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Rubrica Legale dell’Avv. Lifang Dong: Registrazione in Mala Fede di un Brevetto per Design

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Rubrica Legale dell'Avv. Lifang Dong: Registrazione in Mala Fede di un Brevetto per Design

Sig Lu: Buongiorno Avv. Dong! Sono un cittadino cinese e sono titolare di una società attiva nel settore dell’energia rinnovabile, con sede a Roma.

Tre anni fa ho conferito mandato ad una società italiana produttrice di turbine eoliche, i cui disegni sono stati progettati dalla nostra società al fine di inserirle nei nostri impianti eolici da installare nel 2013.

Tuttavia, un mese fà abbiamo scoperto che questa società italiana mandataria, prima di ultimare la produzione delle turbine da noi commissionate tempo fa, ha depositato a nostra insaputa presso l’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti (UIBM) la domanda per la registrazione del brevetto delle turbine da noi progettate senza il nostro espresso consenso agendo in mala fede. Siccome, mi fidavo di questa società italiana le ho spedito incautamente i miei disegni senza provvedere prima alla registrazione del brevetto per design. Ho qualche possibilità di tutelare i miei diritti?

Rubrica Legale dell’Avv. Lifang Dong: Registrazione in Mala Fede di un Brevetto per Design

 

Avv. Dong: Sig. Lu, buongiorno! Il suo problema è molto diffuso in quanto spesso capita che il titolare ometta di registrare oppure ritardi di registrare una domanda di brevetto per design o modelli d’utilità o invenzioni, non sapendo che questa circostanza può comportare problemi rilevanti per chi, come lei, svolge un’attività commerciale.

Quanto al Suo quesito, la legge italiana prevede la tutela dei diritti del titolare del brevetto anche nell’ipotesi in cui un terzo registri in mala fede un brevetto per design, cioè senza averne l’autorizzazione.

Pertanto, potrà adire l’autorità giudiziaria competente per accertare la mala fede del terzo, chiedere la nullità del brevetto in questione e il risarcimento dei danni patiti, allegando prove a sostegno della sua azione civile.

Ad esempio, potrà allegare il contratto stipulato tra la Sua società e la società italiana, la raccomandata, fax o email tramite cui ha spedito i disegni di progettazione delle turbine eoliche, brochure, foto, fatture ed investimenti fatti.

Sig. Lu: Per che cosa s’intende la dichiarazione di nullità del brevetto?

Avv. Dong: Nel caso in cui Lei riuscisse a ottenere dal giudice civile un provvedimento favorevole che accerti la mala fede del terzo, dichiari la nullità del brevetto in oggetto e, pertanto, condanni il terzo a risarcirLe i danni patiti, s’intende che la registrazione di brevetto per design presentata dal terzo in mala fede sarà invalida. Tuttavia, si tratta di un giudizio complesso che richiede l’assistenza di un avvocato specializzato in materia di proprietà intellettuale.

Nota: il contenuto di questo articolo non costituisce un parere del nostro studio legale ma ha funzione informativa. Se Lei ha altri dubbi, ci può contattare per ulteriori informazioni ed assistenza legale.

Diritto Penale: Sequestro preventivo del Veicolo e confisca

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Diritto Penale: Sequestro preventivo del Veicolo e confisca

L’art. 186 comma 2 del C. D. S. Consente il sequestro preventivo – e la conseguente confisca – del veicolo in comproprietà, in quanto la lettera della norma esclude soltanto la confisca di veicolo appartenente ad un terzo per la tutela del suo diritto di proprietà.

Del resto, solo nel caso di appartenenza integrale del veicolo ad un terzo la presunzione assoluta di pericolosità derivante dall’uso del veicolo può risultare attenuata mentre, in caso di comproprietà, la presunzione medesima rimane integra.

Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, Sentenza del 6 maggio 2009 (dep. 11 giugno 2009), n. 24015.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUARTA SEZIONE PENALE

Composta dagli Ill. Mi Sigg. Ri:

Dott. MOCALI PIETRO Presidente

Dott. CAMPANATO GRAZIANA Consigliere

Dott. BRUSCO CARLO GIUSEPPE

Dott. MASSAFRA UMBERTO

Dott. MARESCA MARIAFRANCESCA

ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso presentato da: 1) X. Y. N. Il XX/XX/19XX avverso ordinanza del 22/09/2008 Trib. Libertà di Latina sentita la relazione fatta dal Consigliere BRUSCO CARLO GIUSEPPE

sentite le conclusioni del P. G. Dr. AURELIO GALASSO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

La Corte osserva:

1) X. Y. Ha proposto ricorso avverso l’ordinanza 3 ottobre 2007del Tribunale di Latina, sezione per il riesame delle misure cautelari reali, che ha rigettato la richiesta di riesame del decreto di sequestro preventivo emesso il 1° luglio 2008 dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale ed avente ad oggetto un’autovettura a lui sequestrata.

Il Tribunale ha ritenuto legittimo il provvedimento emesso in relazione ad un procedimento per il reato di cui all’art. 186 del codice della strada (guida in stato di ebbrezza) rilevando come non fosse ostativa al sequestro preventivo la circostanza che l’autovettura fosse in comproprietà con altre persona (la madre del ricorrente) e che il fatto non poteva essere ritenuto occasionale essendo ciò escluso dall’elevato tasso alcolico rilevato.

2) A fondamento del ricorso si deduce, con il primo motivo, la violazione dell’art. 186 comma 2° del codice della strada e dell’art. 240 comma 2° cod. Pen. Perché il Tribunale non avrebbe considerato che il veicolo non era di proprietà esclusiva del ricorrente e l’interpretazione data dal Tribunale si porrebbe in contrasto con la lettera e la ratio della norma che prevede la confisca del veicolo. Con il secondo motivo si deduce invece la violazione dell’art. 125 comma 3° c. P. P. Perché il Tribunale non avrebbe considerato che si trattava di condotta occasionale e quindi difettavano le esigenze cautelari che peraltro non avrebbero potuto essere ravvisate nell’elevato tasso alcolico in mancanza di precedenti specifici.

3) Va preliminarmente rilevato che il sequestro preventivo in esame è stato disposto in base al nuovo testo dell’art. 186 comma 2° del d. Lgs. 30 aprile 1992 n. 285 (codice della strada) modificato dall’art. 4 del d. 1. 23 maggio 2008 n. 92 convertito, con modificazioni, nella 1. 24 luglio 2008 n. 125 (misure urgenti in materia di sicurezza pubblica). Con questa modifica legislativa sono stati introdotti i seguenti periodi nel secondo comma dell’art. 186: “Con la sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena a richiesta delle parti, anche se è stata applicata la sospensione condizionale della pena, è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato ai sensi dell’art. 240, secondo comma, del codice penale, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato. ”

Come è agevole verificare dal tenore della norma, si tratta di confisca obbligatoria: ciò risulta sia dalla terminologia utilizzata (“è sempre disposta”) sia dal richiamo al secondo comma dell’art. 240 cod. Pen. Che prevede, appunto, casi di confisca obbligatoria (in questo senso deve intendersi il richiamo all’art. 240: v. Cass. , sez. IV, 11 febbraio 2009 n. 13831, Fumagalli, rv. 242479).

Dalla natura obbligatoria della confisca deriva un’importante conseguenza: che, nel caso di sequestro preventivo disposto ai sensi dell’art. 321 c. P. P. , l’esistenza del periculum – cui l’emissione di tale misura cautelare reale è subordinata – è presunta per legge, con la conseguenza che non deve essere accertata caso per caso e che non può essere disposta (a meno che non vengano meno i presupposti per ritenere esistente il fumus) la restituzione del veicolo prima della sentenza definitiva (v. La già citata sentenza 13831/2009 nonché Cass. , sez. Fer. , 28 agosto 2008 n. 36822, Simmerle, rv. 241269 – entrambe relative alla norma innovata del codice della strada – e in generale, precedentemente, Cass. , sez. III, 6 aprile 2005, n. 17439, Amico, rv. 231516).

4) Ciò premesso, deve ancora osservarsi che il ricorso in cassazione contro le ordinanze del tribunale per il riesame, in materia di misure cautelari reali, è proponibile, per 1’espresso disposto dell’art. 325 comma 1° c. P. P. , solo “per violazione di legge”. Ciò vale anche per l’ordinanza del tribunale che si pronunzi sulla richiesta di riesame del decreto del pubblico ministero, che abbia convalidato il sequestro operato dalla polizia giudiziaria, o sulla richiesta di riesame del sequestro disposto dall’autorità giudiziaria (v. Artt. 355 c. 3° e 257 c. P. P. Che rinviano entrambi all’art. 324 con la conseguente applicabilità dell’art. 325 in tema di ricorso in cassazione).
Ciò comporta in particolare, per quanto attiene ai vizi di motivazione del provvedimento impugnato, che con il ricorso in questa materia non sono deducibili tutti i vizi concernenti la motivazione del provvedimento impugnato previsti dall’art. 606, comma 1°, lett. E) del codice di rito, ma soltanto la mancanza assoluta, o materiale, della motivazione perché solo in questo caso può configurarsi la violazione di legge ed in particolare la violazione dell’art. 125 comma 3° c. P. P. Che prescrive, a pena di nullità, 1’obbligo di motivazione delle sentenze e delle ordinanze in attuazione del disposto dei commi 6° e 7° dell’art. 111 della Costituzione. Tra i casi di mancanza assoluta della motivazione può certamente ricomprendersi anche il caso di motivazione meramente apparente o assolutamente inidonea a spiegare le ragioni addotte a sostegno dell’ esistenza o meno dei presupposti per il mantenimento della cautela, Non possono invece formare oggetto di ricorso in cassazione le censure dirette ad evidenziare 1’insufficienza, 1’incompletezza, l’illogicità o la contradditorietà della motivazione.

La giurisprudenza di legittimità è univoca nel senso indicato: cfr. Da ultimo Cass. , sez. V, 11 gennaio 2007 n. 8434, Ladiana, rv. 236255; sez. III, 5 maggio 2004 n. 26853, Sainato, rv. 228738, sez. Un. 28 gennaio 2004 n. 5876, Bevilacqua, rv. 226710.
Alla luce di questo costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (che nel ricorso neppure viene posto in discussione) se anche la censura rivolta dal ricorrente all’ordinanza impugnata con il secondo motivo di ricorso, relativo alle esigenze cautelari, fosse da ritenere ammissibile (sotto il profilo della necessità di accertare in concreto 1’esistenza del periculum anche nel caso di confisca obbligatoria) la censura sarebbe comunque inammissibile essendo rivolta all’accertamento di un vizio relativo alla motivazione che, nel nostro caso, non può essere ritenuta mancante.

5) E’ invece infondato il primo motivo di ricorso che si riferisce all’interpretazione della norma innovata di cui al comma 2° dell’art. 186 in precedenza riportata e che, secondo il ricorrente, non consentirebbe la confisca – e quindi il sequestro preventivo – nei caso di veicolo in comproprietà.

La tesi è infondata perché la lettera della norma non autorizza questa interpretazione, sembrando al contrario escludere la confisca di veicolo appartenente ad un terzo per la tutela del suo diritto di proprietà. Ma la tesi risulta in particolare infondata ove si consideri quale è la ratio della norma: solo nel caso di appartenenza integrale del veicolo ad un terzo la presunzione assoluta di pericolosità derivante dall’uso del veicolo può risultare attenuata mentre, in caso di comproprietà, la presunzione medesima rimane integra. Resta il problema della legittimità del sequestro (e della successiva eventuale confisca) della quota appartenente al terzo. Ma, su questo aspetto, il ricorrente è privo di interesse a richiedere l’annullamento del provvedimento impugnato, o la restituzione del bene, unico legittimato essendo il comproprietario del veicolo. 6) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P. Q. M. La Corte Suprema di Cassazione, Sezione IV penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il giorno 6 maggio 2009. Il presidente
Dr. Piero Mocali   Il Consigliere Relatore Dr. Carlo Brusco Depositato in cancelleria il giorno 11 giugno 2009.

