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Roma, 14/03/2012 Circolare n. 37

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Roma, 14/03/2012 Circolare n. 37

OGGETTO: Decreto Legge n. 201 del 6 dicembre 2011 convertito con modificazioni dalla Legge 22 dicembre 2011, n. 214, come ulteriormente modificato dalla Legge 24 febbraio 2012 n. 14, di conversione con modificazioni del decreto legge 29 dicembre 2011 n. 216.

Disposizioni in materia di trattamenti pensionistici e di trattamenti di fine servizio e fine rapporto per gli iscritti alle casse gestite dall’ex INPDAP.

1. Premessa.

Nel Supplemento ordinario n. 276 della Gazzetta ufficiale n. 300 del 27 dicembre 2011 è stata pubblicata la legge n. 214 del 22 dicembre 2011 di conversione, con modificazioni, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, avente per oggetto “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici; la normativa è stata ulteriormente modificata dalla Legge 24 febbraio 2012 n. 14, di conversione del decreto legge 29 dicembre 2011 n. 216.  Con la presente, acquisito il parere del Ministero del lavoro e delle politiche sociali reso con nota n. 2680 del 22 febbraio 2012, si forniscono le indicazioni per quanto concerne le disposizioni in materia di trattamenti pensionistici e di trattamenti di fine servizio e fine rapporto per gli iscritti alle casse gestite dall’ex INPDAP.

Roma, 14/03/2012 Circolare n. 37

OGGETTO: Decreto Legge n. 201 del 6 dicembre 2011 convertito con modificazioni dalla Legge 22 dicembre 2011, n. 214, come ulteriormente modificato dalla Legge 24 febbraio 2012 n. 14, di conversione con modificazioni del decreto legge 29 dicembre 2011 n. 216.

Disposizioni in materia di trattamenti pensionistici e di trattamenti di fine servizio e fine rapporto per gli iscritti alle casse gestite dall’ex INPDAP.

1. Premessa.

Nel Supplemento ordinario n. 276 della Gazzetta ufficiale n. 300 del 27 dicembre 2011 è stata pubblicata la legge n. 214 del 22 dicembre 2011 di conversione, con modificazioni, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, avente per oggetto “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici; la normativa è stata ulteriormente modificata dalla Legge 24 febbraio 2012 n. 14, di conversione del decreto legge 29 dicembre 2011 n. 216.  Con la presente, acquisito il parere del Ministero del lavoro e delle politiche sociali reso con nota n. 2680 del 22 febbraio 2012, si forniscono le indicazioni per quanto concerne le disposizioni in materia di trattamenti pensionistici e di trattamenti di fine servizio e fine rapporto per gli iscritti alle casse gestite dall’ex INPDAP.

2. Equo indennizzo e pensioni privilegiate (articolo 6).

L’articolo in oggetto abroga gli istituti dell’accertamento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio, del rimborso delle spese di degenza per causa di servizio, dell’equo indennizzo e della pensione privilegiata, demandando, ove previsto, la competenza in materia di tutela delle infermità dipendenti da causa di servizio all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali (gestita dall’INAIL).

Per esplicita disposizione legislativa, ai fini che qui interessano, il riconoscimento dell’equo indennizzo e della pensione di privilegio continuano ad essere disciplinati dalla normativa vigente alla data di entrata in vigore del decreto legge n. 201/2011 (6 dicembre 2011) nei confronti del personale appartenente alle Forze Armate (Esercito, Marina e Aeronautica), all’Arma dei Carabinieri, alle Forze di Polizia ad ordinamento civile (Polizia di Stato, Corpo forestale dello Stato e Polizia Penitenziaria) e militare (Guardia di finanza), al comparto vigili del fuoco e soccorso pubblico.

La normativa previgente continua, altresì, ad esplicare i suoi effetti: 
1) per i procedimenti di riconoscimento dell’equo indennizzo e della pensione privilegiata già avviati alla data del 6 dicembre 2011;

2) nei casi in cui alla predetta data non siano scaduti i termini per la domanda di prestazione; 
al riguardo si evidenzia che per le pensioni di privilegio tali termini sono:

a) per gli iscritti alla CPDEL, CPS, CPI e CPUG, cinque anni dalla cessazione dal servizio; 
b) per gli iscritti alla CTPS, cinque anni dalla cessazione, elevati a dieci anni qualora l’infermità sia derivata da parkinsonismo; nell’ipotesi in cui vi sia stato il riconoscimento, per la medesima infermità, della causa di servizio in costanza di attività lavorativa non sussiste alcun termine (articolo 169 del DPR 29 dicembre 1973, n. 1092); sempre nei confronti degli iscritti alla Cassa Stato resta, in ogni caso, fermo quanto precisato nella nota operativa INPDAP n. 35 del 15 ottobre 2008;

3) nelle ipotesi di procedimenti avviabili d’ufficio relativi ad eventi intervenuti anteriormente al 6 dicembre 2011. 3. Interpretazione dell’articolo 47, comma 2 della legge 24 aprile 1980 n. 146 (articolo 23, comma 6) L’art. 47, comma 2, della legge 24 aprile 1980 n. 146 prevede che: “I dipendenti dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni, nonché i dipendenti degli enti e degli altri istituti di diritto pubblico, sottoposti alla vigilanza dello Stato, che non siano membri del Parlamento e siano chiamati all’ufficio di Ministro e di Sottosegretario, sono collocati in aspettativa per il periodo durante il quale esercitano le loro funzioni, conservando per intero il trattamento economico loro spettante, in misura comunque non superiore a quella dell’indennità percepita dai membri del Parlamento”.

L’art. 23, comma 6, del decreto legge n. 201/2011 dispone che ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza (sia trattamento di fine servizio che di fine rapporto) dei dipendenti pubblici, che non siano membri del Parlamento e siano chiamati all’Ufficio di Ministro e Sottosegretario, si debba prendere a riferimento, per la determinazione delle relative prestazioni, l’ultimo trattamento economico in godimento prima del conferimento dell’incarico governativo, inclusa, per i dirigenti, la parte fissa e variabile della retribuzione di posizione, ed esclusa la retribuzione di risultato; il periodo di aspettativa è, comunque, considerato utile ai fini dell’anzianità di servizio.  Conseguentemente l’obbligo contributivo sia a fini pensionistici che previdenziali dovrà essere assolto, secondo l’ordinaria ripartizione in quota datoriale e quota personale, con riferimento all’ultimo trattamento economico in godimento prima del conferimento dell’incarico governativo, dal Ministero presso il quale sono esercitate le funzioni di Ministro o Sottosegretario.  

4. Ampliamento della platea dei destinatari del sistema contributivo pro-rata (articolo 24, comma 2)

A decorrere dal 1° gennaio 2012, con riferimento alle anzianità contributive maturate a decorrere da tale data, la quota di pensione corrispondente a tali anzianità è calcolata secondo il sistema contributivo.

Con tale disposizione, nei confronti dei soggetti in possesso di almeno 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995, ferma restando la valutazione con il sistema retributivo delle anzianità contributive maturate fino al 31 dicembre 2011, la quota di pensione relativa alle anzianità contributive maturate a partire dal 1° gennaio 2012 è determinata con il sistema di calcolo contributivo.

La disposizione in esame trova applicazione nei confronti di tutti gli iscritti alle casse gestite dall’ex Inpdap, ivi compresi quelli di cui al comma 18 dell’articolo 24 della legge in esame (si veda infra il paragrafo 12), per i quali è prevista l’emanazione, entro il 30 giugno 2012, di un regolamento, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge n. 400/88, ai fini dell’armonizzazione dei requisiti di accesso al pensionamento.

L’introduzione del sistema contributivo pro-rata dal 1° gennaio 2012 comporta per il personale militare, delle forze di polizia civili e militari e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco il venir meno della disposizione di cui all’articolo 6, comma 2 del D. Lgs. 30 aprile 1997, n. 165 (accesso al pensionamento con 53 anni di età e massima anzianità contributiva), salva l’ipotesi in cui detto personale abbia già raggiunto al 31 dicembre 2011 l’aliquota massima dell’ottanta per cento.  Nulla è innovato nei confronti dei soggetti di cui all’articolo 1, comma 12, della legge 8 agosto 1995, n. 335, già destinatari del c. D. Sistema di calcolo misto di pensione.

5. Certezza dei diritti per i requisiti di accesso e definizione delle prestazioni pensionistiche (articolo 24, comma 3)

I lavoratori che maturano entro il 31 dicembre 2011 i requisiti di età e anzianità contributiva, previsti dalla normativa vigente a tale data, conservano il diritto alla prestazione pensionistica secondo tale normativa sia ai fini del diritto che ai fini della relativa decorrenza.

Di conseguenza, i requisiti previsti dalla normativa vigente al 31 dicembre 2011 sia ai fini dei trattamenti pensionistici di anzianità (sistema delle quote ovvero massima anzianità contributiva) che ai fini delle pensioni di vecchiaia, sono salvaguardati, per i soggetti di cui sopra, anche nel caso di accesso al pensionamento in data successiva al 31 dicembre 2011, ferma restando l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 12, commi 1 e 2 (finestra mobile rispettivamente per pensioni di vecchiaia e pensione di anzianità) del D. L. 31 maggio 2010, n. 78 convertito conmodifiche dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.  Gli iscritti in possesso dei requisiti prescritti per il diritto al trattamento pensionistico entro il 31 dicembre 2011, possono chiedere all’ente previdenziale la certificazione di tale diritto, avente valore meramente dichiarativo, posto che il diritto risulta già acquisito in virtù dei requisiti anagrafici e contributivi posseduti anteriormente al 1° gennaio 2012. Nel ribadire che la predetta certificazione deve essere rilasciata solamente a condizione che gli iscritti, al 31 dicembre 2011, siano in possesso dei requisiti previsti dalla normativa vigente per il diritto alla pensione, per le modalità di rilascio della certificazione in esame si rimanda a quanto illustrato nella circolare INPDAP n. 44 del 13 settembre 2005.

Nei confronti dei soggetti che maturano a decorrere dal 1° gennaio 2012 i requisiti per il diritto a pensione prescritti dalla disposizione legislativa in esame, le pensioni di vecchiaia, di vecchiaia anticipata e di anzianità sono sostituite dalle seguenti prestazioni: a) «pensione di vecchiaia », conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti esplicitati al paragrafo 7 della presente circolare; b) «pensione anticipata», conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti illustrati ai paragrafi 8 e 9 della presente circolare.

6. Disapplicazione della c. D. “finestra mobile” e deroghe (articolo 24, commi 5 e 14)

Nei confronti dei soggetti che acquisiscono il diritto alla pensione di vecchiaia o alla pensione anticipata dal 1° gennaio 2012 in base ai requisiti prescritti dalla legge in esame, non trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 12, commi 1 e 2 (finestra mobile rispettivamente per le pensioni di vecchiaia e di anzianità) del D. L. 31 maggio 2010, n. 78 convertito con modifiche nella legge 30 luglio 2010, n. 122 e quelle di cui all’articolo 1, comma 21, primo periodo del D. L.  13 agosto 2011, n. 138 convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148(finestra di uscita per il personale del comparto Scuola e AFAM), fatta eccezione per le fattispecie specificate nella presente circolare.

In merito all’articolo 1, comma 21, primo periodo del D. L. 13 agosto 2011, n. 138 convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 si rappresenta che la previsione legislativa ivi contenuta (accesso al trattamento pensionistico del personale del comparto scuola e AFAM a decorrere, rispettivamente, dal primo settembre o primo novembre dell’anno successivo alla maturazione dei requisiti) avrebbe dovuto trovare applicazione nei confronti di detto personale che avesse maturato i requisiti per il diritto a pensione a decorrere dal 1° gennaio 2012, come specificato nella circolare INPDAP n. 16 del 9 novembre 2011.

In conseguenza della disapplicazione effettuata dall’articolo 24, comma 5 della legge in esame (che ha effetto sempre per requisiti maturati a partire dal 1° gennaio 2012) le istruzioni contenute nel paragrafo 1 della citata circolare si intendono superate e l’accesso al pensionamento del personale del comparto scuola e AFAM continua ad essere disciplinato dalle disposizioni di cui all’articolo 59, comma 9 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 con riferimento all’anno di maturazione dei requisiti e non già all’anno successivo, come previsto dal citato articolo 1, comma 21, della legge n. 148/2011, fatta eccezione per le fattispecie specificate nella presente circolare.  

La finestra mobile continua a trovare applicazione nei seguenti casi:

1) Soggetti che maturano i requisiti prescritti per il diritto a pensione entro il 31 dicembre 2011;

2) lavoratrici che accedono al pensionamento in virtù di quanto disposto dall’articolo 1, comma 9 della legge n. 243/2004, ossia che conseguono il diritto all’accesso al trattamento pensionistico di anzianità, in presenza di un’anzianità contributiva pari o superiore a trentacinque anni e di un’età pari o superiore a 57 anni (requisito anagrafico da adeguarsi, a partire dal 1° gennaio 2013, agli  incrementi della speranza di vita) optando per la liquidazione del trattamento medesimo secondo le regole di calcolo del sistema contributivo (disposizione prevista, in via sperimentale, solo per pensioni decorrenti entro il 31 dicembre 2015). Nei confronti delle lavoratrici del comparto scuola ed AFAM il regime delle decorrenze è quello di cui all’articolo 1, comma 21 del decreto legge n.  138/2011 che non è stato abrogato ma disapplicato con riferimento esclusivamente ai soggetti che a decorrere dal 1° gennaio 2012 maturano i requisiti per il pensionamento indicati ai commi da 6 a 11 dell’articolo 24 della legge in esame. Conseguentemente, per coloro che maturano il diritto ad esempio dal 1° gennaio al 31 dicembre 2012 la decorrenza del relativo trattamento pensionistico è fissata al 1° settembre o novembre 2013 in relazione al comparto di appartenenza (Scuola o AFAM).

3) addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti di cui al decreto legislativo 21 aprile 2011, n. 67 ancorché maturino i requisiti per il pensionamento dal 1° gennaio 2012 (cfr. Nota operativa INPDAP n. 43 del 28 dicembre 2011);

4) lavoratori che accedono al trattamento pensionistico in regime di totalizzazione ai sensi del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 42 e s. M. I. , ai quali continua ad applicarsi il comma 3, delpiù volte citato articolo 12 della legge n. 122/2010. Per il personale del comparto scuola ed AFAM, come chiarito dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con la nota n. 04/UL0000945/P del 23 febbraio 2011, continuano a trovare applicazione le disposizioni di cui all’articolo 59, comma 9 della legge n. 449/1997, così come successivamente modificate dall’articolo 1, comma 21, del decreto legge n. 138/2011. In altri termini, chi consegue i requisiti minimi per il diritto a pensione in regime di totalizzazione dal 1° gennaio 2012, accede al trattamento pensionistico dall’inizio dell’anno scolastico o accademico (in relazione al comparto di appartenenza Scuola o AFAM) successivo a quello di maturazione dei relativi requisiti. Si precisa che tale particolare regime opera solo qualora l’ultimo periodo di iscrizione previdenziale sia riconducibile ad attività disciplinata dalla normativa del comparto scuola o AFAM; diversamente la decorrenza del trattamento pensionistico in regime di totalizzazione è fissata decorsi 18 mesi dalla data di maturazione dei prescritti requisiti; nonché, nel limite massimo numerico stabilito con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, nei confronti di: 
5) lavoratori collocati in mobilità e mobilità lunga ai sensi della legge 23 luglio 1991, n. 223 sulla base di accordi sindacali stipulati anteriormente al 4 dicembre 2011; nel caso di mobilità ai sensi degli articoli 4 e 24 della citata legge n. 223/1991 i requisiti per il pensionamento devono essere maturati entro il periodo di fruizione dell’indennità di mobilità;

6) lavoratori che alla data del 4 dicembre 2011 sono titolari di prestazione straordinaria a carico dei fondi di solidarietà di settore di cui all’articolo 2, comma 28, della legge 23 dicembre 1996, n.  662 nonché ai lavoratori per i quali sia stato previsto da accordi collettivi stipulati entro la medesima data il diritto di accesso ai predetti fondi di solidarietà; in tale secondo caso gli interessati restano tuttavia in carico dei fondi medesimi fino al compimento di almeno 60anni di età, ancorché maturino prima del compimento della predetta età i requisiti per l’accesso al pensionamento previsti prima della data di entrata in vigore del decreto legge n. 201/2011; 

7) lavoratori che, antecedentemente alla data del 4 dicembre 2011, siano stati autorizzati alla  prosecuzione volontaria della contribuzione; si precisa che per data di autorizzazione si deve intendere la data di presentazione della relativa domanda risultata accoglibile; 

8) lavoratori che alla data del 4 dicembre 2011 hanno in corso l’istituto dell’esonero dal servizio di cui all’articolo 72, comma 1, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni con legge 6 agosto 2008, n. 133; l’istituto dell’esonero si considera, comunque, in corso qualora il provvedimento di concessione sia stato emanato prima del 4 dicembre 2011; dalla data di entrata in vigore della presente legge è abrogato l’istituto dell’esonero, tranne che per i casi sopra specificati;

9) lavoratori il cui rapporto di lavoro si sia risolto entro il 31 dicembre 2011, in ragione di accordi individuali sottoscritti anche ai sensi degli articoli 410, 411 e 412-ter del codice di procedura civile, o in applicazione di accordi collettivi di incentivo all’esodo stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale, a condizione che ricorrano i seguenti elementi:

– la data di cessazione del rapporto di lavoro risulti da elementi certi e oggettivi, quali le comunicazioni obbligatorie agli ispettorati del lavoro o ad altri soggetti equipollenti, indicati nel medesimo decreto ministeriale;

– il lavoratore risulti in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi che, in base alla previgente disciplina pensionistica, avrebbero comportato la decorrenza del trattamento medesimo entro un periodo non superiore a ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 201 del 2011.

10) lavoratori che alla data del 31 ottobre 2011 risultano essere in congedo per assistere figli con disabilità grave ai sensi dell’articolo 42, comma 5, del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, i quali maturino, entro ventiquattro mesi dalla data di inizio del predetto congedo, il requisito contributivo per l’accesso al pensionamento indipendentemente dall’età anagrafica di cui all’articolo 1, comma 6, lettera a), della legge 23 agosto 2004, n. 243, esuccessive modificazioni e integrazioni (40 anni di anzianità contributiva).

7. Requisiti prescritti per il diritto alla pensione di vecchiaia (articolo 24, commi 6, 7 ,9 e 20) 
Per gli iscritti alle forme esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria, che maturano a decorrere dal 1° gennaio 2012 i requisiti prescritti per il diritto a pensione, il requisito anagrafico per l’accesso alla pensione di vecchiaia è determinato in 66 anni in presenza di un’anzianità contributiva minima pari a 20 anni. Per i lavoratori con riferimento ai quali il primo accredito contributivo decorre dal 1° gennaio 1996, fermi restando il limite anagrafico minimo pari a 66 anni e quello contributivo pari a 20, l’accesso al pensionamento è altresì condizionato all’importo della pensione che deve risultare non inferiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale (c. D. Importo soglia); tale importo è annualmente rivalutato sulla base della variazione media quinquennale del PIL nominale, appositamente calcolata dall’ISTAT, con riferimento al quinquennio precedente l’anno da rivalutare. Il predetto importo soglia non può in ogni caso essere inferiore, per un dato anno, a 1,5 l’importo mensile dell’assegno sociale stabilito per il medesimo anno.  Si prescinde dal predetto requisito di importo minimo se in possesso di un’età anagrafica pari a settanta anni, ferma restando un’anzianità contributiva effettiva di cinque anni. Si specifica che per “contribuzione effettiva” deve intendersi solo la contribuzione, sia obbligatoria che volontaria che da riscatto, effettivamente versata e accreditata con esclusione quindi di quella figurativa.

Considerato che i requisiti di accesso al sistema pensionistico devono essere adeguati agli incrementi della speranza di vita ai sensi dell’articolo 12 del D. L. 31 maggio 2010, n. 78 convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010 n. 122 e s. M. I. , a decorrere dal 1° gennaio 2013 il requisito anagrafico di 66 anni e quello di 70 anni sono incrementati di 3 mesi.

Per un’immediata visualizzazione dei requisiti prescritti a partire dal 1° gennaio 2012 per il diritto alla pensione di vecchiaia, sia in un sistema di calcolo misto (contributivo pro-rata) che contributivo *, si riporta uno schema riepilogativo.

ANNO ETA’ ANZIANITA’ CONTRIBUTIVA

2012 66 anni 20 anni

2013 66 anni e 3 mesi 20 anni

* Nel sistema di calcolo contributivo, oltre ai sopra riportati requisiti, l’importo della pensione deve essere non inferiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale, tranne i casi di accesso al pensionamento con 70 anni età (in questo caso la contribuzione effettiva minima richiesta è pari a 5 anni).  
Per esplicita previsione normativa, i requisiti anagrafici illustrati al presente paragrafo devono essere tali da garantire un’età minima di accesso al pensionamento non inferiore a 67 anni per i soggetti che maturano il diritto alla prima decorrenza utile al pensionamento dall’anno 2021; qualora, per effetto dei predetti adeguamenti agli incrementi della speranza di vita, non sia assicurata l’età minima di 67 anni, con un decreto direttoriale sono ulteriormente incrementati i predetti requisiti anagrafici.  
Al fine di agevolare il processo di riduzione degli assetti organizzativi delle pubbliche amministrazioni, sono fatti salvi i provvedimenti di collocamento a riposo per raggiunti limiti di età già adottati prima del 6 dicembre 2011, anche se aventi effetto successivamente al 1° gennaio 2012.

8. Requisiti prescritti per il diritto alla pensione anticipata (articolo 24, comma 10) 
Nei confronti dei soggetti che maturano i requisiti per l’accesso al pensionamento a partire dal 1° gennaio 2012, la pensione anticipata si consegue esclusivamente a condizione che risulti maturata un’anzianità contributiva di 42 anni e 1 mese per gli uomini e 41 anni e 1 mese per le donne. Tali requisiti sono aumentati di un ulteriore mese per l’anno 2013 e di un ulteriore mese a decorrere dal 2014, fermi restando gli incrementi della speranza di vita a decorrere dal 1° gennaio 2013.  Per un’immediata visualizzazione dei requisiti prescritti a partire dal 1° gennaio 2012 per il diritto alla pensione anticipata, sia in un sistema di calcolo misto (contributivo pro-rata) che contributivo, si riporta uno schema riepilogativo già aggiornato agli attuali valori inerenti l’incremento della speranza di vita.

Anno Anzianità contributiva Uomini Donne

2012 42 anni e 1 mese 41 anni e 1 mese

2013 42 anni e 5 mesi 41 anni e 5 mesi

2014 42 anni e 6 mesi 41 anni e 6 mesi

Sulla quota retributiva del trattamento pensionistico relativa alle anzianità contributive maturate antecedentemente al 1° gennaio 2012 è applicata una riduzione pari a 1 punto percentuale per ogni anno di anticipo nell’accesso al pensionamento rispetto all’età di 62 anni; tale riduzione è elevata a 2 punti percentuali per ogni anno ulteriore di anticipo rispetto a due anni (ovvero rispetto ai 60 anni di età).  
Nel caso in cui l’età al pensionamento non sia intera la riduzione percentuale è proporzionale al numero dei mesi.  
Le riduzioni percentuali di cui sopra non trovano applicazione, limitatamente ai soggetti che maturano il previsto requisito di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2017, qualora la predetta anzianità contributiva ivi prevista derivi esclusivamente da prestazione effettiva di lavoro, includendo i periodi di astensione obbligatoria per maternità, per l’assolvimento degli obblighi di leva, per infortunio, per malattia e di cassa integrazione guadagni ordinaria.

9. Ulteriore possibilità di accesso alla pensione anticipata nel sistema contributivo (articolo 24, comma 11)

Nei confronti dei lavoratori con riferimento ai quali il primo accredito contributivo decorre dal 1° gennaio 1996, il diritto alla pensione anticipata, oltre ai casi illustrati al precedente paragrafo 8, si consegue, altresì, al compimento del requisito anagrafico di sessantatre anni, a condizione che risultino in possesso di un’anzianità contributiva effettiva di almeno venti anni e che l’ammontare della prima rata di pensione risulti essere non inferiore ad un importo soglia mensile, quantificato per l’anno2012, in misura pari a 2,8 volte l’importo dell’assegno sociale.  L’importo della soglia mensile è annualmente rivalutato sulla base della variazione media quinquennale del PIL, appositamente calcolata dall’ISTAT con riferimento al quinquennio precedente l’anno da rivalutare; l’importo della soglia mensile non può in ogni caso essere inferiore a 2,8 volte l’importo mensile dell’assegno sociale.  
Anche per questa tipologia di pensione anticipata, vigente nel solo sistema contributivo, i requisiti anagrafici previsti sono adeguati agli incrementi della speranza di vita.  Si specifica che per “contribuzione effettiva” deve intendersi solo la contribuzione, sia obbligatoria che volontaria che da riscatto, effettivamente versata e accreditata con esclusione quindi di quella figurativa.

10. Adeguamenti agli incrementi della speranza di vita (articolo 24, comma 13) 
Gli adeguamenti agli incrementi della speranza di vita successivi a quello effettuato con decorrenza 1° gennaio 2019 sono aggiornati con cadenza biennale secondo le modalità previste dall’articolo 12 della legge n. 122/2010. A partire dalla medesima data i riferimenti al triennio, di cui al comma 12-ter del citato articolo, devono riferirsi al biennio.  

11. Coefficiente di trasformazione (articolo 24, comma 16) 
Con effetto dal 1° gennaio 2013 il coefficiente di trasformazione di cui all’articolo 1, comma 6, della legge n. 335/1995 è esteso anche per le età corrispondenti a valori fino a 70, soggetto ad adeguamenti in relazione agli incrementi della speranza vita.  Ogniqualvolta il predetto adeguamento comporti, con riferimento al valore originariamente indicato in 70 anni per l’anno2012, l’incremento dello stesso tale da superare di una o più unità il predetto valore di 70, il coefficiente di trasformazione è esteso anche per le età corrispondenti a tali valori superiori a 70 anni, nell’ambito della procedura di cui all’articolo 1, comma 11, della citata legge n. 335/1995.  
Gli aggiornamenti dei coefficienti di trasformazione successivi a quello decorrente dal 1° gennaio 2019 sono effettuati con periodicità biennale.  

12. Armonizzazioni (articolo 24 comma 18) 
Nei confronti dei soggetti che accedono al pensionamento con requisiti diversi da quelli previsti per la generalità dei lavoratori a decorrere dal 1° gennaio 2012, la disposizione in esame demanda ad un regolamento, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della L. N. 400/88, da emanareentro il 30 giugno 2012, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, l’adozione di misure di armonizzazione dei requisiti di accesso al sistema pensionistico, tenendo conto delle obiettive peculiarità ed esigenze dei settori di attività nonché dei rispettivi ordinamenti.  
Per quanto attiene agli iscritti alle casse pensioni gestite dall’ex Inpdap, la norma in esame trova applicazione nei confronti del personale delle Forze Armate (Esercito, Marina, Aeronautica), dell’Arma dei Carabinieri, delle forze di polizia ad ordinamento civile (Polizia di Stato, Corpo forestale dello Stato, Polizia penitenziaria) e militare (Guardia di finanza) e Corpo nazionale dei vigili del fuoco nonché nei confronti dei lavoratori per i quali viene meno il titolo abilitante allo svolgimento della specifica attività lavorativa per raggiungimento del limite di età quali, ad esempio, gli appartenenti ai profili professionali di cui all’articolo 5 della legge n. 248/1990 (controllore del traffico aereo, pilota, operatore radiomisure, esperto di assistenza al volo e meteo).  
Nei confronti di detto personale, continuano pertanto a trovare applicazione sia i requisiti prescritti per il diritto a pensione che il regime delle decorrenze vigenti al 31 dicembre 2011 (si veda la circolare Inpdap n. 18 diramata in data 8 ottobre 2010), in quanto tale regime è disapplicato solo per coloro i quali accedono al pensionamento secondo le disposizioni previste dalla legge in esame.

Come già precisato al paragrafo4, l’armonizzazione riguarda esclusivamente i requisiti minimi di accesso al pensionamento; di conseguenza, anche nei confronti del personale in esame è introdotto il sistema contributivo pro-rata per le anzianità contributive maturate a partire dal 1° gennaio 2012.

13. Totalizzazione ai fini della pensione di vecchiaia e di anzianità (articolo 24, comma 19) 
Con il comma in esame, a seguito della soppressione delle parole “di durata non inferiore a tre anni” contenute all’articolo 1, comma 1 del decreto legislativo 2 febbraio 2006 n. 42, la facoltà di cumulo di periodi assicurativi non coincidenti può essere esercitata indipendentemente dalla anzianità contributiva posseduta in ciascuna gestione assicurativa.  
In quanto normativa di carattere speciale non specificamente modificata dall’art. 24 della legge in esame, restano ferme le ulteriori disposizioni vigenti in materia di pensione in regime di totalizzazione, ivi compresi i requisiti anagrafici prescritti (65 anni) ovvero, in caso di accesso indipendentemente dall’età, i quaranta anni di anzianità contributiva nonché il regime delle decorrenze di cui all’articolo 12, comma 3 (finestra mobile di 18 mesi), della legge n. 122/2010.  
In materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici in regime di totalizzazione del personale del comparto scuola e AFAM si rinvia a quanto specificato al paragrafo 6 punto 4) della presente circolare.

