia dell’accertamento “sintetico” a norma dell’art. 38 c. 4 del D. P. R. N. 600/1973, tenendo conto dei beni di cui è risultato intestatario il contribuente nelle citate annualità: un’auto alimentata a gasolio di HP 22 immatricolata nel 2004, quota di possesso 100% ed un immobile adibito ad abitazione principale di mq 75, quota di possesso 100%. A motivo dell’opposizione il ricorrente contestava in diritto l’illegittimità e l’inammissibilità della tipologia di accertamento c. D. Sintetico ex art. 38 c. 4 D. P. R. N. 600/73 applicata dall’Ufficio, nonché la presunta carenza di motivazione in relazione al disposto dell’art. 42 stesso DPR. Nel merito, eccepiva il fatto che in sede di accertamento l’Ufficio non avesse tenuto conto della documentazione esibita a seguito di invito al contraddittorio, con specifico riferimento all’acquisto dell’auto “Alfa Romeo 156 2,4 JTD”. Forniva poi un ricalcolo del reddito riferibile alla predetta auto basato sull’applicazione di dati relativi a presunti costi annuali desunti da tabelle pubblicate dall’A. C. I. Resisteva di contro l’Agenzia delle Entrate affermando la piena legittimità nonché la fondatezza dell’applicazione, nel caso in esame, dell’art. 38 c. 4 D. P. R. N. 600/73 supportate peraltro da consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione. Quanto al lamentato difetto di motivazione dell’avviso di accertamento impugnato, l’ufficio ne rilevava la palese infondatezza considerato che la motivazione dell’atto stesso riportava in maniera dettagliata sia i presupposti di fatto sia le ragioni giuridiche, per cui il contribuente è stato messo in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa. Quanto infine alla richiesta avanzata dal contribuente del riconoscimento del minor reddito accertato, con la proposta di un ricalcolo, l’ufficio rilevava che il reddito derivante dal predetto ricalcolo risultava addirittura superiore a quello accertato. Concludeva pertanto per il rigetto del ricorso e la conferma dell’avviso impugnato, con la condanna del contribuente alla refusione delle spese di giudizio.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso non è fondato e merita di essere respinto in ogni sua parte. A prescindere dall’eccezione in ordine alla pretesa carenza di motivazione dell’avviso impugnato, – cui questa Commissione non ritiene di dover aderire in ossequio ad un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, poiché è principio incontroverso che la motivazione di un atto debba ritenersi sussistente ed esaustiva in tutti i casi in cui la stessa consenta al contribuente di conoscere la natura e l’entità della pretesa tributaria e, nel caso in esame l’ufficio ha indicato i fatti sui quali ha fondato la pretesa impositiva consentendo al ricorrente di contestarne la rilevanza e concretando in tal caso la “provocatio ad opponendum “che la giurisprudenza di legittimità ed anche di merito è concorde nel ritenere necessaria e sufficiente all’instaurazione del contraddittorìo tra contribuente e fisco, – anche le restanti eccezioni proposte dal ricorrente non sono condivisibili e dovranno essere disattese. In particolare priva di fondatezza risulta la contestazione circa l’illegittimità del metodo accertativo di tipo “sintetico” così come applicato dall’ufficio. Pare incontestabile infatti, che la rettifica del reddito imponibile mediante il ricorso alla tipologia del metodo sintetico sia perfettamente legittima e più volte confermata dalle sentenze della Suprema Corte di Cassazione che individuando il canone ermeneutico di tale procedimento su presunzioni fondate sull'”id quod plerumque accidit” ha ravvisato l’esistenza di tutte la garanzie in tema di prova dei fatti da parte del contribuente dispensando l’amministrazione finanziaria da ulteriori prove rispetto ai fatti indice di maggiore capacità contributiva individuati dal “redditometro” stesso e posti a base della pretesa tributaria fatta valere. Merita sottolineare che la rettifica del reddito imponibile mediante il ricorso alla tipologia del reddito sintetico si basa unicamente sul confronto tra il reddito dichiarato e quanto determinabile in base al possesso o alla disponibilità di beni o servizi descritti nel D. M. 10/09/1992. Sussiste un automatismo nel calcolo del maggior reddito, attraverso la moltiplicazione tra i beni indice di capacità contributiva ed i coefficienti stabiliti dal citato D. M. E successivi decreti. Risulta di tutta evidenza che sia posto a carico del contribuente l’onere di dimostrare che il reddito presunto è costituito in tutto o in parte da redditi esenti già assoggettati ad imposta ovvero che esso non esiste in misura inferiore, – e, poiché non pare che il ricorrente abbia dato le prove che a lui competono per contrastare l’operato dell’ufficio, si deve considerare ulteriormente fondata la pretesa tributaria vantata dall’ufficio. Consegue pertanto, da quanto sopra esposto, che il ricorso va respinto. P. Q. M. La Commissione Tributaria Provinciale di Alessandria respinge integralmente il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio nella misura di Euro 500,00 (cinquecento).

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