Diritto Penale: illegittimità e disapplicazione dell’ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti con ripristino dello stato dei luoghi

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Diritto Penale: illegittimità e disapplicazione dell'ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti con ripristino dello stato dei luoghi

Corte Cassazione, Sezione III Penale, 15 maggio 2007, n. 24724

In tema di gestione dei rifiuti, è illegittima e deve essere disapplicata l’ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti e ripristino dello stato dei luoghi, prevista dall’art.  14, comma terzo, D. Lgs. N. 22 del 1997 (oggi sostituito dall’art.  192, comma terzo, D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152), emessa nei confronti del proprietario dell’area su cui insistono i rifiuti, senza accertare se questi abbia posto in essere una delle condotte incriminate dalla norma (abbandono e/o deposito incontrollato; immissione di rifiuti nelle acque superficiali o sotterranee) ovvero se sia configurabile nei suoi confronti un concorso morale o materiale.

Repubblica italiana in nome del popolo italiano la Corte Suprema di Cassazione sezione terza penale

Composta dagli Ill. Mi Sigg. Ri Magistrati: Dott. LUPO Ernesto – Presidente Dott. ONORATO Pierluigi – Consigliere Dott. MANCINI Franco – Consigliere Dott. PETTI Ciro – Consigliere Dott. SQUASSONI Claudia – Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da:

1) G. S. , N. IL (OMISSIS);

2) A. V. , N. IL (OMISSIS); 3) AD. VI. , N. IL (OMISSIS); 4) D. V. I. , N. IL (OMISSIS);

  • avverso sentenza del 22/03/2006 corte appello di Palermo; visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
  • udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott.ssa Squassoni Claudia;
  • udito il Procuratore Generale in persona Dr. Di Popolo Angelo, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Con sentenza 9 novembre 2004, il Tribunale di Trapani ha ritenuto G. S. , A. V. , Ad. Vi. , D. V. I. Responsabili – condannandoli alla pena di giustizia – del reato previsto dalD. Lgs. N. 22 del 1997, art.  50, comma 2 per non avere ottemperato alla ordinanza sindacale 29 gennaio 2003 con la quale erano stati diffidati a procedere alla bonifica e ripristino ambientale di un sito di loro proprietà; la decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Palermo in data 22 marzo 2006.

Per giungere a tale conclusione, i Giudici hanno ritenuto accertato che gli imputati fossero comproprietari di una area sulla quale in modo non occasionale erano abbandonati rifiuti eterogenei; hanno osservato, inoltre, che gli appellanti non avevano ottemperato allo onere di allegazione tendente a dimostrare eventuali “ipotesi di exceptio” avente ad oggetto “l’esclusione di ogni forma di partecipazione alla fattispecie configurata”.

Per l’annullamento della sentenza, gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge, in particolare, rilevando: – che l’abbandono di rifiuti è imputabile a soggetti terzi tanto è vero che G. S. E Ad. Vi. Sono stati assolti dal reato di discarica abusiva, per non avere commesso il fatto, ed Ad. Vi. E D. V. I. Non sono state incriminate e non hanno responsabilità a titolo di dolo o colpa per l’abbandono di rifiuti; – che, in tale contesto, l’ordinanza sindacale perde di legittimità.

Le censure sono meritevoli di accoglimento nei limiti in prosieguo precisati. Il proprietario del suolo non può essere ritenuto responsabile per questa sua qualifica – o per una eventuale condotta di mera connivenza – dello abbandono di rifiuti che altri hanno collocato sul suo terreno in quanto non è riscontrabile una fonte formale dalla quale fare derivare l’obbligo giuridico di impedire l’evento.

In coerenza con tale principio, la giurisprudenza di questa Corte ritiene che il proprietario sia responsabile della contravvenzione di abbandono dei rifiuti (o di discarica abusiva) solo se ha posto in essere la condotta tipica o ha fornito un apporto morale o materiale all’autore del reato.

 

Obblighi che gravano sul proprietario

Gli obblighi che gravano sul proprietario sono dettati nel Decreto Ronchi dall’art. 14, per le ipotesi di abbandono o deposito incontrollato, e dall’art. 17 per quelle di bonifica dei siti contaminati; una disciplina analoga è reperibile nell’attuale D. Lgs. N. 152 del 2006. L’art. 14 individua il soggetto obbligato alla rimozione ed al ripristino nella persona che ha violato il divieto di abbandono al quale sono affiancati in solido il proprietario del sito (o il titolare di diritti di godimento sulla area) solo se la violazione gli sia imputabile “a titolo di dolo o di colpa”. Anche per l’art. 17, il proprietario non è tenuto a bonificare l’area se non è anche l’inquinatore, mentre l’obbligo grava sempre su chi ha inquinato ed, in sua sostituzione, sulla pubblica autorità. Correlata al divieto di abbandono dei rifiuti ed alla posizione del proprietario “incolpevole”, si pone la ordinanza sindacale di rimozione, smaltimento e ripristino dei luoghi prevista dal D. Lgs. N. 22 del 1997, art.  14, comma 3 (ora D. Lgs. N. 152 del 2006, art.  193, comma 2); essa può essere emanata solo nei confronti dei soggetti che hanno abbandonato i rifiuti e non già nei confronti del proprietario dell’area in quanto tale.

Una ordinanza sindacale che gli imponesse una prestazione non prevista dalla legge sarebbe illegittima, per violazione dell’art. 23 Cost. , con conseguente obbligo del Giudice di disapplicarla (Cass. Sezione 3 ordinanza 825/2007).

Nel caso in esame, gli imputati, destinatari formali della ordinanza sindacale e proprietari del sito ove sono stati reperiti i rifiuti, sostengono di non essere i responsabili della condotta di abbandono e, pertanto, di non avere violato il precetto di cui all’art. 14, comma 3. Spettava agli imputati per evitare di dovere rispondere della inottemperanza dell’ordine sindacale (di cui non avevano chiesto l’annullamento in via amministrativa) di provare l’assenza di loro responsabilità nello abbandono al fine di ottenere la disaplicazione della ordinanza illegittima (per carenza dei presupposti soggettivi).

Onere della accusa era solo quello di provare l’esistenza della ordinanza sindacale (assistita da presunzione di legittimità) e l’inottemperanza dei suoi destinatari (Cass. Sezione 3 sentenza 31003/2002).

La prospettazione difensiva dei ricorrenti, ora al vaglio di legittimità, era già stata sottoposta all’esame dei Giudici di merito che l’hanno disattesa rilevando come gli imputati non avessero ottemperato all’onere probatorio che incombeva loro.

 

Atti processuali

Tale conclusione non tiene conto di una produzione della difesa, allegata agli atti processuali, rappresentata dalla sentenza passata in giudicato 313/2004 con la quale il Tribunale di Trapani ha assolto G. S. E Ad. Vi. Dal reato di discarica abusiva (allocata nello stesso sito oggetto dello abbandono dei rifiuti per cui è processo) con la formula “per non avere commesso il fatto”; le imputate non erano state tratte a giudizio e tale particolare fa ritenere che il Pubblico Ministero le reputasse estranee alla gestione dei rifiuti. Deriva che la Corte territoriale ha trascurato di esaminare una documentazione di particolare significato per verificare la tesi degli imputati e la conseguente possibilità di disapplicare l’atto amministrativo; tale lacuna non può essere colmata direttamente da questa Corte in quanto la sentenza citata deve essere letta e valutata congiuntamente agli altri atti processuali e richiede una disamina che esula dai limiti cognitivi della Cassazione.

 

P. Q. M.

La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo. Così deciso in Roma, il 15 maggio 2007. Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2007

 

Redditometro: non possono essere conteggiati i redditi di un affine pur se convivente con il contribuente

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La prova contraria alla quale  è chiamato il contribuente deve essere fornita in modo analitico e documentato e deve  investire  redditi  che  “…  siano  effettivamente  “posseduti”  dal contribuente e, cioè, siano di pertinenza  sua,  del  coniuge  e  dei  figli minori (che costituiscono  il  “nucleo  familiare”).   Non  possono,  perciò, essere conteggiati  i  redditi  di  un  affine  pur  se  convivente  con  il contribuente”

Sent. N. 17203 del 28 luglio 2006 (ud. Del 24 gennaio 2006) della Corte Cass. , Sez. Tributaria – Pres. Riggio, Rel. D’Alonzo Imposte sui redditi

– Accertamento induttivo

– Prova liberatoria

–  Redditi computabili

– Nucleo familiare

– Limite

–  Redditi  di  un  affine

–  Non possono essere conteggiati

– Art. 38 del D. P. R. 29 settembre 1973, n. 600

Massima – L’art. 38 del D. P. R. N. 600/1973 consente al contribuente  di dimostrare che il maggior reddito determinato  o  determinabile  attraverso l’accertamento sinteticamente basato su redditometro è costituito in  tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte  a titolo d’imposta.

Ciò, tuttavia  solo a condizione che tali redditi aggiuntivi risultino da idonea  documentazione e siano effettivamente “posseduti” dal contribuente e, cioè, siano di pertinenza sua, del coniuge e dei figli minori (che costituiscono il “nucleo familiare”). Non  possono, perciò, essere conteggiati i redditi di un affine pur se convivente con il contribuente. (1)

Svolgimento del processo

– Con ricorso notificato il 6 novembre  2001 all’Ufficio di Fano dell’Agenzia delle Entrate ed il 13  novembre  2001  al Ministero delle finanze (depositato il 21 novembre 2001), i coniugi G. C.   e P. F. – premesso che “con avviso di accertamento.

Notificato in data 26 novembre 1997” l’ufficio imposte dirette di Fano, traendo motivo dalla “risposta al Modello 55 Sintetico” da essi fornita  (dalla  quale  risposta “sarebbe emerso il possesso di un’autovettura a gasolio e di  un’abitazione principale per l’anno 1990 che, sulla base dei coefficienti fissati dai DD. MM. 10 settembre 1992 e  19  novembre  1992,  determinavano  un  reddito complessivo  di  lire  47. 611. 000  [da cui erano  state  detratte,  senza motivazioni, lire 9. 858. 000 per “redditi  esenti”]),  aveva  accertato “sinteticamente ai fini Irpef e Ilor 1990” il loro  reddito  elevando  (“da lire 18. 992. 000 a lire 36. 352. 000”) solo quello di esso G. C. E  recuperando “una maggiore  Ilor  per  lire  2. 812. 000,  una  maggiore  Irpef  per  lire 3. 521. 000 ed applicando sanzioni per  complessive  lire  9. 830. 000”  -,  in forza di cinque motivi chiedevano,  “con  ogni  consequenziale  statuizione anche in ordine alle spese” e previa riunione “con il procedimento relativo all’anno 1989 pendente. Avanti questa [stessa]  Corte”, di cassare  la sentenza n.  2/02/01 depositata il 2 febbraio 2001 dalla Commissione tributaria regionale delle Marche la quale aveva rigettato il gravame da loro proposto contro la  decisione  (n.   300/01/99) della Commissione tributaria provinciale di Pesaro che, “sostenendo in diritto   la retroattività dei decreti ministeriali citati e nel merito la carenza di elementi probatori che giustificassero le lagnanze dei ricorrenti”, aveva reietto il loro ricorso avverso  il  predetto  avviso,  nel quale  avevano contestato “Integralmente l’accertamento in diritto e nel merito”.

Il Ministero e l’ufficio dell’Agenzia delle  Entrate  intimati  non  si costituivano  né  svolgevano  attività  difensiva  in  questo  giudizio  di legittimità.