Alle prestazioni pensionistiche in regime di totalizzazione trova, in ogni caso, applicazione l’adeguamento alla speranza di vita di cui dell’art. 12 del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.

14. Opzione per liquidazione del trattamento pensionistico esclusivamente con le regole del sistema contributivo (articolo 24, comma 7)
In riferimento alla facoltà di opzione del trattamento pensionistico esclusivamente con le regole del sistema contributivo, con il comma 7 dell’art. 24 sono state soppresse le parole “ivi comprese quelle relative ai requisiti di accesso alla prestazione di cui al comma 19” contenute nell’articolo 1, comma 23, della legge n. 335/1995 e s. M. I. ; la soppressione della citata locuzione fa venire meno il rinvio ai requisiti di accesso per la pensione di vecchiaia nel sistema contributivo.  Di conseguenza, anche se resta salva la facoltà dei lavoratori iscritti all’AGO e alle forme sostitutive ed esclusive della stessa, che alla data del 31 dicembre 1995 possono far valere un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni, di optare per la liquidazione del trattamento pensionistico esclusivamente con le regole del sistema contributivo a condizione che, al momento dell’opzione, abbiano anche maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a 15 anni di cui almeno 5 nel sistema medesimo, ai soggetti che optano per la liquidazione del trattamento pensionistico esclusivamente con le regole di calcolo del sistema contributivo si applicano i requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia e alla pensione anticipata, introdotti dall’art. 24 del decreto in esame, previsti per i lavoratori in possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995. 15. Inabilità a qualsiasi attività lavorativa ai sensi della legge n. 335/1995 Come precisato al paragrafo 4 della presente circolare, la quota di pensione riferita alle anzianità contributive maturate a decorrere dal 1° gennaio 2012 è calcolata con il sistema contributivo. Di conseguenza, per le pensioni di inabilità in oggetto con decorrenza successiva al 1° gennaio 2012, la relativa maggiorazione si calcola secondo le regole del sistema contributivo ossia nei limiti di un’anzianità contributiva complessiva non superiore a 40 anni e riferita al periodo mancante al raggiungimento del sessantesimo anno di età (articolo 1, comma 15, della legge n. 335/1995).  

16. Termine di pagamento dei trattamenti di fine servizio e di fine rapporto in relazione a cessazioni dal servizio connesse a pensionamenti con 40 anni di anzianità contributiva e precisazioni sulle deroghe ai nuovi termini previsti dall’art. 1, comma 23, del D. L. N. 138/2011 convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011.

Le modifiche introdotte dall’art. 24 alle regole di accesso e calcolo per le prestazioni pensionistiche rendono necessarie alcune precisazioni sull’ambito di applicazione dei termini di pagamento delle prestazioni di fine servizio dei dipendenti pubblici, di cui all’art. 3 del D. L. 28 marzo 1997, n. 79 convertito dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, come recentemente modificato dall’art. 1, commi 22 e 23, del D. L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.  
Dal 1° gennaio 2012, venendo meno sia la possibilità di conseguire il diritto a pensione con 40 anni di anzianità contributiva a prescindere dall’età per chi non ha già maturato tale requisito al 31. 12. 2011, sia la nozione di anzianità contributiva massima (40 anni di contribuzione ovvero un minor numero di anni con riferimento ad alcuni regimi speciali), tipica del sistema di calcolo retributivo, alle cessazioni con 40 anni di anzianità contributiva non potrà più essere applicato il termine di 6 mesi (o quello di 105 giorni previsto dalle deroghe del D. L. 138/2011 – si veda infra) per il pagamento delle prestazioni di fine servizio.  
Pertanto, per il personale interessato dalle nuove regole di accesso e calcolo della pensione e che cessa dal servizio senza aver raggiunto i limiti di età previsti dal proprio ordinamento di appartenenza, i trattamenti di fine servizio e fine rapporto non possono essere messi in pagamento prima di 24 mesi dall’interruzione del rapporto di lavoro.  Resta tuttavia fermo il termine di 6 mesi (o quello di 105 giorni previsto dalle deroghe del D. L.  138/2011) per il personale che ha maturato l’anzianità contributiva massima ai fini pensionistici (40 anni ovvero anzianità contributive inferiori con riferimento ai dipendenti appartenenti a regimi pensionistici speciali, per esempio il personale militare) entro il 31 dicembre 2011 anche se cessa successivamente alla predetta data.  
Per il personale interessato dalle deroghe di cui all’art. 1, comma 23, del D. L. 138/2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011, e che, pertanto, ha maturato il diritto a pensione entro il 12 agosto 2011 (31 dicembre 2011, se personale della scuola e del comparto AFAM), valgono i vecchi termini di pagamento dei TFS e dei TFR anteriori a quelli introdotti dall’art. 1, comma 22, del D. L. 138/2011, con la precisazione riportata di seguito sulla scorta delle osservazioni fornite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con nota prot. N. 2680 del 22 febbraio 2012.  
Conseguentemente, le indicazioni contenute nella circolare Inpdap n. 16 del 9 novembre 2011 e nella nota operativa Inpdap n. 41 del 30 novembre 2011, relative ai termini di pagamento dei trattamenti di fine servizio e fine rapporto per gli iscritti alla gestioni previdenziali ex Inpdap, sono modificate come di seguito indicato e riepilogato.  
Termine breve: entro 105 giorni dalla cessazione 
In caso di cessazione dal servizio per inabilità o per decesso, trova applicazione il termine breve che prevede che la prestazione deve essere liquidata entro 105 giorni dalla cessazione. In particolare, si ricorda che l’ente datore di lavoro è tenuto a trasmettere all’Inps gestione ex Inpdap la documentazione necessaria entro 15 giorni dalla cessazione del dipendente; questo Istituto, a sua volta, provvede a corrispondere la prestazione, o la prima rata di questa, entro i tre mesi successivi alla ricezione della documentazione stessa. Decorsi questi due periodi (complessivamente pari a 105 giorni) sono dovuti gli interessi.  
Termine di sei mesiLa prestazione non può essere liquidata e messa in pagamento prima di sei mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro quando questa è avvenuta per:

– raggiungimento dei limiti di età;

– cessazioni dal servizio conseguenti all’estinzione del rapporto di lavoro a tempo determinato per raggiungimento del termine finale fissato nel contratto stesso (cfr. Circolare Inpdap n. 30 del 1/8/2002 che ha chiarito che questa casistica è equiparata all’ipotesi di cessazione per limiti di servizio);

– cessazione dal servizio connesso ad un pensionamento conseguito con l’anzianità contributiva massima ai fini pensionistici (per esempio 40 anni per la generalità dei lavoratori dipendenti ovvero anzianità contributive inferiori con riferimento al personale appartenente a regimi pensionistici speciali) se maturata entro il 31 dicembre 2011.  
Nei casi rientranti nel termine in esame l’Istituto non può procedere alla liquidazione e al pagamento della prestazione, ovvero della prima rata di questa, prima che siano decorsi sei mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro. Decorso tale termine, l’istituto deve mettere in pagamento la prestazione entro 3 mesi. Decorsi questi due periodi (complessivamente pari a 270 giorni) sono dovuti gli interessi.

Termine di 24 mesi 
La prestazione non può essere liquidata e messa in pagamento prima di 24 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, quando questa è avvenuta per cause diverse da quelle sopra richiamate, anche nell’ipotesi in cui non sia stato maturato il diritto a pensione. Tra queste cause si ricordano in particolare:

– le dimissioni volontarie, con o senza diritto a pensione;
– il recesso da parte del datore di lavoro (licenziamento o destituzione dall’impiego).

Nei casi rientranti nel termine in esame l’Istituto non può procedere alla liquidazione e al pagamento della prestazione, ovvero della prima rata di questa, prima che siano decorsi 24 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro. Scaduto il termine, l’istituto deve mettere in pagamento la prestazione entro 3 mesi. Decorsi questi due periodi (complessivamente pari a 27 mesi) sono dovuti gli interessi.

Deroghe 
Non sono interessate dai termini sopra indicati le seguenti tipologie di dipendenti per i quali continua a trovare applicazione la disciplina previgente all’art. 1, comma 22, del decreto legge 13 agosto 2011, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148: 
– lavoratori che hanno maturato i requisiti contributivi ed anagrafici per il pensionamento, sia di anzianità che di vecchiaia (raggiunti limiti di età o di servizio) prima del 13 agosto 2011; 
– personale del comparto scuola e delle istituzioni di alta formazione artistica e specializzazione musicale (AFAM) interessato all’applicazione delle regole sulla decorrenza della pensione (rispettivamente dal primo settembre e dal primo novembre) di cui all’art. 59, comma 9, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 e che matura i requisiti per il pensionamento entro il 31 dicembre 2011; rientra nella disciplina derogatoria anche il personale docente dipendente da istituzioni scolastiche comunali a condizione che le stesse abbiano recepito nei propri regolamenti le disposizioni relative all’ordinamento dei docenti della scuola statale.

Per il personale interessato dalle deroghe sopra indicate, pertanto, i termini rimangono i seguenti: 
1) termine di 105 giorni per le cessazioni dal servizio per inabilità, decesso, limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza (comprese le cessazioni per limiti di età o raggiungimento della massima anzianità contributiva a fini pensionistici, a condizione che i relativi requisiti siano stati maturati entro il 12 agosto 2011, con eccezione del personale della scuola e AFAM i cui requisiti devono essere stati maturati entro il 31 dicembre 2011) e per le cessazioni dal servizio conseguenti all’estinzione del rapporto di lavoro a tempo determinato per raggiungimento del termine finale fissato nel contratto stesso; 
2) non prima che siano decorsi 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutte le altre casistiche. In relazione al punto 1), secondo quanto precisato nella citata nota prot. N. 2680 del 22 febbraio 2012 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, la deroga di cui all’art. 1, comma 23, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, illustrata nel punto “3. 5 Deroghe” della circolare n. 16 del 9 novembre 2011, va intesa nel senso che per i lavoratori che alla data del 12 agosto 2011 abbiano maturato i requisiti congiunti di età ed anzianità contributiva (cosiddetta “quota”) ma non abbiano ancora raggiunto il limite di età previsto dall’ordinamento di appartenenza ovvero l’anzianità contributiva massima, il Tfs/Tfr è erogato dopo sei mesi, anche qualora il lavoratore abbia successivamente raggiunto, al momento della cessazione, i predetti requisiti di accesso per limiti di età ovvero di anzianità contributiva massima (es. 40 anni).

INPS – COMUNICATO STAMPA 27 FEBBRAIO 2012

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LAVORO OCCASIONALE ACCESSORIO: VOUCHER IN TUTTI GLI UFFICI POSTALI DAL 27 FEBBRAIO 2012 Oggetto: Accordo Inps e Poste Italiane: i buoni lavoro si acquistano in tutti i 14mila Uffici Postali I voucher sono in vendita nel valore nominale di 10, 20 e 50 euro e in carnet da 25 pezzi.  Dal 27 febbraio 2012 sarà possibile acquistare e riscuotere i buoni lavoro, i cosiddetti “voucher”, presso tutti i 14mila uffici postali d’Italia. Poste Italiane e Inps hanno così esteso la fase sperimentale a tutto il territorio nazionale.  

INPS – COMUNICATO STAMPA 27 FEBBRAIO 2012

LAVORO OCCASIONALE ACCESSORIO: VOUCHER IN TUTTI GLI UFFICI POSTALI DAL 27 FEBBRAIO 2012

Oggetto: Accordo Inps e Poste Italiane: i buoni lavoro si acquistano in tutti i 14mila Uffici Postali I voucher sono in vendita nel valore nominale di 10, 20 e 50 euro e in carnet da 25 pezzi.

Dal 27 febbraio 2012 sarà possibile acquistare e riscuotere i buoni lavoro, i cosiddetti “voucher”, presso tutti i 14mila uffici postali d’Italia. Poste Italiane e Inps hanno così esteso la fase sperimentale a tutto il territorio nazionale.

I voucher sono uno strumento innovativo che facilita la prestazione regolare di lavoratori impegnati per un periodo di tempo limitato (lavoro occasionale e accessorio). Sono in vendita negli uffici postali nel valore nominale di 10, 20 e 50 euro e disponibili anche in carnet da 25 pezzi. Nella cifra sono previste la copertura assicurativa attraverso l’Inail e quella previdenziale attraverso l’Inps, di conseguenza i periodi di lavoro sono pienamente riconosciuti a fini pensionistici. Il datore di lavoro può acquistare i voucher in contanti o tramite Postamat, presentando la tessera sanitaria per la verifica del codice fiscale o comunicando la partita Iva. E’ previsto un limite giornaliero di acquisto di 5. 000 euro lordi. Dal giorno successivo all’acquisto, e prima dell’inizio della prestazione di lavoro, il datore di lavoro dovrà comunicare all’Inps il proprio codice fiscale, la tipologia di attività, i dati del prestatore (nome,cognome, codice fiscale), il luogo di lavoro, la data d’inizio e fine della prestazione. I buoni lavoro sono riscuotibili dal secondo giorno successivo alla fine della prestazione di lavoro occasionale. La comunicazione deve essere effettuata chiamando il Contact Center Inps-Inail al numero 803164, o collegandosi con il sito www. Inps. It e attivando la connessione alla pagina Lavoro occasionale o recandosi presso una sede Inps.

Per accedere, il committente deve indicare il proprio codice fiscale e digitare come password il codice identificativo (16 caratteri) di uno dei buoni lavoro acquistati o il Pin assegnato dall’Inps.

I buoni lavoro potranno essere incassati presso tutti gli uffici postali sul territorio nazionale dal secondo giorno successivo alla fine della prestazione di lavoro occasionale. Per riscuotere il lavoratore deve presentarsi con la propria tessera sanitaria per la verifica del codice fiscale.

I prestatori potranno riscuotere i buoni lavoro entro due anni dal giorno dell’emissione. Il committente che non utilizza i buoni lavoro acquistati potrà chiederne il rimborso presso le sedi dell’Inps.

SULLA LEGITTIMITÀ DELLA REAZIONE DATORIALE A CONDOTTE ILLECITE DEI LAVORATORI TRIBUNALE DI MELFI

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Non rientra nella nozione di sciopero la condotta di chi pone in essere interventi materiali sugli impianti per impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale. Pertanto non è antisindacale il licenziamento di attivisti e militanti sindacali che durante uno sciopero abbiano deliberatamente stazionato davanti a carrelli automatici per l’approvvigionamento delle linee produttive, impedendone il riavvio, con violazione di norme prevenzionistiche dettate per la tutela della loro stessa incolumità e con grave danno per il datore di lavoro, gravità da valutare rapportandola alla particolare situazione di crisi economica e di difficoltà vissuta dal mercato automobilistico.

SULLA LEGITTIMITà DELLA REAZIONE DATORIALE A CONDOTTE ILLECITE DEI LAVORATORI TRIBUNALE DI MELFI (lavoratori FIAT)

15 luglio 2011 – Est. Palma – S. A. S. P. A. C. Fiom Cgil.

Non rientra nella nozione di sciopero la condotta di chi pone in essere interventi materiali sugli impianti per impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale. Pertanto non è antisindacale il licenziamento di attivisti e militanti sindacali che durante uno sciopero abbiano deliberatamente stazionato davanti a carrelli automatici per l’approvvigionamento delle linee produttive, impedendone il riavvio, con violazione di norme prevenzionistiche dettate per la tutela della loro stessa incolumità e con grave danno per il datore di lavoro, gravità da valutare rapportandola alla particolare situazione di crisi economica e di difficoltà vissuta dal mercato automobilistico.

Svolgimento del processo. – – Con ricorso depositato in data 21 luglio 2010, Fiom-Cgil di P. Azionava il procedimento sommario di cui all’art. 28 st. Lav. , chiedendo al giudice adito di accertare e dichiarare il carattere antisindacale della condotta posta in essere da S. A. , S. P. A. , in relazione ai licenziamenti intimati ai lavoratori L. A. , B. G. E P. M. , e, per l’effetto, ordinare alla società resistente di cessare il detto comportamento, rimuovendo gli effetti dei disposti licenziamenti mediante l’immediata reintegrazione dei citati lavoratori.

A sostegno di tali richieste, l’o. S. Ricorrente deduceva che i licenziamenti de quibus erano, in primo luogo, fondati su una contestazione inveritiera (e quindi illegittimi, poiché privi di giusta causa), in quanto – – diversamente da quanto sostenuto dall’azienda – – la movimentazione dei carrelli Agv dall’area picking delle Ute n. 3 e 4, durante lo sciopero del 7 luglio 2010, non era stata interrotta dalla presenza dei lavoratori licenziati (che, in tesi, ne avrebbero ostruito la corsa), bensì sospesa dai responsabili Ute, in ragione dell’adesione degli operai alla mobilitazione. Conseguentemente,

la sanzione aveva altresì carattere antisindacale, in quanto irrogata a due delegati (L. E B. ) e ad un iscritto (P. ) Fiom, a causa del ruolo da questi esercitato in azienda in occasione delle mobilitazioni che hanno interessato lo stabilimento di Melfi, e, in particolare,dell’attività sindacale dai medesimi svolta nel corso dello sciopero tenutosi in data 7 luglio 2010.

Si costituiva la S. A. S. P. A. , la quale impugnava l’avverso dedotto, chiedendone il rigetto.

Con decreto del 9 agosto 2010 il Tribunale di Melfi, all’esito della fase sommaria, dichiarava l’antisindacalità dei licenziamenti intimati da S. A. S. P. A,, in data 13-14 luglio 2010, ai lavoratori L. A. , B. G. E P. M. , e, per l’effetto, ordinava a S. A. S. P. A. La immediata reintegra dei suddetti lavoratori nel proprio posto di lavoro; ordinava, altresì, la pubblicazione del dispositivo, a cura e spese della società resistente, sui quotidiani «II Corriere della Sera» e «La Repubblica».

Con ricorso in atti, la Sa. S. P. A. Proponeva opposizione al decreto emesso ex art. 28 legge n. 300/1970 dal Tribunale di Melfi in data 9 agosto 2010 deducendo che il giudice di prime cure aveva erroneamente valutato gli esiti dell’attività istruttoria seppur sommariamente svolta e, pur addivenendo ad una esplicita dichiarazione di censura del comportamento tenuto dai tre lavoratori licenziati, contraddicendosi, aveva ritenuto la vicenda frutto di una incomprensione per mancanza di volontà da parte di questi di costituire un ostacolo alla ripresa della produzione aziendale.

Chiedeva la revoca del decreto opposto. L’associazione sindacale convenuta si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell’opposizione. Veniva espletata copiosa prova testimoniale ed acquisita nuova documentazione in corso di giudizio. All’odierna udienza la causa è stata decisa per i motivi che seguono.

Motivi della decisione. – – L’opposizione è fondata è può essere accolta.

Della correttezza della procedura sanzionatoria Va osservato che risulta completamente destituita di ogni fondamento giuridico, oltre che palesemente contraria all’evidenza della scansione temporale documentata in atti (doc. 21 e 17 bis della produzione Sa. ), l’eccezione di violazione dell’art. 14 dell’accordo interconfederale del 18 aprile 1966 (doc. 11 – e non 10 come pure erroneamente indicato in ricorso – del fascicolo della Fiom) per non avere la resistente fatto «seguire» la notifica effettuata all’associazione ai telegrammi comunicati ai lavoratori, avendola invece trasmessa «contestualmente».

DIRITTO SINDACALE a questi. Basta osservare i rispettivi orari di trasmissione per rendersi conto che la comunicazione all’associazione è avvenuta successivamente, seppur di alcuni minuti, a quanto comunicato ai lavoratori rappresentanti sindacali, nel pieno rispetto del dato letterale del testo dell’accordo.

Persistenza di un interesse alla presente pronuncia

Preliminarmente va sottolineato che seppur ormai apparentemente esaurita la condotta (rectius l’azione) censurata dell’azienda, per essere di fatto la stessa cessata e cristallizzata negli eventi avvenuti la notte tra il 6 ed il 7 luglio u. S. , quindi non suscettibile di facilmente riproporsi, per lo meno con le medesime modalità (come ad esempio potrebbe al contrario riguardare l’ipotesi astratta di una condotta antisindacale volta alla mancata possibilità, riproponibile nel tempo, di usufruire di permessi sindacali o di organizzare assemblee), tuttavia questa risulta tuttora persistente e idonea a produrre verosimilmente effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria (secondo appunto quanto prospettato e dedotto dall’associazione opposta), sia per la situazione di incertezza che ne potrebbe conseguire, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell’attività sindacale per il futuro (con la pur dedotta difficoltà di proselitismo sindacale a discapito di altre sigle ed associazioni pur rappresentate in azienda); del resto è circostanza notoria che i tre licenziati, seppur formalmente reintegrati nel proprio posto di lavoro, di fatto non hanno la possibilità di espletare in concreto alcuna mansione (pag. 22 delle note autorizzate Fiom). Infatti, sul punto la Suprema Corte ha evidenziato che «in tema di repressione della condotta antisindacale, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970, il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l’ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell’attività sindacale» (Sez. Lav. , sentenza n. 23038 del 12 novembre 2010).

Precisazioni sull’oggetto del presente giudizio

Sempre preliminarmente, è opportuno ricordare e precisare (avendo ripercussioni sul percorso logico giuridico che il giudicante ed il lettore dovranno effettuare anche alla luce della giurisprudenza richiamata di seguito) che oggetto del presente giudizio è l’accertamento o meno di una censurabile condotta antisindacale posta verosimilmente in essere dal datore di lavoro nei confronti del sindacato resistente, appunto ex art. 28 l. N. 300/1970, e non, per lo meno in via diretta (secondo quanto meglio si dirà infra), l’illegittimità dei tre licenziamenti irrogati nell’occasione dei fatti per cui è causa, i quali, piuttosto, avrebbero dovuto essere oggetto di altro giudizio, di merito o cautelare, con specifico oggetto (non essendoci in atti, e non potendocene evidentemente essere, visto il particolare procedimento azionato, correlativa domanda, se non nelle conclusioni dell’opponente come formula di stile e pronunzia accessoria).

Sicché la emananda pronunzia non potrà che riguardare, appunto, l’antisindacalità o meno del comportamento tenuto nell’occasione dalla Sa. E non direttamente la illegittimità o meno del licenziamento irrogato ai tre dipendenti, la cui reintegra o meno sul posto di lavoro sarà una mera

conseguenza della pronunzia di cui sopra, piuttosto che un ordine oggetto di specifica statuizione. Tuttavia, considerato che l’antisindacalità della suddetta condotta troverebbe riscontro fattuale e giuridico, secondo la prospettazione del sindacato, proprio nella manifesta illegittimità dei licenziamenti, per essere stati questi irrogati senza la sussistenza di una giusta causa, dovendo in un certo qual modo motivare anche con riferimento al richiamato concetto di sproporzione pur fatto dal giudice di prime cure (cfr. Punto 5), è evidente che, seppur incidenter tantum, la sussistenza dei loro relativi presupposti costituirà oggetto di disamina quale antecedente logico necessario per addivenire alla pronunzia di insussistenza di antisindacalità nella condotta censurata. Del resto, che i due concetti giuridici di «condotta antisindacale» e « licenziamento illegittimo» non coincidano ma siano distinti tra loro, sicché la equiparazione illegittimità-antisindacalità non è automatica, con la logica conseguenza che se vi è condotta antisindacale i licenziamenti irrogati in occasione di questa sono illegittimi, ma non necessariamente che la illegittimità dei licenziamenti presuppone e comporta la antisindacalità della condotta, si rinviene in maniera chiara in una pronunzia riguardante la vicenda giudiziaria in un caso similare (Cass. Sez. Lav. Sentenza n. 9250 del 2007). Ancora più esplicitamente si è espressa sul punto altra giurisprudenza secondo cui «le azioni di cui agli artt. 28 e 18 della legge n. 300 del 1970 hanno vita autonoma per cui non osta all’emanazione del provvedimento ex art. 28 la circostanza che il separato ricorso individuale ex art. 18 sia stato previamente rigettato, in quanto l’efficacia a favore del lavoratore singolo dell’eventuale accoglimento del ricorso sindacale ex art. 28 non deriva dal provvedimento, ma dall’attuazione del

provvedimento, secondo il principio che è la reintegra effettiva che incide sulla sfera giuridica, e non la statuizione che dispone la reintegrazione che, essendo emanata in sua assenza, non lo tocca in alcun modo al punto che il lavoratore non può porla a fondamento della domanda relativa alle conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo. Il regime di stabilità del rapporto individuale non esplica effetti sull’esperibilità del ricorso ex art. 28, poiché tale strumento può essere azionato in qualsiasi impresa, indipendentemente dal numero degli addetti ivi occupati» (Sez. 0, Sentenza n. 0 del 30 marzo 1988 Pretore di Cingoli).

La definizione di condotta antisindacale nella giurisprudenza

Le particolarità di questo tipo di azione, ossia del giudizio promosso ex art. 28 l. N. 300/1970, sono state riassunte: a) nella specialità delle regole processuali che prevedono uno speciale e sommario procedimento dinanzi al pretore (ora Tribunale in composizione monocratica ex d. Lgs. N. 51/1998) che decide con decreto; b) nell’attribuzione dell’azione a un soggetto collettivo, il sindacato; c) nell’adozione di un particolare strumento sanzionatorio, la sanzione penale per il datore di lavoro che non ottemperi al decreto con cui il pretore abbia disposto la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti; d) nell’uso di una particolare tecnica normativa per l’identificazione della fattispecie. A tale ultimo riguardo è stato osservato che la norma fornisce una definizione non analitica, ma teologica della nozione di condotta sindacale. In altri termini qualifica antisindacale non una determinata condotta in base alle sue modalità esteriori, ma qualsiasi condotta diretta a un determinato risultato, diretta cioè a impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, nonché del diritto di sciopero.

La descrizione della condotta in termini così ampi, a maglie larghe come è stato anche detto, risponde a una scelta tecnica del legislatore, consapevole del fatto che, nella realtà del conflitto industriale a livello di azienda, la libertà sindacale e il diritto di sciopero possono essere violati in una varietà di modi difficilmente tipizzabili a priori in un testo di legge. Ha determinato, peraltro, più di una incertezza applicativa circa i limiti della qualificazione della condotta sindacale; e strettamente connesso con tale problema, circa la necessità o meno di un elemento soggettivo da

parte dell’imprenditore, l’intento di impedire o limitare la libertà sindacale e il diritto di sciopero. L’ampia lettera della legge deve, tuttavia, far ritenere che qualsiasi condotta idonea a ledere i beni indicati debba essere considerata antisindacale: e pertanto non soltanto le condotte dirette

esclusivamente a impedire l’attività sindacale, come l’impedire lo svolgimento di un’assemblea sindacale o minacciare sanzioni disciplinari contro coloro che avessero scioperato, ma anche condotte che in astratto potrebbero anche essere legittime, ma che in concreto sono state adottate per motivi antisindacali. Così, ad esempio, nel caso di licenziamento o di trasferimento di un lavoratore a causa del suo impegno sindacale.

Per quanto riguarda la necessità di un elemento intenzionale, occorre prendere atto di un contrasto giurisprudenziale molto vasto e ormai risalente nel tempo. Difatti alcune decisioni della Suprema Corte hanno affermato che, ai fini della configurabilità di una condotta antisindacale del datore di lavoro, è necessario non solo che sussista un comportamento oggettivamente idoneo ad ostacolare o limitare l’attività sindacale, ma anche che questo sia intenzionalmente diretto a conseguire tale scopo (Cass. 6 maggio 1977, n. 1739; Cass. 22 settembre 1978, n. 4270; Cass. 5 giugno 1981, n. 3635; Cass. 20 luglio 1982, n. 4281; Cass. 8 febbraio 1985, n. 1005; Cass. 17 febbraio 1987, n. 1713; Cass. 27 luglio 1990, n. 7589; Cass. 8 maggio 1992, n. 5454; Cass. 30 luglio 1993, n. 8518; Cass. 12 agosto 1993, n. 8673). Altre decisioni, invece, ritengono che per la configurabilità di una condotta antisindacale sia sufficiente il solo requisito dell’oggettiva idoneità del comportamento del datore di lavoro a ledere la libertà e l’attività sindacale e il diritto di sciopero e che, pertanto, non rilevi che l’imprenditore abbia inteso perseguire o meno uno scopo antisindacale (Cass. 6 giugno 1984, n. 3409; Cass. 3 giugno 1987, n. 4871; Cass. 19 gennaio 1990, n. 295; Cass. 16 luglio 1992, n. 8610). Tra i due opposti orientamenti un recente filone giurisprudenziale che ritiene l’elemento psicologico dell’intenzionalità non rilevi nei casi in cui la condotta del datore di lavoro sia in contrasto con una norma imperativa; deve, invece, sussistere quando il comportamento del datore di lavoro integri gli estremi dell’abuso del diritto (Cass. 13 febbraio 1987, n. 1598; Cass. 7 luglio 1987, n. 5922; Cass. 3 luglio 1992, n. 8143; Cass. 22 luglio 1992, n. 8815; Cass. 19 luglio 1995, n. 7833; Cass. 13 gennaio 1996, n. 232). Alla base delle decisioni che ritengono necessario l’elemento intenzionale sono stati posti tre diversi argomenti, uno letterale, uno sistematico e uno teleologico. Con l’argomento letterale si sostiene che l’espressione «diretta a» attesta chiaramente la necessità di una finalizzazione cosciente e volontaria della condotta del datore di lavoro; con l’argomento teleologico si afferma che la disposizione tende ad assicurare un corretto svolgimento delle relazioni sindacali nei luoghi di lavoro attraverso una severa penalizzazione dell’intenzione del datore di lavoro di non rispettare tali regole; con l’argomento sistematico si osserva che una opinione che non tenesse conto della necessità che la condotta antisindacale sia assistita da un substrato psicologico, «finirebbe per introdurre nel nostro ordinamento e contro il dato normativo una figura di illecito civile concretizzante una specifica ed estremamente ampia forma di c. D. Responsabilità oggettiva, la cui area di operatività è sottoposta nel nostro ordinamento ad una progressiva opera di riduzione si da configurarsi come istituto di natura eccezionale». Nessuno di questi tre argomenti appare del tutto convincente. Difatti, per quanto riguarda l’argomento letterale, si deve osservare che l’espressione «comportamenti diretti a impedire o limitare» significa che la condotta posta in essere dal datore di lavoro deve essere «obiettivamente» diretta a impedire o a limitare la libertà sindacale o il diritto di sciopero, ma non implica necessariamente che il datore di lavoro debba avere anche l’intenzione di produrre quel determinato risultato. Potrebbe, anzi, sostenersi il contrario; se il legislatore avesse voluto la sussistenza di un requisito così importante, come l’elemento soggettivo, lo avrebbe espressamente indicato, come del resto ha fatto l’art. 2043 c. C. , in tema di fatto illecito. Difatti, se nonostante un così autorevole precedente legislativo, il legislatore del 1970 non ha espressamente indicato la necessità del requisito soggettivo, è segno evidente che tale necessità non sussisteva.