Motivi della decisione – 1.   In  via  preliminare  vanno  disattese  le istanze, avanzate dalla difesa dei ricorrenti, tese

– l’una, al rinvio “ad altra data” della discussione della causa per “legittimo impedimento” fisico (infermità) di uno  dei due difensori dei contribuenti e professionale dell’altro, non   tanto in ragione dell'”officialità del giudizio di cassazione”, il cui svolgimento,  come noto (Cass. , Sez. II, 11 gennaio 2002, n. 308; Id. ,  Sez.   III,  11  giugno 1999, n.  5755; Id. , Sez. I, 26 giugno 1997, n.   5719;  Id. ,  Sez.   III,  1° febbraio 1995, n.  1131; Id. , Sez. Lav. , 1° marzo 1993, n. 2507;  Id. ,  Sez. I, 29 novembre 1991, n.  12870, la quale ha anche escluso il contrasto  del principio con l’art. 24  della  Costituzione), “non  è  condizionato alla partecipazione dei difensori  all’udienza di discussione  dacché  la prospettazione delle ragioni delle parti è  interamente  affidata  all’atto scritto contenente il ricorso od il controricorso mentre  alla  discussione orale, è attribuito soltanto un valore complementare”, ma in considerazione della possibilità di svolgimento della difesa da parte dell’altro difensore nominato dai contribuenti, il cui allegato  impedimento  professionale (concomitante trattazione di una controversia tra altre parti affidata alla sua difesa) non può assurge alla medesima legittimità e rilevanza  del certificato  impedimento  fisico  (temporaneamente inabilitante) perché involge unicamente l’organizzazione professionale di detto difensore;

– l’altra, alla  riunione, per “evidenti  ragioni  di  connessione soggettiva ed oggettiva” nonché “al  fine  di  evitare  il rischio  di  un contrasto di giudicati”,  del  presente  procedimento  a  quello “relativo all’anno 1989”, anche esso “oggetto di ricorso in  cassazione”,  atteso  1) che l’eventuale coincidenza delle questioni non priva ciascuna annualità di imposta  della  propria  oggettività  (con  conseguente  insussistenza   di afferenti elementi di connessione) e 2) che il paventato  pericolo  di  un “contrasto di giudicati” è del tutto scongiurato, in concreto, per effetto della contestuale trattazione dei due processi da parte  di  questo  stesso collegio giudicante;

– la terza, infine, tendente ad ottenere la “rimessione  in  termini anche ai sensi dell’art. 184-bis del codice di procedura civile al fine  di consentire.

Di rinnovare la notifica di entrambi i ricorsi all’Agenzia delle Entrate di Roma in persona del  Direttore  pro  tempore”,  in  quanto (Cass. , Sez. Lav. , 6 agosto 2004, n. 15274; Id. , Sez. III, 21 aprile  2004, n. 7612; Id. , Sez. Lav. , 9 agosto 2002, n. 12132; Id. , Sez. II,  11  luglio 2000, n. 9178), tenuto conto della collocazione della norma, la  disciplina della rimessione in  termini  prevista  dall’art. 184-bis  del  codice  di procedura civile: non trova applicazione nel corso del giudizio di cassazione perché la stessa concerne soltanto le decadenze nelle quali siano incorse le parti nella trattazione della causa nel giudizio di primo grado e non è applicabile alle situazioni  esterne  allo  svolgimento  del giudizio, quali sono le attività necessarie all’introduzione di quello di cassazione e alla sua prosecuzione, vigendo per tutte tali attività tuttora la regola dell’improrogabilità dei termini perentori disposta dall’art. 153 del codice di procedura civile e non essendo possibile (Cass. , Sez. III, 25 maggio 1998, n.5197), considerato il suo carattere palesemente eccezionale, una interpretazione analogica della norma.

La reiezione delle esaminate questioni pregiudiziali permette  l’esame del ricorso per cassazione.  2. Con la  sentenza  gravata  la Commissione tributaria regionale

– premesso a) che “l’Ufficio distrettuale  delle imposte dirette di Fano, esaminata la dichiarazione dei redditi delle persone fisiche presentata per l’anno 1990 da. G. C. E dal  coniuge  P. F. ,  notificava  ai  contribuenti l’avviso.

Con cui si accertava sinteticamente  un  maggior reddito, ai fini Irpef ed Ilor, di lire 17. 360. 000” desumendo “la capacità contributiva. Dalla disponibilità di un’auto gasolio di HP 22, dell’anno 1986, e di un immobile di mq. 160, ubicato a S. Costanzo (PU)”, b) che in ricorso G. C. E  P. F.  avevano sostenuto “che il nucleo familiare  contribuiva  al mantenimento dell’immobile di sua proprietà in misura sufficiente così come aveva  chiarito  con  il  questionario ricevuto dall’ufficio” e  c)  che nell’appello i contribuenti avevano c1)  sollevato  “eccezione  di  nullità dell’accertamento in quanto elaborato sulla base  di  DD. MM.   10  settembre 1992 e 19 dicembre [recte: novembre] 1992, emanati successivamente rispetto all’anno  oggetto  della  azione  accertatrice”,  c2)  rammentato  che  “al questionario ex art. 38, comma 6, del D. P. R. N. 600/1973 [avevano] risposto. Facendo presente che il nucleo familiare annoverava anche due  figli  e la suocera del. G. C. , abitante nell’immobile oggetto  dell’accertamento” (chiarendo che “l’immobile in  contestazione  è  di  fatto  un’unica  unità abitativa con tre numeri civici, senza separazione tra i diversi piani  che la compongono, e pertanto i redditi della. I. T. Sono a disposizione  del nucleo familiare di G. C. “) e c3) “nel merito”,  elencato  “i  redditi  e  i movimenti bancari della I. T. , nell’anno 1990 e le  somme  prelevate  e  gli interessi maturati sui libretti bancari da parte del nucleo familiare nello stesso anno, al fine di dimostrare  che  il  reddito  dichiarato  ammontava effettivamente a lire 12. 246. 000, e che i redditi  esenti  e/o  comunque  a disposizione  del  nucleo  familiare ammontavano a lire   220. 952. 467” presentando “a tal fine. Idonea documentazione”

– ha rigettato l’appello dei contribuenti osservando:

– “in merito all’operato dell’ufficio  imposte  dirette”,  il  quale “non ha verificato i redditi dei vari soggetti del nucleo familiare del. G. C. E. Non ha  motivato  l’avviso  di  accertamento,  suffragandolo sostanzialmente con i criteri predisposti dai DD. MM. 10 settembre 1992 e 19 gennaio [recte, novembre) 1992”, che avendo l’ufficio (“ex  art.   38  del D. P. R.   n.   600/1973”),  “per  la  determinazione  sintetica del  reddito complessivo sulla scorta di indizi”, “pieni poteri di definire il maggior reddito in relazione ad elementi e circostanze di  fatto  indicativi della capacità contributiva del cittadino che ha dichiarato un reddito  non congruo rispetto ai predetti elementi, per due o più periodi di imposta” “nella  fattispecie” il  contribuente, pur avendo prodotto   “ampia documentazione nell’intento dì  dimostrare  la  capacità  contributiva  del nucleo familiare, nel quale annovera la suocera I. T. “, “non  ha  dimostrato. A quale titolo è stato concesso alla menzionata. I. T.

L’immobile  di mq. 160 che di per sé, pur facente parte di fabbricato  configurabile  come unica unità abitativa, ha una rendita o produce  reddito”,  un  “reddito” però, “cosi come dichiarato”, “non idoneo a rappresentare il  reale  valore del capitale intestato al. G. C. ” in quanto il  “reddito  imponibile . Può ovviamente variare in  base  al  reale  utilizzo  delle  singole  unità abitative”: “la. I. T. , infatti, ha una sua autonomia reddituale e non  è membro della famiglia C. , come  si  evince  dall’attestazione  dell’ufficio anagrafe del comune di San Costanzo, per  il  periodo  1°  gennaio  1998-31 dicembre 1990, presentata dal ricorrente”;        – “l’utilizzo da  parte  dell’ufficio  di  coefficienti  presuntivi, quali  quelli  del  “redditometro”,  contenuti  in   decreti   ministeriali successivi alla data di emissione dell’avviso di accertamento  ha  una  sua valenza e non è configurabile come applicazione retroattiva di disposizione normativa”;        – “nel caso. In  mancanza  di  circostanze  di  segno  contrario, l’utilizzo di parametri e calcoli statistici di provenienza  qualificata  e di attitudine indiziaria, indipendentemente  dal  tempo  dell’elaborazione, rafforza la valutazione oggettiva operata dall’ufficio nella determinazione del reddito sintetico”.       2. Nel primo motivo di ricorso i  contribuenti  –  assumendo  di  avere “sistematicamente eccepito” (“sia nel ricorso introduttivo,  sia  nell’atto di appello”) “il difetto di motivazione e l’eccesso  di  potere  in  cui  è incorso l’ufficio allorquando ha emesso  l’avviso  di  accertamento  a  suo tempo impugnato, prescindendo dalle risposte offerte  dai  contribuenti  al questionario Modello  55  Sintetico  e  limitandosi  a  riconoscere,  senza peraltro motivare, redditi esenti per  sole  lire  9. 858. 000”  –  lamentano “nullità  della  sentenza  per  omessa,  insufficiente  e   contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia [art.   360,  n.   5), del codice di procedura civile]” nonché “violazione dell’art. 38, commi 4 e 6, del D. P. R.  n. 600/1973. Difetto  di  motivazione  e .   eccesso  di potere” adducendo che:         – “con raccomandata del 2 settembre 1997 in risposta al  Modello  55 Sintetico  inviato  dall’ufficio . ,  [esso]  G. C.   aveva,  tra  l’altro, rappresentato che il nucleo familiare ‘C. ‘ (composto dalla moglie, dai  due figli e dalla suocera I. T. ) aveva a disposizione  per  l’anno  1990  un reddito complessivo di lire 32. 925. 000, oltre  al  reddito  dichiarato  [da esso]. G. C. Pari a lire 18. 992. 000, ‘.   più  che  sufficienti  a coprire le spese per la casa e per l’auto. ‘”;        –  “la  risposta  [di  esso]  G. C.   era  sicuramente  in  linea  con l’orientamento del Ministero che aveva ripetutamente  invitato  gli  uffici (circolare n. 7/14962 del 30 aprile 1977, capitolo 4, paragrafo 29,  e,  da ultimo, circolare  n.   101  del  30  aprile  1999 . )  a  considerare  le disponibilità reddituali di tutto il nucleo familiare e poneva la  Pubblica Amministrazione nella migliore condizione per verificarne la veridicità”.       In forza di  tanto  i  ricorrenti  sostengono  che,  poiché  “l’ufficio anziché controllare le dichiarazioni UNICO dei singoli componenti il nucleo familiare  di  cui  aveva  (e  tuttora  ha)  a  disposizione  la   relativa documentazione,  riteneva  apoditticamente  che  i  contribuenti   avessero comprovato con idonea documentazione l’esistenza di redditi esenti per sole lire  9. 858. 000  (inidonei  a  coprire  la  differenza  tra  dichiarato   e accertato) e notificava l’avviso di accertamento” (con la conseguenza  che, avendo  “determinato  sinteticamente  il   reddito”,   li   aveva   gravati “dell’onere  della  prova  contraria  ex  art.   38,  comma  6,  del  D. P. R. N.  600/1973″), “il principio dell’inversione  dell’onere  della  prova  sul contribuente. Opera in quanto lo stesso affermi l’esistenza  di  redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo di imposta che  sfuggono,  in  quanto tali, alla  diretta  conoscenza  dell’ufficio,  non  anche  quando  (perché l’art.  38, comma 6, del D. P. R.  n.  600/1973 non lo prevede) il  contribuente faccia riferimento a redditi “a disposizione” del nucleo familiare  il  cui supporto documentale è in possesso, per disposizione di legge, del medesimo ufficio accertatore”: “nel caso in esame,  nella  risposta  al  Modello  55 Sintetico” esso “contribuente ha fatto riferimento ai redditi di  tutto  il nucleo familiare (indicando nome e cognome di ciascun membro) in linea  con le istruzioni impartite dallo stesso Ministero delle  finanze  agli  uffici delle imposte” per cui “l’ufficio avrebbe dovuto procedere a  verificare  i dati e le cifre indicate [da esso] G. C. E, solo nel caso in cui gli importi indicati  non  avessero  trovato  corrispondenza  nelle  dichiarazioni  dei redditi in suo possesso (ovvero per qualche  ragione  non  avessero  potuto trovare accesso nella fattispecie di cui trattasi), avrebbe potuto emettere l’avviso  di  accertamento,  ivi   compiutamente   indicando   le   ragioni dell’esclusione degli importi indicati [dal medesimo] G. C. “.     Per i  contribuenti  “appare  dunque  evidente  l’eccepito  difetto  di motivazione connesso con la violazione dell’art. 38, comma  6,  del  D. P. R. N.  600/1973 dell’avviso di accertamento” in quanto l’ufficio ha  notificato detto avviso “sostenendo che il contribuente aveva  comprovato  con  idonea documentazione la disponibilità di redditi esenti per sole lire  9. 858. 000, obliando da un lato di considerare il concetto  di  “nucleo  familiare”  in spregio all’indirizzo proprio  del  Ministero  e  omettendo  dall’altro  di indicare per quale ragione i redditi dei  familiari .   non  erano  stati considerati idonei”.     I ricorrenti, quindi, concludono lamentando che  “tali  eccezioni  sono state  “saltate  a  piè  pari”  dal  giudice  di  prime  cure  e  rigettate inopinatamente dal giudice di appello il quale ha “semplicemente” omesso di giustificare tale pronuncia che, pertanto, si presenta apodittica ed emessa in totale violazione dell’art. 360, n. 5), del codice di procedura civile”.     Il motivo va respinto perché infondato.     A. L’avviso di accertamento tributario, come noto (Cass. ,  Sez.   trib. , 18 aprile 2003, n. 6232; Id. , Sez. Trib. , 6 novembre 2002, n.   15525;  Id. , Sez. Trib. , 1°  marzo  2002,  n.   2992),  ha  carattere  di  provocatio  ad opponendum  per  cui  soddisfa  l’obbligo  di  motivazione  ogni  qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente  in  grado  di  conoscere  la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi,  di  contestarne efficacemente sia l’an che il quantum debeatur, senza che sia necessaria né l’indicazione  delle  argomentazioni  giuridiche  costituenti  il  sostegno dell’atto né, per quanto  interessa  specificamerate  l’esame  del  motivo, l’esposizione della valutazione critica degli elementi acquisiti atteso che le  problematiche  relative  a  tali  elementi  e  quelle  concernenti   le argomentazioni  dette  acquistano  rilevanza  soltanto  nel   giudizio   di impugnazione dell’atto  ed  al  diverso  fine  dell’indagine  afferente  al fondamento della pretesa impositiva (Cass. , Sez. Trib. , 17  dicembre  2001, n. 5914; Id. , Sez. Trib. , 21 gennaio 2000, n.  658; Id. , Sez. I, 4  febbraio 1998, n. 1107).     L’accertamento tributario, inoltre (Cass. , Sez. Trib. , 25  marzo  2003, n.  4322; Id. , Sez. Trib. 22 agosto 2002, n. 12394;  cfr. ,  altresì,  Cass. , Sez. I, 4 dicembre 1996, n. 10812; Id. , SEz. I, 16 agosto 1993,  n.   8685), “per la sua natura e per la finzione che lo connota,  non  costituisce  una decisione su contrastanti interpretazioni di fatti e di  norme  giuridiche, da adottarsi col rispetto del contraddittorio, né esprime un  apprezzamento critico in ordine a dati noti a entrambe le parti, ma si  esaurisce  in  un provvedimento autoritativo con il  quale  l’Amministrazione  fa  valere  la propria  pretesa  tributaria,  esternandone  il   titolo   e   le   ragioni giustificative al solo fine  di  consentire  al  contribuente  di  valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale,  instaurando  così  un procedimento nell’ambito del quale parte creditrice sarà tenuta  a  passare dall’allegazione della propria pretesa alla prova  del  credito  tributario vantato nei confronti  del  ricorrente,  fornendo  la  dimostrazione  degli elementi costitutivi del proprio diritto”.     B. La determinazione del  reddito  effettuata  in  base  al  cosiddetto “redditometro”, poi, dispensa l’Amministrazione  finanziaria  da  qualunque ulteriore prova rispetto ai fatti-indici di maggiore capacità contributiva, individuati dal redditometro stesso e posti a base della pretesa tributaria fatta valere (Cass. , Sez. Trib. , 1° luglio 2003, n. 10350; Id. ,  19  aprile 2001, n. 5794), e pone a carico del contribuente l’onere di dimostrare  non solo (Cass. , Sez. Trib. , 7 giugno 2002, n. 8272; Id. , Sez. Trib. , 29 agosto 2000, n. 11300), come previsto dal comma 6 dell’art. 38 del D. P. R.   n.   600 del 1973, che il maggior reddito accertato è costituito da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta ma anche  che il reddito presunto sulla base del redditometro  non  esiste  o  esiste  in misura inferiore (Cass. , Sez. Trib. , 24 ottobre 2005, n. 20588;  Id. ,  Sez. Trib. , 24 settembre 2003, n.   14161;  Id. ,  Sez.   trib. ,  19  aprile  2001, n.  5794).     C. Dagli esposti principi discende evidente l’infondatezza  del  motivo in esame in quanto:         1) l’avviso  di  accertamento  impugnato  non  doveva  contenere  le motivazioni pretese  dai  contribuenti  in  ordine  alle  osservazioni  e/o giustificazioni da essi offerte all’ufficio in sede  amministrative  ovvero alle risultanze di atti in possesso dello  stesso  ufficio  trattandosi  di questioni attinenti alla prova della sussistenza di elementi giustificativi della differenza reddituale riscontrata dall’ufficio;        2)  l’inversione   dell’onere   della   prova   dall’Amministrazione finanziaria al contribuente, diversamente da quanto sostenuto  dai  coniugi ricorrenti, discende ex lege unicamente dalla presunzione iuris  tantum  di redditività  che  il  legislatore  ha  inteso  attribuire  ai  coefficienti indicati negli afferenti  decreti  ministeriali  e  non  già  dal  tipo  di giustificazione che il contribuente abbia dato  in  sede  amministrativa  o possa dare in sede giudiziale per  dimostrare  o  che  il  maggior  reddito accertato è costituito da redditi esenti o da redditi soggetti  a  ritenute alla fonte a titolo di imposta ovvero che il reddito  presunto  sulla  base del redditometro non esiste o esiste in misura inferiore.       D.   Nell’esposto  contesto  diviene  del  tutto  irrilevante  il  fatto (addotto dai ricorrenti) che il giudice di appello  abbia  “‘semplicemente’ omesso” di “giustificare tale pronuncia” atteso che l’inesistenza del vizio motivazionale non discende da un concreto  accertamento  attuale  ma  dalla corretta applicazione dei principi giuridici innanzi richiamati.     3. Con il  secondo  motivo  di  ricorso  i  contribuenti  censurano  il rigetto,  da  parte   della   Commissione   tributaria   regionale,   della “pregiudiziale”  da  essi  avanzata  in  ordine  all'”inapplicabilità  alla fattispecie inerente all’anno 1990 dei successivi DD. MM. 10 settembre  199219  novembre   1992”   e   lamentano   “nullità   della   sentenza   per violazione/falsa  applicazione  dell’art.    38,   comma   4,   del   D. P. R. N.  600/1973″ esponendo che, pur se la prima parte della norma  “sembrerebbe consentire  agli  uffici  di  accertare  sinteticamente  il   reddito   dei contribuenti sulla base di elementi e circostanze di fatto certi prevedendo che  l’ufficio,  indipendentemente  dalle  disposizioni  recate  dai  commi precedenti e dall’art. 39, può, in base ad  elementi  e  a  circostanze  di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito  complessivo  netto  del contribuente in  relazione  al  contenuto  induttivo  di  tali  elementi  e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto  da  quello  dichiarato'”  (per  cui  “apparentemente . L’ufficio sarebbe legittimato ad utilizzare qualunque parametro  che  abbia le  soprammenzionate  caratteristiche”),  “nel  successivo  capoverso”,  lo stesso comma 4 “prosegue stabilendo che  ‘a  tale  fine,  con  decreto  del Ministero delle finanze,  da  pubblicare  nella  Gazzetta  Ufficiale,  sono stabilite  le  modalità  in  base  alle  quali  l’ufficio  può  determinare induttivamente il reddito o il maggior reddito  in  relazione  ad  elementi indicativi di capacità contributiva  individuati  con  lo  stesso  decreto, quando il reddito dichiarato  non  risulta  congruo  rispetto  ai  predetti elementi per due o più periodi di imposta’”: in base a tali norme,  secondo i ricorrenti, appare “evidente” l’intento  del  legislatore  di  “vincolare l’attività di accertamento ex art. 38, comma 4, del D. P. R.   n.   600/1973  a parametri, preventivamente determinati dal Ministero, che fossero contenuti in un apposito decreto ministeriale”, stabilendo che  “gli  elementi  e  le circostanze di  fatto  certi  indicati  al  primo  capoverso  del  comma  4 dell’art. 38 possono trovare applicazione solo se ‘riconosciuti’ attraverso un decreto ministeriale ai sensi del secondo capoverso del  medesimo  comma 4, non potendo viceversa essere assunti aliunde”.     