Per quanto riguarda l’argomento teleologico va, invece, osservato che il fine di assicurare la libertà sindacale è meglio perseguito con una tutela di tipo obiettivo, non condizionata dalla sussistenza di un intenzionale comportamento del datore di lavoro; che tutta la disciplina dell’art. 28 tende non tanto a punire il datore di lavoro e ad assicurare il risarcimento del danno, quanto a garantire in ogni caso l’inibizione e la repressione di ogni attività lesiva della libertà sindacale o del diritto di sciopero; che tale finalità, in questa come in tutte le azioni civilistiche di tipo inibitorio, è meglio perseguita con una tutela di carattere obiettivo, non condizionata dalla sussistenza di un intenzionale comportamento del datore di lavoro; che la sussistenza o meno di tale requisito soggettivo finirebbe per determinare una ingiustificata disparità di trattamento di casi che presentano uguali necessità di tutela, in quanto eguale è l’interesse giuridicamente rilevante, l’inibizione della condotta lesiva della libertà sindacale. Per quanto riguarda, poi, l’argomento sistematico va in primo luogo osservato che la c. D. Responsabilità oggettiva non soltanto non è un istituto eccezionale e soggetto a continua erosione, ma, al contrario, è in continuo sviluppo, tanto da essere considerato un principio generale nell’attività imprenditoriale con la nota, e ormai sempre più recepita dottrina, del cosiddetto rischio di impresa. In realtà vi è una certa tendenza a ritenere che la principale, se non l’unica, reazione all’illecito civile sia l’azione risarcitoria, condizionata ai due estremi, quello, obiettivo, della sussistenza di un danno patrimoniale e quello, soggettivo, della colpa o del dolo da parte dell’autore dell’illecito. La tesi, basata sull’importanza paradigmatica dell’art. 2043 c. C. , non tiene conto del fatto che in tal modo una gran parte degli illeciti civili sarebbe del tutto priva di sanzione: così quelli che non hanno prodotto, o non hanno prodotto ancora, un danno patrimoniale; ovvero quelli in cui l’autore ha causato un danno patrimoniale senza dolo o colpa.

In tal modo tuttavia non si tiene presente che, nel caso in cui la condotta illecita sia di natura tale che possa continuare a ripetersi nel futuro, una reazione efficace non può essere costituita dalla sola azione risarcitoria. Questa, infatti, non potrebbe essere esperita nei casi in cui non sussista il requisito oggettivo del danno patrimoniale, o quello soggettivo del dolo o della colpa dell’autore dell’illecito; e comunque anche in tali casi porrebbe l’autore dell’illecito nella possibilità di scegliere tra il risarcimento dei danni e la persistenza nella commissione o nella ripetizione di un atto o di una attività illecita.

In realtà quando l’illecito può continuare o ripetersi nel futuro, l’unica reazione efficace è costituita solo dall’azione inibitoria: un’azione diretta ad ottenere non la condanna del convenuto al risarcimento del danno che ha causato, ma l’ordine dei giudice rivolto alla parte soccombente di inibire la continuazione della condotta illecita (come sì esprime l’art. 2599 c. C. ) o di cessazione del fatto lesivo (come negli artt. 7 e 10 c. C. ). L’ordine può avere come contenuto un non fare (inibitoria negativa nei casi di illecito commissivo espressamente prevista dal legislatore in varie norme come gli artt. 7, 10, 949, 1079 e 2599 c. C. ) o anche un fare (inibitoria positiva, nei casi di illecito omissivo, non espressamente prevista dal legislatore, ma applicata dalla giurisprudenza in tema di immissioni (art. 844 c. C. ), di modificazioni della ditta (art. 2564 c. C. ), di diritto di autore (art. 156 l. 22 aprile 1941, n. 633) e, in generale, di provvedimenti di urgenza (art. 700 c. P. C. ).

L’emanazione dell’ordine da parte del giudice non costituisce una mera ripetizione di ciò che è già prescritto dalla legge, ma produce effetti di carattere civile e penale. I primi sono previsti ad esempio nell’art. 66 della legge sui brevetti per marchi d’impresa, e nell’art. 86 della legge sui brevetti per invenzioni industriali ove si dispone che il giudice possa fissare nella sentenza di condanna una somma dovuta per ogni ritardo nella esecuzione dei provvedimenti contenuti nella stessa; e una norma analoga si trova nell’art. 18 co. 7 st. Lav. Che dispone che il datore di lavoro, che non ottempera alla sentenza, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore. Gli effetti penali sono invece previsti dall’art. 388 c. P. Per i casi di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice.

Si tratta di effetti previsti in casi particolari, ma che per la loro funzione sono stati ritenuti applicabili in ogni caso di azione inibitoria. Peraltro, per quanto riguarda la condotta antisindacale, il legislatore ha specificamente previsto una sanzione penale dell’ordinanza inibitoria.

La natura inibitoria dell’azione a tutela della libertà sindacale induce a ritenere che, ai fini della configurabilità di un comportamento antisindacale, sia irrilevante l’elemento psicologico del datore di lavoro. Ciò che il giudice deve accertare, è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre il risultato che la legge intende impedire e, cioè, la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero.

La sussistenza o meno di un intento del datore di lavoro di ledere tali diritti non è necessaria né sufficiente.

Non è necessaria perché un errore di valutazione del datore di lavoro che non si è reso conto della portata causale della sua condotta non fa venir meno l’esigenza di una tutela della libertà sindacale e della inibizione dell’attività oggettivamente lesiva di tale libertà.

Non è sufficiente in quanto l’intento del datore di lavoro non può far considerare antisindacale un’attività che non appare obiettivamente diretta a limitare la libertà sindacale. L’esistenza di un elemento intenzionale è certamente irrilevante nelle condotte previste espressamente dalla legge come antisindacale, ossia in tutte quelle condotte del datore di lavoro che contrastano con norme imperative destinate a tutelare, in via diretta e immediata, l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale: così, ad esempio, nel caso del diniego del datore di lavoro di consentire lo svolgimento dell’assemblea sindacale ai sensi dell’art. 20 st. Lav. ; del rifiuto di mettere a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali locali idonei per l’esercizio delle loro funzioni (art. 27 st. Lav. ); del disconoscimento dei permessi previsti dagli artt. 23 e 24 st. Lav.

L’elemento intenzionale è peraltro irrilevante anche nei casi in cui l’uso di strumenti, in astratto leciti, appare, nelle circostanze concrete, oggettivamente idoneo, nel risultato, a limitare la libertà sindacale.

Così, ad esempio, nel caso della chiusura dello stabilimento in ore coincidenti con quelle di uno sciopero in precedenza proclamato dalle organizzazioni sindacali; nel caso di licenziamento o di trasferimento all’interno di un’azienda di un lavoratore particolarmente impegnato nell’attività sindacale.

Di conseguenza, nel caso come quello in esame, in cui il datore di lavoro ha proceduto al licenziamento di alcuni lavoratori durante uno sciopero proclamato, tra i quali dei sindacalisti, è necessario accertare non l’intenzione del datore di lavoro di volere ledere la libertà sindacale, ma la sussistenza di una obiettiva disparità di trattamento per quanto riguarda l’individuazione dei lavoratori da licenziare (infatti, il sindacato sostiene che i tre lavoratori sarebbero stati licenziati unicamente in quanto appartenenti alla Fiom; discriminandoli da tutti gli altri partecipanti, tra cui sindacalisti di altre sigle, che pure avevano sostato sul percorso degli Agv; cfr. Pag. 18 della memoria di costituzione).

Come meglio si dirà con riferimento alle risultanze istruttorie, il Tribunale ritiene che il datore di lavoro non abbia posto in essere nel caso di specie nessuna obiettiva disparità di trattamento per l’individuazione dei lavoratori da licenziare (nonostante il riferimento fatto dal B. , durante la propria deposizione, al complotto organizzato dal T. A suo danno), pertanto, il suo comportamento non può essere considerato antisindacale; non rilevando in alcun modo, se non per pura coincidenza (ossia che gli unici tre lavoratori rimasti imperterriti a costituire consapevolmente un ostacolo alla possibilità di riprendere la riproduzione fossero proprio ed esclusivamente i tre che sono anche appartenenti al sindacato opposto), che, conseguentemente alla puntuale valutazione del concreto svolgimento dei fatti (il riferimento sarà alle due fasi emerse dall’istruttoria), del giusto e diverso peso attribuito ai due diversi atteggiamenti e, quindi, ben diverse responsabilità individuate dall’azienda, tutti i lavoratori licenziati fossero impegnati anche sindacalmente con la Fiom. Si perverrebbe anzi a conclusioni aberranti proprio ove si condividesse l’assunto difensivo dell’associazione sindacale opposta secondo cui, nonostante l’evidente differenza, anche temporale, emersa nel corso dell’istruttoria tra il comportamento di tutti gli altri astanti che, una volta resi consapevoli, ai primi richiami, della loro posizione abnorme, decidevano si spostarsi e chi (appunto i tre licenziati), invece, coscientemente riteneva di persistere ripetutamente o, addirittura, vi si portava deliberatamente (il P. , prima non presente davanti all’Agv) con atteggiamento di sfida e minaccia (è il caso della riferita esplicita volontà di estendere la contestazione all’intero montaggio dichiarata dal B. Nell’occasione o la posizione a braccia conserte del P. ), andassero licenziati tutti i lavoratori partecipanti allo sciopero e presenti sul luogo per cui è causa; evidentemente così trattando e sanzionando in maniera eguale condotte e responsabilità palesemente diseguali, a meno di decidere di non licenziare nessuno, nemmeno i predetti tre lavoratori, pena l’addebito di una condotta obiettivamente antisindacale. Sul punto, non convince nemmeno il richiamo fatto dal giudice di prime cure nel decreto opposto alla sproporzione tra la sanzione irrogata (il licenziamento) e la condotta concretamente posta in essere dai tre; infatti, proprio considerando l’evoluzione degli accadimenti in concreto e nella loro globalità è da ritenere che se quanto posto in essere dai licenziati doveva essere oggetto di sanzione più blanda allora addirittura nessun rimprovero, a maggior ragione, poteva muoversi alla condotta, seppur meramente colpevole, posta in essere da tutti gli altri partecipanti; al contrario, al fine di soppesare in maniera diversa e pro porzionata i due diversi momenti evolutivi della vicenda, non può non ritenersi corretto l’operato dell’azienda. Infatti, adottando il criterio «di tutta l’erba un fascio» sostenuto dal sindacato opposto, la resistente avrebbe sì scongiurato la possibilità che il proprio comportamento, consistito nel licenziare solo i tre appartenenti alla Fiom, fosse tacciato come condotta antisindacale, però avrebbe licenziato illegittimamente tutti gli altri partecipanti allo sciopero, compresi gli altri esponenti delle diverse sigle sindacali, cosi esponendosi a molteplici impugnative di licenziamento volte ad evidenziare la sproporzione con la condotta meramente colposa di questi ultimi (che non aveva finalità di sabotaggio, come pure apparso in dichiarazioni pubblicate su un noto settimanale versato in atti, secondo quanto si evidenzierà essere risultato dall’istruttoria); se invece avesse punito tutti con una sanzione meno grave del licenziamento, comunque sarebbe stata viziata da sproporzione, considerando, appunto, che i due comportamenti avuti dai partecipanti nelle due distinte fasi non possono valutarsi con lo stesso disvalore; a meno di ritenere non applicabile nessun provvedimento disciplinare pur in presenza di condotte che già in fase sommaria apparivano al giudice «censurabili» (cfr. Decreto opposto).

L’esatta portata del principio di immutabilità della contestazione

Premessa la distinzione tra i concetti giuridici di antisindacalità della condotta ed illegittimità del licenziamento, precisato l’oggetto del presente giudizio e definito cosa si intende per condotta antisindacale, è necessario soffermarsi sui comportamenti oggetto delle contestazioni disciplinari e verificare se vi sia stata o meno una violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare da parte della società odierna opponente come sostenuto dal sindacato opposto (pag. 14 della memoria di costituzione) e come rilevato dal giudice della fase sommaria nel proprio decreto (punto 3).