Per i contribuenti “la scelta del legislatore. Appare  sostenuta  da una  logica  incontestabile  atteso  che,  vincolando  i   parametri   alla determinazione  preventiva  del  Ministero,  ha  di  fatto  sottratto  alla discrezionalità degli uffici la loro elaborazione, eliminando in radice  il rischio di incostituzionalità della norma (a livello locale,  infatti,  gli uffici avrebbero potuto scegliere in piena  autonomia  parametri  fra  loro confliggenti che avrebbero potuto  cosi  determinare  una  regolamentazione disomogenea e contraddittoria di fattispecie analoghe)”: di conseguenza “se la problematica  connessa  ai  parametri  utilizzati  dall’ufficio  non  va risolta in termini di retroattività o meno  dei  decreti  ministeriali  del 1992 (come questa Suprema Corte ha affermato nella sentenza n.   2510/2000),. La stessa problematica non può neppure essere risolta considerando  sic et simpliciter la mera oggettiva attitudine indiziaria di  detti  parametri (ai sensi dell’art. 38, comma 4, 1° capocerso,  del  D. P. R.   n.   600/1973), atteso che per espressa ed inequivoca disposizione normativa quei parametri sono stati dichiarati applicabili dal legislatore  solo  se  ed  in  quanto cristallizzati in un decreto ministeriale (art. 38, comma 4, 2°  capoverso, del D. P. R. N. 600/1973)”.     In conclusione, a giudizio  dei  coniugi  G. C.   e  P. F. ,  “l’avviso  di accertamento deve considerarsi nullo per violazione  dell’art.   38  citato” perché “i parametri utilizzati non erano stati (ancora) riconosciuti in  un decreto ministeriale  (anche  perché  nell’anno  1989  il  Ministero  aveva dettato altri e diversi parametri con i DD. MM. 21 luglio 1983, 13  dicembre 1984, 17 novembre 1986, 7 aprile 1989)”.     Il motivo va disatteso siccome sfornito di pregio.     Sul problema posto dallo stesso, invero,  in  carenza  di  qualsivoglia convincente argomentazione contraria (che non si rinviene nelle  riprodotte considerazioni  svolte  dai  contribuenti),  va  ribadito   il   principio, reiteratamente affermato da questa sezione (Cass. , Sez. Trib. , 29 settembre 2005, n. 19017; Id. , Sez. Trib. , 24 settembre 2003,  n.   14161;  Id. ,  Sez. Trib. , 30 agosto 2002, n.   12731;  Id. ,  Sez.   trib. ,  11  settembre  2001, n.  11611 e n.  11607; Id. , Sez. Trib. , 4 settembre 2001, n. 11366; Id. , Sez. Trib. , 20 giugno  2001,  n.   8372;  Id. ,  Sez.   trib. ,  21  novembre  2000, n.  15045; Id. , Sez. Trib. , 23 ottobre 2000, n. 13972; Id. ,  Sez.   trib. ,  9 ottobre 2000, n. 13415; Id. , Sez. Trib. , 29 agosto  2000,  n.   11300;  Id. , Sez. Trib. , 6 marzo 2000, n. 2510), secondo il  quale  (excerpta  da  Cass. n.  11607/2001, citata) “il potere dell’ufficio  impositore  di  determinare sinteticamente il reddito sulla scorta di ‘elementi e circostanze di  fatto certi’, utilizzabili anche dal Ministro delle finanze per la fissazione  di coefficienti  presuntivi  ai  sensi  dell’art.   38,  comma  4,  del  D. P. R. N.  600/1973, consente il riferimento a ‘redditometri’ contenuti in  decreti ministeriali emanati successivamente al periodo  d’imposta  da  verificare, senza porre  problemi  di  retroattività,  poiché  il  potere  in  concreto disciplinato è quello di accertamento,  rispetto  al  quale  non  viene  ad incidere il momento dell’elaborazione”,  dovendosi  escludere,  anche  “con riguardo   ai   ‘redditometri’   successivi   alla   L.     n.     413/1991“, l’ipotizzabilità della violazione sia “della riserva di  legge  in  materia impositiva (art.   23  della  Costituzione)”  sia  “del  generale  principio d’irretroattività della legge (art. 11 delle disposizioni  sulla  legge  in generale)” in quanto “deve distinguersi fra  i  contenuti  dell’obbligo  di dichiarazione del contribuente, in realtà innovati dall’art. 1 legge citata attraverso la modifica dell’art. 2, comma 2,  del  D. P. R.   n.   600/1973,  e l’individuazione  di   ulteriori   elementi   indicativi   della   capacità contributiva”  atteso  che  “l’obbligo  del   contribuente,   appositamente sanzionato (artt. 46 e seguenti del D. P. R. N. 600/1973 citato), è quello di presentare una dichiarazione corretta e fedele, rispetto a cui il potere di rettifica in via sintetica dell’ufficio risulta normativamente limitato dal riferimento ad elementi e circostanze di fatto certi; e sono questi  ultimi che,  come  ‘possono’  essere  considerati  dai  decreti  ministeriali  per ricavarne coefficienti presuntivi di  redditività,  cosi  ‘possono’  essere tenuti presenti dall’ufficio impositore, in un contesto  normativo  che  si rivela, per l’aspetto in esame, in realtà immutato”,  il  tutto  “sotto  il profilo probatorio, con salvezza per il contribuente di  offrire  la  prova del contrario, anche limitatamente al quantum”.     Da tanto discende l’assoluta irrilevanza  dell’osservazione  conclusiva dei coniugi G. C. E P. F. Secondo la quale  “l’avviso  di  accertamento  deve considerarsi nullo per violazione dell’art. 38 citato” poiché “i  parametri utilizzati non erano stati (ancora) riconosciuti in un decreto ministeriale (anche perché nell’anno 1989 il Ministero aveva  dettato  altri  e  diversi parametri con i DD. MM. 21 luglio 1983, 13 dicembre 1984, 17 novembre  1986, 7 aprile 1989)” atteso 1) che l’inesistenza, al  momento  di  presentazione della dichiarazione dei redditi, degli elementi  indicati  negli  specifici decreti ministeriali utilizzati per la verifica  di  quella  dichiarazione, come detto,  non  influisce  sul  dovere  del  contribuente  di  presentare comunque una dichiarazione completa e fedele dei propri redditi e 2) che la preventiva determinazione dei “parametri” nei decreti ministeriali, pretesa dai contribuenti, deve essere riferita  al  momento  della  verifica  della dichiarazione da parte dell’ufficio e non già all’anteriore  momento  della compilazione  e/o  presentazione,  da   parte   del   contribuente,   della dichiarazione verificata.     4. Con il terzo motivo di ricorso i coniugi G. C. E P. F. –  premesso  1) che in base al comma 4 dell’art. 38 del D. P. R. N. 600 del  1973  “l’ufficio impositore, prima di procedere ad applicare i  parametri  dell’accertamento sintetico,  aveva  l’obbligo  di  verificare   analiticamente   i   redditi dichiarati dai ricorrenti e, solo nel caso in cui  il  reddito  determinato analiticamente non fosse risultato congruo nei confronti dei  parametri  di cui all’art. 38  del  D. P. R.   n.   600/1973,  avrebbe  potuto  procedere  ad accertare sinteticamente il reddito [di essi] G. C. E P. F. , come  lo  stesso Ministero delle finanze con la circolare n.   7/14962  del  30  aprile  1977 capitolo 4 paragrafo 28. Aveva espressamente dichiarato” e  2)  che  “il rilievo. Si spiega in considerazione degli effetti particolarmente gravi che si riversano in capo ai contribuenti nel momento  in  cui  la  Pubblica Amministrazione decide di  accertare  sinteticamente  (anziché  in  maniera analitica) i redditi dichiarati” [“. Esempio: se il  contribuente  avesse omesso di dichiarare un reddito di  lavoro  autonomo  e  se  l’importo  del reddito non dichiarato fosse stato tale da coprire integralmente il reddito sinteticamente  accertabile  in  funzione  dei  cosiddetti   ‘beni-indice’, l’ufficio si sarebbe dovuto limitare a notificare un accertamento analitico con la conseguenza che nella fattispecie  prospettata  nessun  recupero  ai fini Ilor sarebbe risultato possibile”] – lamentano, ancora, “nullità della sentenza  per  violazione/falsa  applicazione  dell’art.    38,   comma   4, D. P. R.  n.  600/1973 nel testo ante riforma ex L. n. 413/1991” adducendo  che “nella fattispecie. L’ufficio, senza alcuna  motivazione  ed  in  palese violazione  delle  direttive  ministeriali,  ha  proceduto   immediatamente all’accertamento sintetico, omettendo qualsivoglia indagine  analitica  dei redditi  dichiarati  dai  ricorrenti  tra  i   quali   figuravano   redditi dominicali,  redditi  agrari,  redditi  di   lavoro   dipendente,   redditi d’impresa, eccetera” mentre “il fatto stesso che [essi] ricorrenti  avevano entrambi  dichiarato  redditi  agrari  e  dominicali  (redditi  determinati forfettariamente ex lege) escludeva ex se la possibilità per  l’ufficio  di procedere ad accertamento  sintetico  (Cass.   n.   12528/1999;  Comm.   trib. Centr. n. 4423/1990) o, nella migliore delle ipotesi, imponeva  all’ufficio medesimo di riconoscere un reddito ‘esente’ pari ad almeno lire  10. 000. 000 in favore di ciascun coniuge ai sensi dell’art. 34 del D. P. R.   n.   633/1972 nel testo vigente negli anni 1989 e 1990. “.     Secondo i ricorrenti, quindi, la sentenza impugnata è errata “nel punto in cui ha ritenuto perfettamente legittima la pronuncia di primo  grado  e, per l’effetto, l’avviso di accertamento a suo tempo impugnato”.     La censura si palesa inammissibile per carenza di  concreta  rilevanza: l’esposizione della stessa, infatti, è del tutto incompleta  in  ordine  ai presupposti fattuali necessari per accertare la sua reale pregnanza.     I ricorrenti, infatti non spiegano in alcun modo quale conseguenza  più favorevole sarebbe  loro  derivata  dall'”indagine  analitica  dei  redditi dichiarati”  (“redditi  dominicali,  redditi  agrari,  redditi  di   lavoro dipendente, redditi d’impresa”) che assumono omessa dall’ufficio;  siffatta spiegazione si rivela indispensabile atteso che  la  non  rispondenza  agli indici  rivelatori  di   capacità   contributiva   previsti   dai   decreti ministeriali (cosiddetti parametri) – sulla quale non rispondenza è fondata l’accertamento impugnato – è stata, come è  pacifico,  dedotta  proprio  ed unicamente dal raffronto di tali indici  con  i  “redditi  dichiarati”  dai contribuenti.     Questi,   in   particolare,   non   chiariscono   l’influenza,    sulla controversia, del fatto che i “redditi agrari e dominicali” siano stati  da essi “determinati forfettariamente ex  lege”:  in  proposito,  è  opportuno ricordare (Cass. , Sez. Trib. , 8 maggio 2003, n. 7005; Id. , Sez.   trib. ,  13 agosto 2002, n. 12192; Id. , Sez. I, 27 ottobre 1995, n. 11223) che:         ai sensi  dell’art.   38  del  D. P. R.   29  settembre  1973,  n.   600, l’Amministrazione delle finanze può  legittimamente  procedere  con  metodo sintetico (in applicazione dei DD. MM. 10 settembre 1992 e 19 novembre 1992) alla rettifica della dichiarazione dei  redditi  anche  di  un  coltivatore diretto, pur se comprensiva del solo  reddito  agrario  del  fondo  da  lui condotto, quando – da  elementi  estranei  alla  configurazione  reddituale prospettata dal contribuente (nella specie esaminata  nella  pronuncia  più recente, la proprietà di un’autovettura e di un appartamento) e,  comunque, qualora il reddito accertabile si discosti di almeno un  quarto  da  quello dichiarato, ai sensi del comma 4 del detto art. 38 – si possa  fondatamente presumere  che  ulteriori  redditi  concorrano   a   formare   l’imponibile complessivo;        è fatta comunque salva la facoltà del contribuente di dimostrare,  a norma del comma 6 dell’art. 38, che  il  reddito  accertato,  maggiore  del reddito  fondiario  dichiarato  –  determinato  sulla  base  della  rendita catastale, e quindi in ipotesi anche inferiore a quello effettivo –  deriva dalla sfruttamento del  fondo  e  non  è  pertanto  soggetto  ad  ulteriore imposizione.       La mancata indicazione (oltre che prova) delle  conseguenze,  idonee  a dimostrare il “possesso” di “redditi esenti” e/o  di  “redditi  soggetti  a ritenuta alla fonte a titolo di imposta” di cui al comma  6  dell’art.   38, derivanti  dalla  utilizzazione  di  fondi  i  cui   redditi   sono   stati “determinati forfettariamente ex lege”,  conferma  la  evidenziata  carenza espositiva circa la rilevanza del motivo di ricorso: anche  il  giudice  di appello, ad esempio, ha sottolineato, sia pure per diverso contesto, che il “reddito imponibile” dei fabbricati “può .   variare  in  base  al  reale utilizzo delle singole unità abitative”.     5. Con il quarto motivo i contribuenti  –  assumendo  che  la  sentenza impugnata ha rigettato  il  loro  appello  limitandosi  “ad  analizzare  la posizione e le disponibilità della. I. T. Ed obliando contestualmente di  analizzare  tutte  le  altre   disponibilità   reddituali   debitamente comprovate”,  come  da  essi  “documentalmente  provato”  (“nella   sezione dell’appello dedicata al ‘merito'”),  ovverosia,  “senza  tener  conto  dei prelievi (e degli interessi maturati) effettuati  sui  libretti  e/o  conti correnti intestati ai figli C. Anna e  Michele”,  della  disponibilità  “in capo al nucleo familiare ‘C. ‘” di “a) due  pensioni  per  complessive  lire 7. 148. 230 annue  intestate  a  I. T.  . ;  b)  interessi  attivi  per  lire 1. 568. 536 maturati sul libretto n. 2155, intestato a G. C. , aperto presso la. , Agenzia di San Costanzo. ” nonché del  fatto  che,  “sempre  per  lo stesso periodo (anno 1990)”, il “nucleo familiare C. ” aveva “prelevato  sul libretto n. 2177 intestato a G. C. , acceso presso la . ,  Agenzia  di  San Costanzo, la somma complessiva di 98. 967. 433. ” e “maturato sui  libretti n. 1177, 2155, 3450 e 3451 interessi netti per lire 1. 566. 235. ” ed aveva avuto “a disposizione la somma di lire 109. 529. 039 a seguito di documentato disinvestimento effettuato dai figli C. Anna e  Michele”  –  lamentano,  ex art. 360, n. 5), del codice di procedura civile,  “nullità  della  sentenza per omessa, contraddittoria e/o insufficiente motivazione  circa  un  punto decisivo della controversia” adducendo che “la motivazione .   appare  in parte contraddittoria e in parte omessa” in quanto:         – “il capo di sentenza” relativo alla “esclusione di I. T. Dal nucleo familiare  C. “,  “con  consequenziale  esclusione  delle  pensioni  e   del disinvestimento dalla stessa percepiti”,  è  frutto  di  “gravi  errori  ed omissioni” atteso che:           1) pur emergendo “dal certificato di famiglia storico intestato  a I. T. Che nell’anno 1989 la stessa risiedeva in San Costanzo Via.   n. 8, mentre dal certificato di famiglia storico intestato  al .   G. C.  . Emergeva che nello stesso periodo il nucleo familiare C. (padre, madre e  i due figli) era residente in San Costanzo Via.   n.   10”,  “dalla  perizia giurata a firma geom. T.  . ,  mai  contestata  da  controparte,  emergeva chiaramente che a far data [del]l’otto settembre 1973 nella Via. Di  San Costanzo esisteva, e tuttora esiste, un  unico  immobile  avente  i  numeri civici 8, 10 e 12 caratterizzato dal fatto di essere sempre stato  un’unica unità abitativa, con tre numeri civici, senza  separazione  tra  i  diversi piani che la componevano. ”  per  cui  “alla  luce  della  documentazione prodotta e di quanto specificato  alle  pagine  3  e  4  dell’appello, . Appariva evidente che. I. T. Conviveva  con  la  famiglia  C. “,  “con  la conseguenza che la stessa “doveva essere considerata a  tutti  gli  effetti come membro della famiglia C. ” ed i suoi redditi “imputabili”  alla  stessa famiglia;          2) esso G. C. “non ha mai concesso alla. I. T. L’immobile di  mq. 160” [“ne risulta essere mai stata fatta una  dichiarazione  avente  questo contenuto (né nella risposta al Modello 55 Sintetico, né  nel  ricorso,  né nell’appello, eccetera)]” perché la I. T. “ha convissuto” in detto  immobile “sino al giorno della sua morte, avvenuta  in  data  30  dicembre  1997,  e comunque sino a tutto il 31 dicembre 1990” per cui (“va da sé”) i  “redditi dichiarati dalla.   I. T.   pari  a  lire  7. 148. 230 .   dovevano  essere considerati “a disposizione” del nucleo familiare  C. ,  differentemente  da quanto affermato dalla sentenza impugnata,  con  la  conseguenza  di  dover ridurre dello stesso importo il reddito sinteticamente accertato”;         – “in relazione alle somme  comprovate  essere  a  disposizione  del nucleo familiare C. ” (“interessi per lire 1. 568. 536 maturati  sul  libretto n.  2155”; “prelievi sul libretto n. 1177 per lire  98. 967. 433”;  “interessi netti maturati su n. 4 libretti per lire 1. 566. 235”;  “disinvestimento  per complessive  lire  107. 529. 033 . “),  la  sentenza   impugnata   non   ha considerato che “le somme di cui sopra. Fossero non solo documentalmente comprovate, ma anche tutte riconducibili al nucleo familiare C. Sulla  base dei documenti. Ed in forza delle richiamate circolari n. 7/14962 del  30 aprile 1977 e n. 101 del 30 aprile 1999″, per  cui  “emerge .   in  tutta evidenza l’omesso esame dei documenti” il quale “non configura un error  in procedendo del giudice, ma un vizio di motivazione censurabile in  sede  di legittimità allorquando, come nella  fattispecie . ,  concerna  un  punto decisivo della controversia” considerato che  il  giudice  di  appello,  se avesse esaminato “il materiale probatorio” prodotto da essi contribuenti  e “non contestato dall’ufficio”, sarebbe giunto “con assoluta certezza ad una pronuncia di riforma della sentenza  emessa  dalla  Commissione  tributaria provinciale  di  Pesaro  n.   299/01/99  (con  consequenziale   annullamento dell’avviso di accertamento)” spiccando, “tra  le  somme  documentate”,  un “disinvestimento di lire 107. 529. 033 operato da .   C.   Anna  e  Michele, figli conviventi” che  era  “di  per  sé  idoneo  non  solo  a  determinare l’annullamento dell’accertamento emesso per l’anno  1990 .   ma  anche  a determinare l’annullamento dell’accertamento emesso  per  l’anno  1989 . Atteso che sarebbe venuto a cadere il presupposto ex art. 38, comma 4,  del D. P. R.   n.   600/1973  in  base  al  quale  l’accertamento  sintetico   deve coinvolgere due o più annualità”.       La doglianza svolta nel motivo non ha pregio e, pertanto,  deve  essere disattesa.     A. Il sesto (già quarto) comma dell’art. 38  del  D. P. R.   29  settembre 1973, n. 600, come noto, dispone  (specificamente  in  tema  di  “rettifica delle dichiarazioni delle  persone  fisiche”)  che  “il  contribuente”,  in ipotesi (quale quella oggetto  del  presente  giudizio)  di  determinazione sintetica del reddito complessivo netto in base ai coefficienti  presuntivi previsti dai decreti ministeriali “a tal  fine”  emanati,  “ha  facoltà  di dimostrare, anche  prima  della  notificazione  dell’accertamento,  che  il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito  in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti  a  ritenuta  alla fonte a titolo d’imposta” ed aggiunge che “l’entità di tali  redditi  e  la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.     B. La norma non contiene nessuna indicazione in ordine alla  titolarità soggettiva dei “redditi esenti” e/o di quelli  “soggetti  a  ritenuta  alla fonte a titolo d’imposta” considerati idonei dal legislatore  ad  integrare il reddito dichiarato al fine di escludere e/o di limitare l’ammontare  del reddito sinteticamente accertato dall’ufficio in base agli appositi indici; la stessa, però, richiede che il contribuente che li opponga dia  la  prova del “possesso” di detti redditi da parte sua con  “idonea  documentazione”, per  cui  è  necessaria  la  dimostrazione  documentale  non   solo   della sussistenza (con la relativa entità) degli specifici redditi suindicati  ma anche del loro “possesso” da parte dello stesso contribuente.     In tale contesto si  comprende  perché  la  circolare  ministeriale  30 aprile 1999, n. 101, invocata dai contribuenti, richiami l’attenzione degli uffici sulla “necessità di procedere sempre ad un esame  complessivo  della posizione reddituale dell’intero nucleo familiare del contribuente, essendo evidente  come  frequentemente  gli   elementi   indicatori   di   capacità contributiva rilevanti ai fini dell’accertamento sintetico possano  trovare spiegazione nei redditi posseduti da altri componenti il nucleo familiare”: nella circolare n. 7 del  30  aprile  1977,  anche  questa  richiamata  dai ricorrenti, emessa in seguito all’entrata in vigore della  L.   12  novembre 1976, n. 751 (prevedente la tassazione separata dei redditi dei  coniugi  e dei figli minori conviventi imputabili ai genitori), il concetto di “nucleo familiare” è, sempre, ovviamente semplificato con  stretto  riferimento  al “coniuge non legalmente ed  effettivamente  separato”,  al  “figlio  minore possessore di redditi della specie indicata nel comma 2 dell’art.   324  del codice civile”,  cioè  al  concetto  di  nucleo  familiare  naturale  quale costituito, appunto, tra coniugi conviventi e  figli,  soprattutto  minori, potendosi agevolmente presumere, in tal caso, in base all’id quod plerumque accidit,  il  concorso  alla  produzione  del  reddito   (quand’anche   non necessariamente proporzionale) di quei soggetti (e solo di quelli)  perché, come spiega  la  circolare,  “frequentemente  gli  elementi  indicativi  di capacità contributiva rilevanti ai fini dell’accertamento sintetico possano trovare spiegazione nei redditi posseduti da  altri  componenti  il  nucleo familiare”.     Il richiamo a tale “nucleo” contenuto nelle circolari  esaminate  trova evidente fondamento  nel  legame  che  lega  le  persone  indicate  che  lo compongono e non già soltanto nella loro  convivenza:  neppure  in  base  a quelle circolari (per qual sia la forza giuridica  delle  stesse),  quindi, può sostenersi –  ai  fini  di  contrastare  l’accertamento  sintetico  del reddito  proprio  legittimamente  operato  dall’ufficio  in  base   a   non contestati indici rivelatori di maggiore capacità  contributiva  –  che  il possesso di redditi altrui possa essere desunto dalla mera convivenza di un parente diverso, estraneo al detto nucleo, ovvero (come si  pretende  nella specie) di un affine di G. C. In quanto in tal caso non sussiste affatto  la presunzione detta.     Per effetto delle considerazioni che precedono la questione, posta  dal motivo in esame, della prova della convivenza (all’epoca dei  fatti)  della signora I. T. (suocera di G. C. )  è  del  tutto  priva  di  rilevanza  perché (frustra probatur quod probatum non  relevet)  tal  fatto  non  costituisce prova,  né  presuntiva  né  indiziaria  (comunque  non  documentale),   del “possesso” (richiesto dalla norma) dei redditi della stessa  da  parte  del genero: di conseguenza i redditi percepiti da I. T. E le somme dalla  stessa prelevate da propri conti sono del tutto irrilevanti ai  fini  della  prova documentale  (“idonea  documentazione”)  necessaria   per   dimostrare   la congruità del reddito dichiarato dai coniugi ricorrenti rispetto  a  quello determinato dall’ufficio in base ai parametri.     C. Vanamente, infine ed ancora, i ricorrenti si dolgono  della  mancata considerazione, da parte del giudice del merito, al fine probatorio  detto, dei prelievi operati da G. C. Su propri  conti  e/o  degli  interessi  dallo stesso percepiti  o,  ancora,  del  “disinvestimento  di  lire  107. 529. 033 operato da. C. Anna e Michele, figli conviventi” atteso che  alle  somme relative, per quanto esposto in ricorso in ordine alla fonte delle  stesse, non può essere riconosciuta natura propriamente reddituale.     Il riprodotto sesto comma dell’art. 38 della D. P. R. N.   600  del  1973, invero, va letto in stretta correlazione con il precedente, avente evidente ed  innegabile  funzione  antievasiva,  atteso  che  gli  indici   che   il legislatore ha demandato all’allora Ministro delle finanze  di  individuare sono, per presunzione semplice di legge (cfr. , Cass. , Sez.   I,  29  gennaio 1996, n. 656), rivelatori di una maggiore capacità contributiva, quindi  di redditi non dichiarati dal contribuente: di  conseguenza,  il  legislatore, con la norma  del  comma  6,  ha  dato  al  contribuente  la  “facoltà”  di contrastare il risultato derivante dall’applicazione di  detti  indici  nei suoi confronti soltanto con la “idonea” prova documentale del fatto che “il maggior reddito determinato. Sinteticamente è costituito in tutto  o  in parte da redditi esenti o da redditi  soggetti  a  ritenuta  alla  fonte  a titolo d’imposta”.     Nel caso i ricorrenti – i quali non hanno contestato il possesso  degli elementi rivelatori indicati dall’ufficio – non hanno neppure allegato  che i prelievi effettuati da G. C. Su propri conti e/o che gli  interessi  dallo stesso percepiti od che il “disinvestimento di lire 107. 529. 033 operato  da. C. Anna e Michele, figli conviventi” (addotti a confutare  la  maggiore sua  capacità  contributiva  determinata  in  base  agli  indici   da   lui dichiarati) appartenessero, in tutto od in  parte,  a  redditi  del  genere indicato dal legislatore e/o, comunque, a redditi di tal natura  dichiarati dai componenti il proprio nucleo familiare, come innanzi individuato:  ogni altro reddito, se non dichiarato, se non esente o se non già assoggettato a ritenuta alla fonte a titolo di imposta è reddito evaso.     6. Con il quinto (riportato al n. 6 del ricorso)  ed  ultimo  motivo  i contribuenti,  “in  via  meramente  subordinata”,  chiedono  che   “vengano rideterminate le sanzioni a suo tempo applicate in ragione  del  cosiddetto cumulo giuridico ai sensi dell’art. 12 del D. Lgs. N. 472/1997 ed  ai  sensi del D. Lgs. N. 471/1997, in quanto più favorevole, anche  in  considerazione dell’accertamento relativo all’anno 1990″.     La richiesta deve essere respinta perché  la  domanda  rideterminazione delle sanzioni) in esso contenuta è inammissibile.     La retroattività  dell’applicazione  della  sanzione  meno  grave,  più favorevole al trasgressore – prevista dal comma 3 dell’art. 3 del D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (principio del favor rei) per il quale “se  la  legge in vigore al momento in cui è stata  commessa  la  violazione  e  le  leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole,  salvo  che  il  provvedimento  di  irrogazione  sia   divenuto definitivo” -, reiteratamente affermata da questa Corte (Cass. , Sez. Trib. , 13 giugno 2005, n. 12678; Id. , 10 marzo 2005, n. 5268; Id. , Sez.   trib. ,  6 agosto 2002, n. 11827; Id. , Sez. Trib. , 12 marzo 2002,  n.   3542),  invero, richiede la necessaria condizione che il provvedimento di irrogazione della sanzione non sia divenuto definitivo: discende da tanto (Cass. , Sez. Trib. , 21 dicembre 2005, n. 28354) che anche il cumulo  giuridico  delle  sanzioni previsto dall’art.   12  del  decreto  legislativo  citato  non  può  essere richiesto per la prima volta in cassazione ma deve essere stato dedotto nel corso del giudizio di merito.