Orbene, l’azienda testualmente contestava ai tre lavoratori poi licenziati: «avvicinatisi ai carrelli i [. ] responsabili La vedevano posizionato all’interno dell’area delimitata da apposite linee gialle ove vige, per motivi di sicurezza, specifico divieto di transito e sosta del personale, proprio sulla banda magnetica su cui scorrono i carrelli, davanti ad un carrello, in maniera da impedirne deliberatamente il transito. A tal punto La invitavano a spostarsi per consentire il passaggio del carrello [. ]» (cfr. Lettere di contestazione del tutto equivalenti). Il giudicante della fase sommaria, aderendo all’assunto difensivo dell’associazione ricorrente, riteneva in decreto che vi fosse una divergenza tra quanto inizialmente e formalmente contestato dall’azienda ai propri dipendenti e quanto dedotto in comparse, poi, emerso nel corso della sommaria istruttoria espletata; in particolare soffermandosi tra le due distinte fasi di svolgimento della vicenda per cui è causa, ossia distinguendo tra una condotta commissiva, verosimilmente dovuta ad un contatto con l’Agv, ed una omissiva, priva del necessario elemento soggettivo (dolo), caratterizzata dallo stazionamento illegittimo, ma frutto di incomprensione, sul percorso riservato ai carrelli. Sosteneva quindi la mancata integrazione del comportamento contestato (letto però in maniera parziale, per quanto si evidenzierà, ed interpretato restrittivamente, mancando di considerare l’altra parte delle lettere di contestazione ed il significato polivalente dei predicati verbali in esse contenuti) e, comunque, l’assenza di qualsivoglia intenzionalità in capo ai tre lavoratori (anche qui erroneamente considerando solo la prima parte degli eventi e tralasciando la circostanza che la sussistenza dell’elemento psicologico maturava in essi solo successivamente, a seguito dei ripetuti richiami, su cui ci si soffermerà più dettagliatamente di seguito). Detto ciò, tralasciava espressamente (cfr. Decreto) però poi di esaminare il principio di immodificabilità della contestazione disciplinare per vagliarne la portata e l’effettiva violazione.

In via preliminare va precisato che nelle richiamate tre lettere di contestazione è riportata altresì descritta anche la c. D. Seconda fase dello sviluppo degli eventi per cui è causa, nella parte in cui si legge «[. ] sempre fermo nella suddetta area davanti ai carrelli Agv tanto da impedirne il transito [. ] la invitava [. ] a lasciare libera l’area interdetta al personale ed a consentire il regolare transito dei carrelli in quanto tale suo comportamento stava provocando il blocco dell’attività produttiva, ma ella, [. ] continuava a rimanere fermo davanti al carrello [. ]»; cosicché lo svolgimento dei fatti appare riportato nella sua globalità e non si ritiene che l’azienda abbia mutato, in concreto, il fatto oggetto di contestazione; inoltre, la tesi del «c. D. Contatto» non trova esplicito riscontro nelle formali contestazioni e nelle lettere di licenziamento quanto, piuttosto, nella memoria di costituzione dell’azienda, dove compare come il frutto di una mera presunzione (nella parte in cui si sostiene che, essendo inizialmente in funzione gli Agv, poiché erano stati rinvenuti fermi nei pressi degli scioperanti dagli addetti che avevano risalito a ritroso il loro percorso, necessariamente e di conseguenza dovevano essere stati questi a bloccarli, urtandoli) e deduzione difensiva piuttosto che elemento suffragato da riscontro probatorio (infatti, sul punto è risultata infondata anche la tesi di una volontà di sabotaggio degli scioperanti contenuta in alcune dichiarazioni pubblicate su un noto settimanale nazionale ed acquisite agli atti). A ciò si aggiunga inoltre che il contenuto della lettera di contestazione del 7 luglio 2010 (doc. 9 della produzione documentale Sa. ) veniva espressamente richiamato per relationem dalle comunicazioni del 14 luglio 2010 (doc. 16 e 20). Orbene, l’esplicito riferimento contenuto formalmente nelle tre lettere di contestazione al generico ed omnicomprensivo predicato verbale «impedire», rafforzato dall’avverbio «deliberatamente», volto appunto ad evidenziare anche la sussistenza dell’elemento psicologico, non può non comportare, già ad una prima e superficiale lettura, che l’impedimento al transito degli Agv e, di conseguenza alla produzione, possa essere stato in concreto posto in essere tanto con condotta commissiva che omissiva; per cui, già solo questo, comporterebbe la astratta possibilità di sussumere entrambi i comportamenti nell’unica formale descrizione dei fatti contestati, senza comportarne, di fatto, una modificazione.

A tali considerazioni si aggiunga poi che la violazione del c. D. Principio di immutabilità della contestazione presuppone l’esame dell’esatta portata dello stesso onde evitare che qualsivoglia divergenza comporti necessariamente una automatica violazione dello stesso.

Il principio di diritto giurisprudenziale della immutabilità dei fatti in cui si sostanziano gli addebiti disciplinari, secondo cui deve esservi una identità del contesto fattuale che giustifica la procedura nel suo momento iniziale e finale, mutuato dalle regole base del diritto processuale penale, deve essere inteso in relazione alla sua funzione di garanzia di esercizio del diritto di difesa del lavoratore. Di conseguenza, non può qualsiasi divergenza fattuale fra la contestazione iniziale e quella finale (ammesso che ve ne siano nel caso di specie, secondo quanto evidenziato innanzi) tradursi in una violazione del diritto in questione senza che il giudice di merito abbia accertato se la divergenza sia tale da aver compromesso l’esercizio del predetto diritto di difesa.

Il Tribunale, senza procedere ad una motivata valutazione della incidenza sul diritto stesso di tale divergenza ha ritenuto che, per una sorta di automatismo, a qualsiasi divergenza consegua la violazione del principio di immutabilità: non più visto, quindi, nel suo sostanziale valore garantistico, ma piuttosto nel suo aspetto di mero ritualismo formale.

Innanzitutto, la giurisprudenza ha escluso sicuramente che la mera qualificazione dell’infrazione possa incidere negativamente sul detto principio; infatti, la Suprema Corte ha statuito che «in tema di risoluzione del rapporto di lavoro il principio dell’immutabilità della contestazione riguarda le circostanze di fatto su cui è fondato il licenziamento e non già la qualificazione dell’infrazione addebitata» (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 1833 del 30 marzo 1981). Poi, non qualsivoglia circostanza di fatto comporta necessariamente un mutamento del fatto contestato ma solamente quelle c. D. «significative», ossia che confi gurano «elementi integrativi di fattispecie diversa». Infatti, «i principi di specifica contestazione preventiva degli addebiti e di necessaria corrispondenza fra quelli contestati e quelli addotti a sostegno del licenziamento disciplinare (o di ogni altra sanzione), posti dall’art. 7 st. Lav. In funzione di garanzia del lavoratore, non escludono in linea di principio modificazioni dei fatti contestati concernenti circostanze non significative rispetto alla fattispecie, il che ricorre quando le modificazioni non configurano elementi integrativi di una diversa fattispecie di illecito disciplinare, non risultando in tal modo preclusa la difesa del lavoratore. (In applicazione di tale principio la S. C. Ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto generica la contestazione e mutati i fatti addotti, rispetto ad un licenziamento per violazione dell’obbligo di fedeltà per sviamento della richiesta di un cliente in favore di altra impresa concorrente, sulla base di circostanze non significative concernenti le modalità dello sviamento e la tempestiva individuazione del cliente)» (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 12644 del 13 giugno 2005). Tale divergenza, poi, deve necessariamente comportare «in concreto» una violazione del diritto di difesa del lavoratore (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 8956 del 25 agosto 1993). Orbene, nel caso di specie tutto ciò non appare essere avvenuto.

Infatti, oltre che essere state successivamente, dettagliatamente e specificamente descritte nelle relative lettere di contestazione (di cui alcuni stralci sono stati trascritti prima), le condotte erano prima oggetto di immediata e ripetuta contestazione verbale fatta ufficialmente (secondo quanto specificato dai testi escussi) e ripetutamente in contestualità dello svolgimento dei fatti oggetto di causa. Allora, non appare verosimile che tutti gli astanti siano stati correttamente e chiaramente resi edotti della condotta illegittima inconsapevolmente (in questa prima fase della protesta) da loro posta in essere, abbiano immediatamente compreso la contestazione e, di conseguenza, si siano tutti spostati dal percorso dell’Agv tranne gli imperterriti tre lavoratori della Fiom poi licenziati.

è altresì difficile immaginare che questi non abbiano colto la portata di quanto loro più volte veniva ufficialmente evidenziato se, addirittura, il B. Replicava rispondendo «se qui non possiamo stare, dicci tu dove dobbiamo andare» (cfr. Deposizione, tra le tante del medesimo tenore, di Ma. Pa.  del 15 marzo 2011).

Lo è ancora più difficile se si considera anche che, sempre il B. , nelle medesime circostanze, diceva anche «che, ti si è incantato il disco? » (cfr. , tra le tante, le dichiarazioni rilasciate dal teste M. B. Il 15 marzo 2011), così ironicamente sostenendo, implicitamente, che non era necessario che il T. Ripetesse più volte la medesima contestazione. Ancor meno plausibile lo è se si considera la circostanza che, ad un certo punto, anche il P. , che inizialmente era in posizione defilata e distante dagli Agv, deliberatamente decideva di raggiungere L. E B. Per porsi, a braccia conserte, innanzi al carrello proprio dopo le prime contestazioni ufficiali.

è ancor più difficile condividere la tesi « dell’incomprensione» e della «carenza di elemento psicologico» pur fatta propria dal giudice della fase sommaria nel proprio decreto, quando si consideri l’esplicita minaccia del B. Di voler estendere tale protesta a tutto il montaggio (cfr. Da ultimo, dichiarazioni di M. ).

Tutto ciò considerando, non può poi ritenersi in concreto compromesso il diritto di difesa dei tre lavoratori licenziati (piuttosto avrebbe dovuto esserlo quello del sindacato, precisato che oggetto di causa è l’antisindacalità della condotta e non l’illegittimità dei licenziamenti non impugnati in ricorso) se si considera, inoltre, che questi, di loro sponte, decidevano di predisporre, nell’immediata cessazione della protesta, un documento sottoscritto dai rappresentanti delle varie sigle sindacali che, seppur con valenza meramente interna all’azienda, era teso a giustificare un comportamento che, seppur non ancora contestato come illecito per iscritto, evidentemente era stato autonomamente (e chiaramente, verrebbe da dire) percepito come censurabile tanto da dover ritenere di esercitare prontamente proprio quel diritto di difesa che oggi si vorrebbe sostenere inverosimilmente compromesso.

L’illegittimità della condotta posta in essere dai licenziati.

Stabilito, per quanto dedotto innanzi, che in concreto non può ritenersi esservi stata una violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, con consequenziale violazione in concreto del diritto di difesa dei tre lavoratori ed illegittimità del licenziamento irrogato, bisogna ora approfondire se, in astratto, il tipo di condotta illecita loro contestata possa costituire giusta causa di licenziamento.

Sul punto, in generale, la giurisprudenza, pronunziandosi su un caso analogo, ha specificato che «non è configurabile come antisindacale, ai sensi dell’art. 28 st. Lav. , il licenziamento di rappresentanti sindacali che si ponga come reazione causale al comportamento scorretto e riprovevole di questi ultimi, consistito nell’aggressione di un altro lavoratore, poiché tale comportamento determina la violazione degli obblighi legali e contrattuali connessi al rapporto di lavoro ed alla pacifica convivenza fra lavoratori nella vita dell’azienda; né può rilevare, a tali fini, l’esistenza di un conflitto sindacale in corso, posto che l’esercizio dell’azione sindacale soggiace comunque al limite esterno della impossibilità di tradursi in atti pregiudizievoli di fondamentali diritti del pari garantiti in modo assoluto, come quello alla vita e all’incolumità personale» (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 5815 del 23 marzo 2004). Orbene, facendo corretta applicazione di tali principi al caso in esame, va evidenziato che i tre lavoratori licenziati (due rappresentanti sindacali ed un mero iscritto alla Fiom), venivano appunto sanzionati con la massima sanzione proprio in conseguenza del loro comportamento censurabile tenuto in occasione del proclamato sciopero, consistito nell’avere deliberatamente impedito la produzione aziendale, decidendo di stazionare in una zona loro non consentita (perché riservata al passaggio degli Agv ed interdetta anche dalla normativa in materia di sicurezza); non rilevando, anche nel caso in esame, la dedotta esistenza di un clima di conflitto sindacale per l’adozione di un nuovo c. C. N. L. Presso gli stabilimenti di Cassino e Mirafiori, come sostenuto dalla Fiom. Pertanto, la suddetta protesta avrebbe dovuto svolgersi nell’ambito del rispetto di quel limite esterno richiamato in giurisprudenza (ed esplicitato nell’art. 40 Cost. ), che, nel caso di specie, non tanto consisteva direttamente nel diritto alla vita ed all’incolumità personale (se non indirettamente, avendo potuto avere delle ripercussioni per la violazione delle cautele imposte dalla normativa in materia di sicurezza e presenti su tali luoghi) ma, piuttosto nel diritto al libero esercizio dell’impresa, comunque anch’esso tutelato dalla costituzione all’art. 41. A ciò si aggiunga inoltre che «non è configurabile come antisindacale, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970, la condotta del datore di lavoro che si contrapponga ad un illegittimo comportamento di singoli lavoratori o del sindacato; pertanto, non può attribuirsi carattere di antisindacalità al licenziamento di dipendenti, che abbiano partecipato ad una manifestazione sindacale, ove il recesso del datore di lavoro abbia costituito giustificata reazione causale ad uno scorretto e riprovevole comportamento dei lavoratori, comportante violazione degli obblighi legali e contrattuali» (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 11905 del 3 novembre 1992); così significando che non ricorre automaticamente l’antisindacalità di una condotta per la mera coincidenza che il comportamento illegittimo sia stato posto in essere (come nel caso in esame) durante una manifestazione sindacale se essa è conseguenza del comportamento scorretto dei lavoratori (già riscontrato dal giudice di prime cure come «censurabile»).

Ancora più pertinente sul punto è altra giurisprudenza secondo cui «mentre non integra giusta causa di licenziamento in tronco il comportamento del prestatore d’opera consistente nel persuadere altri a scioperare o nel muovere critiche o rimproveri a chi abbia rifiutato di aderire all’agitazione, esula dai limiti propri del diritto di sciopero quella condotta che, al fine d’impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale, si sia estrinsecata in atti concreti sugli impianti azionati da altri lavoratori, non aderenti allo sciopero, o in interventi materiali su questi ultimi (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 1833 del 30 marzo 1981).