Nel caso i ricorrenti – pur essendo la norma più favorevole entrata  in vigore (ex art. 30 del medesimo decreto legislativo) il primo aprile  1998, quindi già nel corso del processo di primo grado (essendo stato il processo di appello trattato il 7 maggio 1999) – non hanno neppure dedotto di avere, appena sopravvenuta la norma favorevole, tempestivamente impugnato il punto dell’atto  impositivo  e/o  comunque  chiesto   al   giudice   del   merito l’applicazione del cumulo suddetto, né hanno  lamentato  un  qualche  vizio della sentenza qui gravata in ordine all’omesso  esame  ovvero  al  mancato accoglimento della loro richiesta di applicazione di tale cumulo.

L’istanza contenuta nel motivo in esame, pertanto, deve essere ritenuta nuova perché proposta per la prima volta  a  questa  Corte  e,  quindi,  in quanto tale, inammissibile.     7. Nessun provvedimento va adottato in ordine  al  carico  delle  spese processuali di  questo  giudizio  di  legittimità,  nonostante  l’integrale reiezione  del  ricorso,  atteso  che  il  Ministero  e  l’ufficio   locale dell’Agenzia delle Entrate, intimati,  non  si  sono  costituiti  né  hanno svolto attività difensiva.

P. Q. M. – la Corte rigetta il ricorso.

公司出资的非货币形式

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张先生来访:董律师,您好!我是一名在意大利生活多年的华侨,最近我从一家意大利公司手中购买了一个专利,我能否以此作为出资在中国设立一个有限责任公司?如果可以,您能否给我介绍相关的情况?

           董丽芳律师信箱:公司出资的非货币形式

张先生来访:董律师,您好!我是一名在意大利生活多年的华侨,最近我从一家意大利公司手中购买了一个专利,我能否以此作为出资在中国设立一个有限责任公司?如果可以,您能否给我介绍相关的情况?

董律师:张先生,您好! 为了实现中国的产业升级,中国政府非常重视技术的引进,因此也在法律法规上有一定的支持,用知识产权出资是非常明智的选择。 依据中国现行公司法的有关规定,除法律、行政法规规定不得作为出资的财产除外,有限责任公司的股东既可以用货币出资,也可以用实物、知识产权、土地使用权等可以用货币估价并可以依法转让的非货币财产作价出资,其中的知识产权就包括您所提及的专利。因此,只要您的专利满足以下几个条件,即专利可以用货币估价、专利可以依法转让、符合法律的相关规定,那么您就可以用您的专利履行出资。 值得注意的是,以专利等非货币财产出资时,需要对作为出资的非货币财产评估作价,核实财产,且不得高估或者低估作价。当法律、行政法规对评估作价有规定时,要遵守相关的规定。此外,以非货币财产出资的,出资人还应当依法办理其财产权的转移手续。以非货币形式出资的股东应严格遵守上述程序,否则可能会被视为未履行出资,进而丧失自己的股东权利,甚至承担相应的法律责任。 关于非货币形式出资,2011年2月16日生效的《最高人民法院关于适用〈中华人民共和国公司法〉若干问题的规定(三)》做了进一步的补充,该解释第9条规定,出资人以非货币财产出资,未依法评估作价,公司、其他股东或者公司债权人请求认定出资人未履行出资义务的,人民法院应当委托具有合法资格的评估机构对该财产评估作价。评估确定的价额显著低于公司章程所定价额的,人民法院应当认定出资人未依法全面履行出资义务。第10条规定,出资人以房屋、土地使用权或者需要办理权属登记的知识产权等财产出资,已经交付公司使用但未办理权属变更手续,公司、其他股东或者公司债权人主张认定出资人未履行出资义务的,人民法院应当责令当事人在指定的合理期间内办理权属变更手续;在前述期间内办理了权属变更手续的,人民法院应当认定其已经履行了出资义务;出资人主张自其实际交付财产给公司使用时享有相应股东权利的,人民法院应予支持。出资人以前款规定的财产出资,已经办理权属变更手续但未交付给公司使用,公司或者其他股东主张其向公司交付、并在实际交付之前不享有相应股东权利的,人民法院应予支持。 注:上述内容仅作为参考信息使用,不得视为本所对任何事项的法律意见。如果您对此事还有其他问题,请您与本所联系,我们会及时提供全方面的法律咨询和服务。       

Rubrica Legale dell’Avv. Lifang Dong: il Conferimento Societario con Beni non Monetari

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Signor Zhang: Buongiorno, Avvocato Dong! Sono un cinese residente in Italia da tanti anni. Di recente ho comprato un brevetto da una società italiana e vorrei costituire una società a responsabilità limitata in Cina.

Posso effettuare i conferimenti con questo brevetto? Se si, potrebbe fornirmi una piccola spiegazione introduttiva?

Rubrica Legale dell’Avv. Lifang Dong: il Conferimento Societario con Beni non Monetari Signor Zhang:

Avv. Dong: Buongiorno, Signor Zhang! Per realizzare la promozione dell’industria cinese, il governo cinese pone una grande attenzione alla valorizzazione della tecnologia, e, pertanto, alla creazione di riferimenti giuridici idonei.

Infatti, secondo il diritto societario cinese attuale, i soci possono effettuare i conferimenti in danaro, in natura o sotto forma di proprietà intellettuale, di diritto d’uso della terra o sotto forma di altri beni non monetari, il cui valore possa essere stimato in danaro.

Tali conferimenti potranno essere trasferiti secondo quanto previsto dalla legge, salvo che leggi o regolamenti amministrativi stabiliscano che non possano valere come conferimento di capitale.

Il brevetto da Lei menzionato è compreso all’interno di tale casistica, purché soddisfi i seguenti requisiti:

a) il brevetto deve essere stimabile in danaro;

b) il brevetto deve essere trasferito legalmente;

c) il brevetto, affinché sia effettuato conferimento, deve essere legale.

Si ricordi che, dei beni non in danaro oggetto di conferimento deve farsi stima e verifica, considerando che questi non debbano essere stimati né in eccesso né difetto.

Qualora leggi o regolamenti amministrativi contengano disposizioni sulla stima del valore, si applica quanto da essi previsto e si dovranno, inoltre, espletare le procedure di trasferimento dei diritti di proprietà secondo legge.

Comunque, in caso di conferimenti non in danaro, i soci dovranno fare attenzione a tali norme, altrimenti potrebbero perdere il proprio titolo di soci, assumendo persino delle responsabilità. Per quanto riguarda il conferimento con beni non monetari, il 16 febbraio 2011, sono state emanate disposizioni supplementari con il Terzo Regolamento Sul Diritto Societario della Repubblica Popolare Cinese della Suprema Corte.

L’articolo 9 di tale Regolamento dispone che, in caso di conferimento non in danaro, se non si verifichi la stima secondo la legge, la società, gli altri soci o il creditore della società, dovranno adire il Tribunale Popolare affinchè si attesti che i soci non abbiano effettuato i conferimenti, e, a sua volta, il Tribunale Popolare dovrà affidare ad una società qualificata la stima dei beni conferiti.

Se la stima è palesemente inferiore a quanto stabilito dallo statuto, il Tribunale Popolare dichiarerà che il socio non ha effettuato completamente il conferimento.

L’articolo 10 dispone, inoltre, che in caso di conferimento di diritti d’uso d’immobile o altri diritti intellettuali aventi necessità d’iscrizione di diritto, se essi sono conferiti alla società da utilizzarli senza effettuare le procedure di trasferimento di diritto, il Tribunale Popolare ordinerà all’interessato di effettuare il trasferimento del diritto entro un periodo determinato, qualora la società, gli altri soci o i creditori della società adiscano il Tribunale Popolare per denunciare il mancato conferimento.

Se in questo stesso periodo indicato, i soci verifichino che, invece, il trasferimento è avvenuto, il Tribunale Popolare accerterà il dovere di conferimento.

Qualora il socio ripeta il suo diritto di socio dal momento in cui i beni sono stati conferiti alla società, il Tribunale Popolare dovrà supportarlo.

Se, invece, i soci abbiano effettuato la procedura di trasferimento di diritto senza conferire i beni alla società di fatto, il Tribunale Popolare dovrà confermare la richiesta della società o degli gli altri soci a cui il conferente deve consegnare i beni.

Il socio non avrà diritto fino a quando i beni non verranno consegnati alla società.

Nota: il contenuto di questo articolo non costituisce un parere del nostro studio legale, ma ha funzione informativa. Se Lei ha altri dubbi, ci può contattare per ulteriori informazioni ed assistenza legale.

国际商标申请延伸到欧盟的异议

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李先生来访:董丽芳律师,您好!我是名温州商人。1990年,我创办了一家制鞋厂。2006年,我在意大利罗马创办了一家公司,并在罗马、米兰等城市陆续设立了几家连锁店。我们公司的商标已在中国和意大利进行了注册。随着业务的不断扩大,我想把2006年在意大利注册的商标通过国际商标延伸的方式,延伸到法国、德国、西班牙和俄罗斯,打算再开几家分店。2010年12月,我的商标延伸到了欧盟国家和俄罗斯联邦,注册类别为第25(鞋)类。但2011年10月1日,我收到世界知识产权组织(WIPO)的通知,有一家西班牙公司对我商标延伸到欧盟国家提出了异议,理由是该公司已于1989年在25类产品上(鞋、帽、衣服)注册了相同的商标。请问现在我该怎么办呢?

董丽芳律师信箱:国际商标申请延伸到欧盟的异议

李先生来访:董丽芳律师,您好!我是名温州商人。1990年,我创办了一家制鞋厂。2006年,我在意大利罗马创办了一家公司,并在罗马、米兰等城市陆续设立了几家连锁店。我们公司的商标已在中国和意大利进行了注册。随着业务的不断扩大,我想把2006年在意大利注册的商标通过国际商标延伸的方式,延伸到法国、德国、西班牙和俄罗斯,打算再开几家分店。2010年12月,我的商标延伸到了欧盟国家和俄罗斯联邦,注册类别为第25(鞋)类。但2011年10月1日,我收到世界知识产权组织(WIPO)的通知,有一家西班牙公司对我商标延伸到欧盟国家提出了异议,理由是该公司已于1989年在25类产品上(鞋、帽、衣服)注册了相同的商标。请问现在我该怎么办呢?

董丽芳律师:李先生,您好!根据您说的情况,2009年颁布的欧盟第207号指令有相关规定。您可以提出反驳意见,以此来确定商标使用权的归属。

李先生:在您看来,我有赢的希望吗?

董丽芳律师:我认为您获胜的机会较小。因为在本案中,对方的注册行为早于您,而且还是在同类别产品上(第25类)。

李先生:对于我的这种情况,您有什么建议?

董丽芳律师:我们建议您利用两个月的异议期(cooling off),试着与对方协商,争取达成合解,以避免因败诉而支付更多的费用。

李先生:如果异议期过去了,我还能跟对方进行协商么?

董丽芳律师:您2011年10月1日收到世界知识产权组织的通知,因此还有约一个月的时间,在此阶段您可以跟对方沟通和协商。我建议您给予对方一定的补偿,来换取对争议商标的共同使用权。毕竟您的产品只是鞋,而对方生产的则主要是服装。

注:上述内容仅作为参考信息使用,不得视为本所对任何事项的法律意见。如果您对此事还有其他问题,请您与本所联系,我们会及时提供全方面的法律咨询和服务。

Rubrica Legale dell’Avv. Dong: Opposizione ad una domanda di Marchio Internazionale con designazione Comunità Europea

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Rubrica Legale dell'Avv. Dong: Opposizione ad una domanda di Marchio Internazionale con designazione Comunità Europea

Sig. Li: Buongiorno Avv. Dong! Sono titolare di una fabbrica di calzature a Wenzhou fondata nel 1990.

Nel 2006 ho costituito una società a Roma e ho poi aperto una catena di negozi a Roma, Milano ed altre città italiane.

Sono già titolare di un marchio nazionale registrato in Cina e in Italia.

Con l’aumentare del volume di affari, vorrei aprire negozi in Francia, Germania, Spagna e Federazione Russa, utilizzando il marchio che ho già protetto in Italia dal 2006.

In data dicembre 2010 ho presentato domanda di registrazione del mio marchio internazionale con designazione Comunità Europea e Federazione Russa in classe 25 per calzature.

Tuttavia, il 1 ottobre 2011 ho ricevuto dalla OMPI (Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale) la notifica di un’opposizione contro il mio marchio internazionale con designazione Comunità Europea da parte di una Società spagnola che ha registrato già nel 1989 lo stesso marchio per la stessa classe 25 (calzature, abbigliamento e cappelli). Che cosa mi consiglia di fare?

Rubrica Legale dell’Avv. Dong: Opposizione ad una domanda di Marchio Internazionale con designazione Comunità Europea

Avv. Dong: Buongiorno Sig. Li! Quanto al suo caso, il Regolamento C. E. N. 207/2009 prevede la possibilità di un contraddittorio, attraverso il quale verrà stabilito chi tra Lei e l’opponente (la società spagnola) abbia diritto all’uso del marchio oggetto di contestazione.

Sig. Li: Secondo Lei, ci sono speranze che sia io a vincere il contraddittorio?

Avv. Dong: Ritengo che Lei abbia poche chance di vincere il contraddittorio, perché le è stata contestata la registrazione di un identico marchio, registrato prima del Suo, persino nella medesima classe merceologica, la n. 25.

Sig. Li: Quindi, cosa mi consiglia di fare?

Avv. Dong: Le consiglio di sfruttare il periodo di tempo di due mesi (cooling off), che decorre dalla notifica dell’opposizione per tentare di pervenire ad una soluzione consensuale con la controparte ed evitare così le spese che pagherebbe nel caso in cui soccombesse nel contraddittorio.

Sig. Li: Sono ancora nei termini per agire in tale periodo?

Avv. Dong: Lei ha ancora circa un mese di tempo per tentare di risolvere amichevolmente la controversia offrendo alla controparte un prezzo a titolo di indennizzo per la proposta di coesistenza del suo marchio con quello della società spagnola, dato che a Lei interessa solo la classe delle calzature, mentre la controparte produce e commercializza principalmente abbigliamento.

Nota: il contenuto di questo articolo non costituisce un parere del nostro studio legale, ma ha funzione informativa. Se Lei ha altri dubbi, ci può contattare per ulteriori informazioni ed assistenza legale.

签订涉外合同应当考虑的管辖问题

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刘先生来访:董丽芳律师,您好!我是中国福建一家贸易公司的经理,我最近关注您的法律文章,受益匪浅。我们公司经常要与国外的客户签订各种贸易和服务合同,您能详细讲解一下中国法律对于涉外合同的管辖问题吗?

董丽芳律师信箱:签订涉外合同应当考虑的管辖问题

刘先生来访:董丽芳律师,您好!我是中国福建一家贸易公司的经理,我最近关注您的法律文章,受益匪浅。我们公司经常要与国外的客户签订各种贸易和服务合同,您能详细讲解一下中国法律对于涉外合同的管辖问题吗?

董丽芳律师:刘先生,您好!您提的这个问题很重要,因为在涉外经济活动中,签订合同是必不可少的重要环节。像您这样经常签订涉外合同的专业人士,应当对签订涉外合同的非常注意,这样才能维护好贵公司的合法权益。

所谓涉外合同,是指具有涉外因素的合同,即合同的当事人、合同的客体或者产生、变更、终止合同关系的法律事实中任何一个具有涉外因素的合同。当合同当事人发生纠纷时,就要依据法律规定的管辖原则或者合同中约定的管辖条款来确定由什么地方的法院来管辖案件。有时因法院选择的不同可导致案件审理结果出现较大差别,因此在起草和签订涉外合同时,应当认真研究合同的性质和管辖的问题。

根据中国法律规定,对于涉外合同纠纷的管辖主要有以下几种:

1、属地管辖权原则,是指以当事人的住所地、居所地或事物的存在地等作为行使管辖权联系因素而形成的原则。

2、属人管辖权原则,是指以当事人的国籍作为行使管辖权而形成的原则。目前,大部分实行属地管辖权原则的国家为了维护本国公民的利益,也开始以属人原则作为补充。

3、应诉管辖原则,中国《民事诉讼法》第243条的规定,涉外民事诉讼的被告对人民法院管辖不提出异议,并应诉答辩的,视为承认该人民法院为有管辖权的法院。

    4、级别管辖原则,根据中国法律规定,基层法院可管辖一审普通涉外案件;中级法院管辖一审重大涉外案件;高级人民法院管辖在本辖区有重大影响的第一审民事案件;最高人民法院管辖:在全国有重大影响的案件和认为应当由本院审理的案件的第一审民事案件。

5、专属管辖原则,涉外民事诉讼中的专属管辖,是指特定的涉外民事案件的管辖权专属于中华人民共和国特定的法院。

    6、协议管辖原则,根据中国《民事诉讼法》第242条规定,涉外合同或者涉外财产权益纠纷的当事人,可以用书面协议选择与争议有实际联系的地点的法院管辖。选择中华人民共和国人民法院管辖的,不得违反本法关于级别管辖和专属管辖的规定。

    注:上述内容仅作为参考信息使用,不得视为本所对任何事项的法律意见。如果您对此事还有其他问题,请您与本所联系,我们会及时提供全方面的法律咨询和服务。

Associazione in partecipazione

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Associazione in partecipazione: nozione Cass. Sez. Lav. 22 nov. 2011, n. 24619

In tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice del merito, volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa (non immutabile dall’associante e non limitato alla perdita della retribuzione con salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro), il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato; tale accertamento, se adeguatamente e correttamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità.

Associazione in partecipazione: nozione Cass. Sez. Lav. 22 nov. 2011, n. 24619

In tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice del merito, volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa (non immutabile dall’associante e non limitato alla perdita della retribuzione con salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro), il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato; tale accertamento, se adeguatamente e correttamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità.

Nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione e, allo scopo della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel particolare contesto, significativo, occorre, a detti fini, far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.

Nota – Nell’ambito di un giudizio di opposizione a distinte cartelle esattoriali, il Tribunale del lavoro pronunciava sentenza di  accertamento di lavoro subordinato tra un centro sociale, che gestiva un bar all’interno di un locale circolo Arci, e alcuni lavoratori.

In particolare, dall’istruttoria svolta era emerso che la gestione del bar fosse curata, nel rispetto degli orari di apertura dell’esercizio al pubblico, stabiliti dal circolo, da tre dei quattro soggetti destinatari di un accertamento ispettivo, di cui uno di essi curava l’organizzazione dei turni di lavoro, delle ferie e le sostituzioni, gli altri due gestivano il servizio alla clientela e la riscossione delle relative consumazioni; il quarto soggetto effettuava tutti i giorni le pulizie del locale per alcune ore, nelle prime ore del mattino. Inoltre, era emerso che a fronte di attività lavorativa, inizialmente svolta “al nero”, solo dopo molto tempo fosse stato stipulato con alcuni dei suddetti soggetti addetti al bar contratti di associazione in partecipazione non genuini.

Anche la Corte d’Appello, successivamente adita dal centro sociale, confermava la sentenza di primo grado rilevando, in particolare, che rispetto ai due soggetti che avevano concluso contratti di associazione in partecipazione, questi ultimi avevano concordemente riferito:

a) di osservare un orario di lavoro rispettivamente di 40 ore e di 30 ore settimanali, secondo turni organizzati, in modo da “coprire” le fasce di apertura al pubblico dell’esercizio;

b) di andare al lavoro per cinque giorni settimanali, con continuità nel corso del rapporto;

c) di aver ricevuto sempre, anche dopo la tardiva formalizzazione del rapporto, un compenso fisso mensile;

d) di avere sempre svolto tutte e due compiti di vendita al pubblico, mentre la gestione della contabilità ed i rapporti con i fornitori, così come gli acquisti, erano gestiti direttamente dai responsabili del circolo;

e) di non aver mai visto un bilancio dell’associazione, né alcun rendiconto, nonostante che i contratti stipulati prevedessero, a fronte

dell’attività lavorativa prestata dagli associati, una percentuale sugli “utili” di gestione conseguiti nel periodo di durata dei rapporti;

f) di non aver mai avuto alcun conguaglio tra gli “acconti” sugli utili mensilmente ricevuti e gli effettivi risultati gestionali;

g) di avere ricevuto, a fine anno, comunicazione se c’erano state delle perdite e che, in questo caso, venivano fatte loro delle trattenute.

La Corte rilevava, altresì, che in un lavoro come quello in oggetto l’eterodirezione non aveva bisogno di particolari e variegate forme per

manifestarsi, trattandosi di un’attività assolutamente ripetitiva, che si muoveva secondo schemi organizzativi standardizzati, cosicché le direttive al personale addetto al bancobar potevano essere limitate all’essenziale, sostanziandosi le mansioni nello svolgimento delle operazioni consistenti nel servire alla clientela i prodotti e le bevande richiesti. In altri termini, nello specifico contesto, l’addetto al bancobar operava secondo un modello organizzativo etero imposto senza alcun margine di effettiva autonomia gestionale; le mansioni svolte dai pretesi associati erano state, dunque, connotate da assoluta ripetitività ed avevano avuto natura esecutiva (non essendo stato dimostrato e neppure dedotto che fossero liberi di lasciare “scoperti” i turni, di ordinare autonomamente la merce ecc. ).

Il centro sociale ricorreva, pertanto, per Cassazione, lamentando, tra l’altro, che la Corte territoriale avesse erroneamente valutato le risultanze probatorie ed erroneamente ritenuto, con riferimento alla posizione degli associati, che la mancanza di forma scritta del contratto associativo integrasse gli estremi di un rapporto di lavoro subordinato “in nero”.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso conformandosi all’orientamento consolidato di legittimità secondo il quale in tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice del merito, volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa (non immutabile dall’associante e non limitato alla perdita della retribuzione con salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro), il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato; tale accertamento, se adeguatamente e correttamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità (cfr. , ex plurimis, Cass. , nn. 9671/1991; 9611/1996; 655/1999; 8578/1999; 290/2000; 1188/2000; 13036/2000; 2693/2001; 8162/2001; 12643/ 2003; 13013/2003; 8465/2007; 24871/2008).

Più in particolare, è stato, altresì, rilevato che “tale accertamento implica necessariamente una valutazione complessiva e comparativa dell’assetto negoziale, quale voluto dalle parti e quale in concreto posto in essere, e la possibilità che l’apporto della prestazione lavorativa dell’associato abbia connotazioni in tutto analoghe a quelle dell’espletamento di una prestazione lavorativa in regime di lavoro subordinato comporta che il fulcro dell’indagine si sposta sulla verifica dell’autenticità del rapporto di associazione; ove la prestazione lavorativa sia inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favore accordato dall’art. 35 Cost. Che tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (cfr. Cass. , n. 24781/2006).

Applicando i suddetti principi al caso di specie, secondo la Suprema Corte la sentenza impugnata ha fornito adeguato e coerente rilievo alle risultanze probatorie che, nel descritto contesto complessivo dei rapporti de quibus, inducevano a ritenere l’insussistenza dei dedotti rapporti di associazione in partecipazione. Palesemente insussistente è secondo la Corte di Cassazione anche la pretesa violazione del principio dell’onere della prova, ritenendo che la Corte d’Appello avesse correttamente giudicato in base al criterio dell’acquisizione delle prove, in forza del quale il Giudice è libero di formare il suo convincimento sulla base di tutte le risultanze istruttorie, quale che sia la parte ad iniziativa della quale sia avvenuto il loro ingresso nel giudizio (cfr. , ex plurimis, Cass. , nn. 5126/2000; 2285/2006; 25028/2008; 739/2010), valutando il complesso delle emergenze processuali acquisite e indicando, al contempo, le lacune probatorie in ordine alle risultanze che avrebbero dovuto corroborare l’eccezione relativa alla sussistenza di rapporti di associazione in partecipazione.

Più specificamente la Corte di Cassazione ha osservato che:

– la subordinazione può manifestarsi in vari modi, anche implicitamente nelle direttive programmatiche coincidenti con la stessa struttura

aziendale, e quindi non necessariamente in espressi e continui ordini e controlli del datore di lavoro, attinenti all’orario o ad altre modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, variabili secondo il contenuto e le circostanze o la stessa fiducia riposta nel lavoratore (cfr. , Cass. , n. 648/1986);

– quando l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale, elementi che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente con indizi probatori della subordinazione (cfr. , Cass. , n. 6224/2004);

– nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione e, allo scopo della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel particolare contesto, significativo, occorre, a detti fini, far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore (cfr. , Cass. , n. 1536/2009).

Secondo la Suprema Corte di Cassazione la sentenza impugnata, con motivazione priva di elementi di contraddittorietà, aveva riconosciuto, sulla base del contenuto delle esaminate acquisizioni istruttorie, la sussistenza di rapporti di lavoro subordinato, evidenziando l’avvenuto inserimento dei lavoratori nell’altrui organizzazione con la messa a disposizione delle energie lavorative, e tenendo al contempo conto dei cosiddetti elementi sussidiari, rappresentati, fra l’altro, dall’osservanza dell’orario, dalla continuità per alcuni anni e dalla regolarità dei pagamenti.

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