Il precedente storico

Del medesimo tenore è pure Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 8401 del 16 novembre 1987 che si è pronunziata su un precedente storico (in cui era parte resistente proprio Fiat Auto e ricorrente, tra gli altri, Fiom-Cgil) del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio (due lavoratori, in violazione dei limiti del diritto di sciopero, avevano impedito, ostruendo con i loro corpi il passaggio del carrello rifornitore della saldatrice, la prosecuzione dell’attività aziendale) e secondo cui «l’esercizio del diritto di sciopero, riconosciuto dall’art. 40 Cost. , soggiace al limite “esterno” costituito dall’impossibilità di tradursi in atti diretti contro l’organizzazione aziendale, in modo da impedirne il funzionamento o da comprometterne la produttività, o in atti pregiudizievoli di fondamentali diritti del pari costituzionalmente garantiti in modo assoluto, come quello alla vita ed all’incolumità personale. In particolare, è consentito ai lavoratori scioperanti persuadere altri dipendenti a scioperare o muovere critiche o rimproveri a chi abbia rifiutato di aderire all’agitazione, ma è illegittima quella condotta volta ad impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale con interventi sugli impianti o con atti, pur non improntati a forme di violenza o di minaccia, i quali ostacolino il lavoro dei dipendenti che non scioperano, derivando l’illegittimità di tali atti, più che dalla lesione del diritto al lavoro garantito dal co. 1 dell’art. 4 Cost. , dalla loro idoneità a pregiudicare la prosecuzione dell’attività aziendale che il datore di lavoro ha diritto di riorganizzare durante lo sciopero». (Nella specie, l’impugnata sentenza – – confermata dalla Suprema Corte – – aveva escluso l’antisindacalità del licenziamento di due lavoratori, i quali, in violazione dei limiti del diritto di sciopero, avevano impedito, ostruendo con i loro corpi il passaggio del carrello rifornitore della saldatrice, la prosecuzione della attività aziendale). (V 2214/86, mass. N. 445370; V 2840/84, mass. N. 434880; V 1833/81, mass. N. 412524; V 711/80, mass. N. 404147). In tal caso, «ai fini dell’accertamento della sussistenza di una giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c. C. , l’entità materiale del danno subito dal datore di lavoro a causa della condotta del lavoratore ha un rilievo del tutto secondario, dovendosi piuttosto tener conto – – anche per quanto riguarda l’indagine circa la proporzionalità della sanzione – delle modalità di tale condotta e della sua idoneità a scuotere irreparabilmente l’elemento fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro» (V 2689/77, mass. N. 386343; V 1037/77, mass. N. 384672; V 4119/75, mass. N. 378436) (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 1833 del 30 marzo 1981).

Le risultanze probatorie e le palesi contraddizioni

Se questo è l’ambito giuridico delineato dalla giurisprudenza della Suprema Corte entro il quale deve muovere l’accertamento in concreto del caso in esame, va subito precisato che l’istruzione probatoria è stata molto lunga (140 pag. Di verbali) e particolarmente complessa, al cui esito è stato possibile avere esatta contezza dello svolgimento degli accadimenti oggetto di causa e sottoporre al vaglio critico quella ricostruzione scaturita inizialmente dalla parziale (del resto non poteva essere diversamente considerata la necessità di celerità del rito) istruttoria svolta nella fase sommaria; nella valutazione delle prove raccolte nel corso dell’intero giudizio si darà una maggiore valenza probatoria alle dichiarazioni rese dagli informatori nella fase sommaria, pur con assunzione dell’impegno secondo la formula di rito, dopo essere state queste rispettivamente vagliate criticamente e rafforzate da quanto riferito anche dai testi escussi nel giudizio di opposizione. Ciò in quanto oltre ad essere escussi i protagonisti principali della vicenda per cui è causa, le loro dichiarazioni venivano rilasciate nell’immediatezza dello svolgimento dei fatti, con un ricordo pertanto da ritenere più vivo e recente e, soprattutto, più spontaneo.

Orbene, esaminata nel complesso l’istruzione probatoria espletata innanzi al giudice di prime cure e tenuto conto di tutte quelle nuove circostanze emerse solo con le deposizioni rilasciate dai testi escussi nel giudizio di opposizione (il cui contenuto si richiamerà in seguito), appare lampante la contraddittorietà delle dichiarazioni rilasciate dagli informatori portati dall’associazione sindacale ricorrente, mentre coerente risulta la ricostruzione fattane dai responsabili dell’azienda resistente.

In particolare, l’istruttoria espletata nella fase sommaria veniva caratterizzata dalla assunzione di ben otto deposizioni; orbene, mentre le dichiarazioni rese dagli informatori dell’azienda, sig. Ri T. , R. E T. (tralasciando per il momento quella resa dall’ing. Pi. In qualità di tecnico sul funzionamento degli Agv piuttosto che sull’accadimento degli episodi per cui è causa), appaiono chiare, precise e, soprattutto, coerenti tra loro e con quanto emerso anche nel corso dell’istruttoria svolta nel giudizio di opposizione, la ricostruzione dei fatti effettuata da tutti gli informatori condotti dall’associazione ricorrente (B. , P. , M. E S. ) appaiono in maniera evidente tra loro totalmente diverse ed inconciliabili, ma anche in contrasto con quanto riferito dalle persone poi escusse innanzi al giudice dell’opposizione.

Tralasciando la veritiera ricostruzione degli avvenimenti oggetto di causa così come emersa dalle dichiarazioni rilasciate prima dai tre informatori della Sa. Nella fase sommaria e, poi, corroborate da quanto riferito anche dai testi escussi nel giudizio di opposizione, ad un momento immediatamente successivo, preliminarmente si evidenzieranno le palesi incongruità presenti nelle informazioni rilasciate dai quattro informatori della Fiom e di cui nulla si dice nel decreto opposto circa la loro attendibilità piuttosto che quella dei primi.

Infatti, il B. Dichiarava di non avere capito inizialmente il perché delle contestazioni mosse dai responsabili Sa. (circostanza che porterà il giudice della prima fase a concludere nel decreto per un equivoco e difetto di elemento psicologico in capo ai tre licenziati) perché, spiegava immediatamente dopo, l’azienda non aveva mai istruito loro sulla funzione delle linee delimitative gialle presenti sul pavimento nell’immediatezza del percorso dell’Agv. Posto che è difficile immaginare che un lavoratore come lui, con la carica di r. S. U. , nulla sapesse in merito alla segnaletica orizzontale riferita in generale alla sicurezza sul posto di lavoro ed in particolare, nel caso che ci interessa, ai carrellini, nonostante questi erano stati adottati in azienda, a suo dire, da ben due anni prima; è chiara la contraddittorietà con quanto invece affermava subito dopo l’informatore Mi. , la quale dichiarava proprio che tutti già sapevano di non poter sostare sulla banda magnetica riservata al percorso degli Agv, tant’è che non era certo il primo sciopero che facevano e mai nelle precedenti occasioni si erano soffermati sulla predetta banda. Tale dichiarazione serviva infatti per avvalorare altra tesi dalla stessa sostenuta (poi rivelatasi anch’essa in piena contraddizione con quanto detto dagli altri informatori della stessa Fiom), ossia che mai nessuno scioperante («siamo rimasti sempre nella stessa posizione») si era fermato all’interno del percorso riservato all’Agv, poiché «eravamo sulle aree contrassegnate dal colore rosso» (si noti bene il riferimento, sin da ora, fatto alla presenza della segnaletica orizzontale, circostanza che sarà stranamente messa in discussione solo successivamente dai tre licenziati durante gli interrogatori liberi). Dichiarazione come detto in palese contraddizione con quanto riferito prima dal B. : «occupavamo anche la banda magnetica sulla quale sono destinati a transitare i carrelli Agv», dal S. : «presumo che qualcuno tra gli scioperanti occupasse anche la zona sulla quale insiste la banda magnetica».

Il P. Poi, sul punto, inizialmente dichiarava che «il L. Ed il P. Erano comunque insieme ad altri lavoratori all’esterno della pista di transito degli Agv e più precisamente nell’area di camminamento pedonale», successivamente, invece, contraddicendosi riferiva «[. ] così abbiamo accolto l’invito e ci siamo spostati per permettere il transito dei carrelli»; circostanza questa confermata anche dal S. Che dichiarava «così ci siamo allontanati ulteriormente dai carrelli lasciando completamente libera la zona di transito, anche il L. Si è allontanato (che invece secondo la deposizione della M. Non era mai stato presente, del resto come tutti gli altri, sul percorso del carrello)». Anche l’ulteriore tesi della possibile presenza sul percorso magnetico di «tappini» o «viti» di ostacolo all’avanzare dell’Agv, riferita con dovizia di particolari dalla M. E dal S. , si contraddice in nuce proprio con quanto poi questi dichiaravano essere avvenuto quella sera, sicché, anche sul punto, le loro dichiarazioni appaiono inattendibili. Infatti, tutte le persone escusse, sia quali informatori (cfr. Proprio le dichiarazioni di M. E S. ) sia in qualità di testi, hanno sempre dichiarato che il moto degli Agv riprendeva dopo che i responsabili Sa. Provvedevano ad effettuare manualmente il ripristino agendo sull’apposito pulsante di reset; orbene, se ci fossero stati sulla banda magnetica viti, tappi e quant’altro, come pure cercavano di far credere detti informatori, neppure tale operazione sarebbe stata sufficiente a ripristinare il cammino dei carrelli senza la pulizia del percorso e la rimozione di detti ostacoli.

Un’unica sola circostanza gli informatori dell’o. S. Ricorrente si affaticavano a riferire in maniera evidente ed uguale tra loro, ossia il fatto che comunque, dopo l’invito rivolto dai responsabili aziendali a lasciare libero il passaggio agli Agv, nessuno rimaneva ad intralcio sul relativo percorso (in particolare L. , P. ); infatti, sul punto B. Diceva «ci siamo subitamente spostati tutti, compresi i tre licenziati», la M. «il L. Non era in una posizione particolare rispetto agli altri [. ] il P. Era con me nell’area rossa» ed il S. «anche il L. Si è allontanato con noi». Purtroppo, proprio tale circostanza fondamentale (in quanto servirà a distinguere il loro comportamento e le relativa responsabilità da quella di tutti gli altri partecipanti), oltre ad essere smentita dalle coerenti dichiarazioni rilasciate in quella fase processuale dagli informatori dell’azienda, è stata contraddetta da pressoché tutti i testi escussi nel giudizio di opposizione, tra cui anche gli stessi testi indicati dalla Fiom (tra i tanti, ad esempio, si ricorda la deposizione resa dal teste P. , altro delegato sindacale, che ricordava di avere addirittura invitato il B. A spostarsi dal percorso invitandolo, con una scusa, a prendere un caffè).

La verità sul reale svolgimento dei fatti per cui è causa

La ricostruzione degli accadimenti che invece emerge in maniera chiara ed incontrovertibile dal complesso della copiosa istruttoria svolta in entrambe le fasi del giudizio è altra.

In particolare, dopo una prima fase di incertezza dovuta ai primi momenti conseguenti la proclamazione dello sciopero e l’inizio del corteo interno, l’azienda aveva prontamente provveduto, per il tramite dei rispettivi responsabili, a riorganizzare la produzione, spostando sulle linee tre e quattro i lavoratori che non avevano inteso condividere la protesta. Infatti, nessuna prassi è mai stata presente in azienda circa la sospensione delle attività produttive in occasione di scioperi, se non, appunto, per il tempo strettamente necessario alla riorganizzazione. La produzione riprendeva per circa due soli minuti, fin quando i responsabili dell’azienda si accorgevano che, pur in funzione le linee, non pervenivano presso queste i carrelli Agv per l’approvvigionamento dei materiali necessari (il moto dei quali ha un funzionamento del tutto autonomo dalle linee di produzione).

Insospettiti della circostanza, due responsabili aziendali «provvedevano a bloccare nuovamente la linea» (si noti bene, non il sistema di funzionamento dei carrellini) per risalire, a ritroso, il percorso effettuato da questi ultimi e verificarne le cause del blocco (cfr. Dichiarazione rese da R. , ad esempio).

Giunti nei pressi del corridoio sito tra le Ute 3 e 4, questi rinvenivano i carrelli già fermi ed una moltitudine di scioperanti, circa una cinquantina, che, dopo avere proclamato lo sciopero ed essersi organizzati in corteo, avevano successivamente raggiunto detto luogo dove si erano fermati a stazionare, anche ponendosi all’interno dell’area riservata al passaggio degli Agv ed innanzi a questi. Nessuna premeditata volontà di sabotaggio aveva mai sostenuto il comportamento di nessuno dei partecipanti al corteo, difformemente da quanto lasciato intendere da alcune dichiarazioni pubblicate su due articoli comparsi su un noto settimanale nazionale ed acquisite agli atti (cfr. Sul punto quanto specificato dal teste D. M. ); sullo specifico punto, pertanto, trovano conferma le dichiarazioni rilasciate, tra gli altri (delegati sindacali), da L. , B. E P. In sede di interrogatorio libero.

Nessuna labile prova è emersa circa il «blocco» iniziale (si noti bene, da distinguere «dall’impedimento» al transito, posto poi in essere dai tre licenziati in una fase successiva e solo da loro), almeno volontario (potrebbe essere avvenuto verosimilmente per colpa, ossia per contatto inconsapevole di qualcuno, data la concitazione degli eventi), del carrello poi rinvenuto fermo dai responsabili aziendali. Tuttavia, la stranezza ed abnormità del gesto è che non era mai avvenuto nel passato che una assemblea sindacale si fosse tenuta in quel particolare posto (lo dice sin da subito la M. , poi la circostanza sarà confermata anche da alcuni testi nel giudizio di opposizione). Infatti, in assenza di un luogo dedicato a ciò, per prassi ormai consolidata, dopo i cortei ci si ritrovava a riunirsi in assemblea per discutere delle problematiche oggetti di protesta o presso la c. D. Area relax o all’aperto, fuori dal reparto (sul punto si comprende il tentativo di raddrizzare il tiro fatto durante l’interrogatorio libero dei due delegati licenziati, secondo cui il termine assemblea andrebbe inteso in senso atecnico).

è anche vero però che è emerso incontrovertibilmente nelle dichiarazioni rese dai testi della o. S. Escussi nel giudizio di opposizione, in particolare gli altri rappresentanti sindacali, che lo stazionamento di cui sopra (presso le predette Ute) non era stato inizialmente programmato e doveva essere temporaneo, al solo fine ciò di decidere dove poi spostarsi per riunirsi in assemblea.

In un primo momento, tutti gli scioperanti erano irregolarmente distribuiti su tutto il corridoio, compreso il percorso riservato agli Agv (in tale fase il B. è risultato essere assente; infatti, inizialmente era all’esterno del reparto con altri lavoratori, poi, ricevuta una telefonata dal L. Alle 2,24 che chiedeva il suo intervento a supporto, rientrava portandosi sui luoghi oggetto di contestazione). Sempre in tale iniziale contesto, tutti i partecipanti alla protesta vengono indistintamente invitati dai responsabili aziendali a lasciare libero il passaggio dei carrelli, facendo loro notare la presenza irregolare all’interno della banda magnetica, delimitata da apposita segnaletica orizzontale colorata. Gli inviti rivolti anche al L. E B. (che nelle more era rientrato), in tale primo momento, sono fatti esclusivamente quali rappresentanti sindacali più prossimi agli Agv dagli stessi responsabili Sa. (cfr. Dichiarazioni di T. , il quale specifica che per prassi in tali occasioni ci si rivolgeva sempre agli organi o istituzioni del sindacato e non direttamente ai semplici lavoratori), poiché alla testa del corteo (impropriamente, visto che ormai si era già fermato). Subito dopo tali primi richiami, tutti i partecipanti alla protesta, indistintamente, divenuti consapevoli della posizione irregolare di alcuni anche all’interno del percorso interdetto ai pedoni, si spostano ponendosi ai lati destro e sinistro della zona riservata al transito degli Agv, sulle strisce rosse; rimangono innanzi al carrello già fermo inizialmente solo L. E B. , successivamente li raggiungerà, ponendosi a braccia conserte, anche il P. Orbene, è evidente in tale prima fase degli accadimenti, e solo in essa però (per quanto si evidenzierà infra), la effettiva iniziale incomprensione degli astanti, che non si erano resi conto sino a quel momento della posizione irregolare proprio a causa della confusione sul da farsi e la concitazione degli eventi, frutto di quell’equivoco richiamato dal giudice del decreto opposto.

Da tale momento in poi, invece, si ha lo stazionamento consapevole dei tre licenziati innanzi al carrello (il cui funzionamento non poteva essere ripristinato a causa della permanenza irregolare e pericolosa di questi; infatti, è aberrante sul punto la tesi della Fiom volta a sottolineare – durante la deposizione dei tre licenziati ed a pag. 31 delle note autorizzate – come l’azienda non avesse comunque tentato il riavvio degli Agv pur loro presenti innanzi. Ebbene, se in un primo momento il sindacato espressamente palesa la tesi del blocco degli Agv per un altamente probabile guasto meccanico – in alternativa alla tesi aziendale del sabotaggio -, come si può pretendere poi che si riavvii un carrello guasto – ad esempio sui sensori – potendo questo travolgere le persone presenti? ), nonostante le molteplici contestazioni formali loro rivolte dai responsabili aziendali, ponendosi con atteggiamento di sfida (il cui nobile intento di difesa dei diritti dei lavoratori, se eticamente condivisibile, è stato trasfuso in comportamento illegittimo e gravemente insubordinato) quali ostacoli alla solerte ripresa della produzione.

I contemperamenti al diritto di sciopero

Se questa è la ricostruzione degli accadimenti avvenuti la sera tra il 6 e 7 luglio u. S. Così come emerge dal complesso dell’istruttoria svolta, ora bisogna verificare l’illegittimità di quanto posto in essere dai tre licenziati alla luce della giurisprudenza sopra richiamata per poi chiedersi se la reazione avuta dall’azienda opponente sia affetta da sproporzione, perché se così fosse si avrebbe comunque, proprio in virtù degli indirizzi giurisprudenziali innanzi citati, l’antisindacalità della condotta.

Nel caso in esame, del resto proprio come nel precedente specifico di cui alla sentenza n. 8401 del 1987 della Sez. Lav. Della Cass. (cfr. Anche Cass. Sez. Lav. , n. 1833 del 1981), i tre dipendenti poi licenziati ponevano in essere una condotta tendente ad impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale ed estrinsecata in atti concreti sugli impianti azionati da lavoratori non scioperanti, realizzata con interventi materiali su questi ultimi (è il caso dei dipendenti non in sciopero e dei responsabili di produzione Sa. , che, per quanto con funzioni apicali, sono pur sempre dei dipendenti), con la conseguenza di avere impedito la prosecuzione dell’attività aziendale ostruendo con i propri corpi il passaggio di un carrello rifornitore. La reazione tenuta dall’imprenditrice all’agitazione proclamata dai lavoratori è legittima.

Infatti, nella specie viene esclusa l’antisindacalità del licenziamento irrogato ai tre lavoratori per un loro comportamento non riconducibile all’esercizio del diritto di sciopero, in cui non rientra la condotta di chi non si limiti ad un’attività di persuasione degli altri dipendenti per indurli a scioperare, ma ponga in essere concreti atti nei confronti del personale non aderente all’agitazione o interventi materiali sugli impianti per impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale.

L’azione dei tre lavoratori viene valutata come illegittima in relazione al suo specifico fine di determinare materialmente l’interruzione dell’attività produttiva (del resto altrimenti non si spiegherebbe nemmeno la plateale minaccia rivolta dal B. Di estendere tale forma di protesta all’intero montaggio).

Il rapporto di lavoro è caratterizzato anche dal diritto del dipendente di astenersi temporaneamente dall’esecuzione delle prestazioni, partecipando a forme di protesta collettiva, la cui portata non può essere vanificata dalla pratica del c. D. Crumiraggio, ossia della sostituzione degli scioperanti con nuovi dipendenti (questa sì condotta antisindacale); all’imprenditore è quindi solo consentito adibire il personale che resti a disposizione alle mansioni degli scioperanti, ma non assumere altri lavoratori in luogo di costoro, ponendosi tale comportamento come diretta violazione del diritto di sciopero.

Si considera così decisiva l’incidenza del comportamento ostruzionistico dei tre lavoratori sulla prosecuzione dell’attività aziendale, che il datore di lavoro ha diritto di riorganizzare durante lo sciopero, negandosi invece la rilevanza giuridica delle situazioni dei dipendenti non aderenti allo sciopero, il diritto di costoro a lavorare, garantito dall’art. 4 Cost. , non può entrare in questione perché l’impedimento temporaneo alla prestazione non lede alcuna posizione soggettiva, restando integri tutti i diritti di tali lavoratori (anche quelli di natura retributiva).

è da escludersi che il comportamento tenuto dai tre lavoratori, ossia l’essersi collocati solo tali scioperanti avanti al carrello rifornitore possa integrare l’ipotesi di un picchetto di persuasione; la illiceità di tale condotta è evidente in quanto travalicata in minaccia e cioè in una coazione. Non trova pertanto fondamento la prospettazione difensiva della Fiom quando tende a far ritenere che la punizione – di tre soltanto – del comportamento di cui trattasi (di cui due corresponsabili sindacalmente attivi) appare finalizzata ad influire sul futuro svolgimento della lotta (di qui il riferimento agli altri contesti aziendali di Mirafiori e Pomigliano) e cioè ad incidere sulla modalità ed intensità dei futuri episodi di sciopero; intenzione intimidatrice che già di per sé costituirebbe comportamento antisindacale di illecito condizionamento con carattere di rappresaglia e di discriminazione.

Al riguardo è sufficiente ribadire che nel vigente ordinamento ed alla stregua della odierna realtà delle relazioni del mondo del lavoro e delle prassi attuative del diritto di sciopero riconosciuto e garantito dall’art. 40 Cost. , l’esercizio di tale diritto non conosce limitazioni per quanto concerne la sua spettanza a tutte le categorie di lavoratori (eccezionali essendo le ipotesi derogative) e le modalità del suo esercizio (con assenza cioè di limiti ed interni), laddove il solo limite c. D. «esterno» è costituito dalla non possibilità dell’effettuazione di atti diretti contro l’organizzazione aziendale in modo da impedirne il funzionamento o da comprometterne gravemente la stessa produttività (nel caso in esame, nell’arco di tempo in cui non è stato possibile ripristinare il funzionamento dell’Agv per il comportamento ostruzionistico posto in essere dai tre licenziati, si è avuta la mancata produzione di circa 15 autovetture, dato confermato dal teste F. N. All’udienza del 18 gennaio 2011) così come di atti che provochino pregiudizio a fondamentali diritti del pari costituzionalmente garantiti in modo assoluto quale quello alla vita ed all’incolumità personale (nel caso di specie è palese la violazione alle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro ad esempio pericolo di schiacciamento secondo le raccomandazioni tecniche contenute nel manuale di istruzione dell’Agv, versato in atti) o alla libera iniziativa economica. Deve essere ribadito che, consistendo l’esercizio del diritto di sciopero in atti di tutela di interessi collettivi attuata in forma dialettica nei confronti del datore di lavoro, la verifica della legittimità dello sciopero deve essere necessariamente condotta in relazione a ciò che al datore di lavoro rimane giuridicamente consentito durante lo svolgimento dell’agitazione.

Orbene, all’azienda non può essere negato, con riferimento esplicito al diritto sancito dall’art. 41 Cost. , di continuare lo svolgimento dell’attività aziendale mediante il personale dipendente che ancora resti a sua disposizione poiché non partecipante allo sciopero e che venga temporaneamente adibito alle mansioni proprie degli scioperanti; reazione che di per sé non appare rientrare nel concetto di condotta antisindacale di cui all’art. 28 l. N. 300/1970. Ciò precisato, va specificato che nel caso in esame l’istruttoria ha accertato in punto di fatto che L. E B. , seguiti dal P. , avevano impedito, nel corso dello sciopero del 6-7 luglio 2010, qualsiasi manovra volta al sollecito ripristino del funzionamento del carrello rifornitore Agv, non consentendo ai responsabili di produzione Sa. Di insistere nel tentativo di proseguire l’attività produttiva (poiché la loro posizione, di circa un metro innanzi l’Agv, comunque rientrava abbondantemente nello spettro di rilevamento del sensore di ostacoli ad infrarossi dell’Agv, tenuto conto delle misure e dello schema riportato a pag. 17 del manuale di istruzioni versato in atti e che espressamente distingue la distanza di arresto dall’ostacolo, che i testi hanno riferito essere di soli 20-30 cm circa da quella di rilevamento e rallentamento del carrello, ben superiore alla prima), il che avrebbe comportato invero la necessità o di far ricorso alla forza pubblica o di esporre i presenti a pericoli per la loro incolumità fisica contravvenendo alle più elementari regole in materia di sicurezza sul posto di lavoro (pericolo di schiacciamento in caso di malfunzionamento dell’Agv, che nel caso di specie non poteva essere escluso a priori né tantomeno verificato prima dallo spostamento dei tre, anzi, che è stato espressamente dedotto dalla Fiom come la causa del loro blocco iniziale).

Orbene, richiamando quanto già accennato all’inizio, nella fattispecie in esame è stato accertato che L. , B. E P. Avevano, per l’appunto, posto in essere un tal tipo di comportamento impedendo, mediante fisica ostruzione, il ripristino del funzionamento (infatti se non si spostavano, pur essendo l’Agv già fermo per i più svariati motivi, i tecnici Sa. Non potevano manualmente resettarlo e riavviarlo, se non accettando il rischio di poter investire qualcuno in caso di guasto paventato proprio dal sindacato) ed il successivo procedere del carrello di rifornimento del materiale (che, si noti bene, è risultato essere stato carico di materiale), il che era andato al di là di una semplice pressione psicologica, e tanto basta per qualificare il comportamento stesso come illegittimo.

Il libero interrogatorio dei tre licenziati e la tesi del complotto aziendale

Se questa è la reale ricostruzione della vicenda, frutto dell’attenta ponderazione delle risultanze emerse in sede di copiosa istruttoria, inverosimile appare, invece, la versione fornita dai tre lavoratori licenziati nel loro libero interrogatorio.

Innanzi tutto va precisato che così come non è emersa provata la tesi sostenuta dall’azienda circa l’intento premeditato dei manifestanti di bloccare la produzione (c. D. Sabotaggio), altrettanto non ha avuto idoneo (da darsi in ambito processuale e non con l’intento poco felice di far pubblicare su un noto quotidiano locale, proprio nel momento in cui il giudice si stava ritirando in camera di consiglio, gli stralci di quelle registrazioni di conversazioni non ammesse in giudizio perché prodotte in dispregio delle preclusioni del rito) riscontro probatorio l’assunto del sindacato volto a dimostrare la sussistenza di un progetto aziendale (non potendo essere altro, dovendosi ravvisare l’antisindacalità nella condotta propria dell’azienda e non in iniziative del tutto personali – – seppur poco felici – – di un singolo dipendente quale il T. ) teso a reprimere l’attività sindacale colpendo (recte, perseguitando) uno ( inspiegabilmente, e non anche altro autorevole esponente quale il L. ) dei propri attivisti rappresentanti (B. ).  Infatti, proprio perché il sindacato non ha fornito in maniera sufficiente e completa (pur essendo stato posto nella condizione di farlo con l’ammissione delle specifiche testimonianze ammesse sul punto; per il rigetto della richiesta di acquisizione delle trascrizioni dell’sms e delle registrazioni delle conversazioni si richiamano le ordinanze istruttorie rese in corso di causa) adeguata prova (la circostanza è rimasta di natura indiziaria) di tale tesi, così non assolvendo il proprio onere probatorio, si è ritenuto superfluo assumere prova contraria articolata dall’azienda a mezzo proprio del teste T. Sulle medesime circostanze (tra l’altro, forse proprio in conseguenza di tale carenza probatoria, a pag. 7 delle note autorizzate la Fiom correggeva il tiro sostenendo che aveva sempre ritenuto improbabile che il T. Percepisse cinquemila euro per ogni lavoratore licenziato, così, di fatto, sminuendo la tesi, pur inizialmente sostenuta, della persecuzione sindacale di alcuni suoi esponenti). Infatti, anche l’episodio vissuto e raccontato dal teste L. (T. Gli avrebbe detto che il B. Era una zanzara fastidiosa da schiacciare), dove la motivazione di appartenenza ed attivismo sindacale in capo al B. Ha il fine di tentare di spiegare quello che viene da lui percepito come intento minaccioso e persecutorio del T. Nei confronti del sindacato, appare essere frutto di una sua personale ed opinabile (come si evidenzierà) convinzione che non trova riscontro in altri concreti elementi probatori (quali, ad esempio, il dialogo del 3 novembre 2010 nel piazzale del Palazzo di giustizia, come si dirà). Infatti, questi diceva di avere percepito la frase offensiva pronunziata dal T. Come una provocazione volta a lui ed al B. Proprio quali appartenenti alla Fiom e di essere talmente intimorito da non richiedere al T. Spiegazioni ulteriori o replicare, ma di avere subito dopo convocati L. E B. (i quali però minimizzano l’accaduto e lo tranquillizzano) al fine di notiziarli di quanto avvenuto (ciò, unitamente all’sms di avvertimento, confermerebbe che nel maggio 2010 il B. Era stato messo in guardia sulla persona del T. ; dato importante, che sarà utile per valutare il comportamento successivo del B. , secondo quanto si evidenzierà). Collegava l’episodio all’appartenenza sua e del B. Alla Fiom ma non sapeva spiegare come mai il T. Non avesse anche fatto riferimento al L. (pure attivista); si giustificava dicendo che probabilmente (una sua convinzione) il B. Era più in vista. Ma allora è da chiedersi perché si sentisse intimorito e perseguitato anche lui che proprio attivo di certo non era, né lo era più, soprattutto, del L. Che aveva sempre avuto buoni rapporti con il T. (sin dall’adolescenza); che non aveva mai avuto in precedenza (a successivamente) altre discussioni con questi, quale suo superiore, sul posto di lavoro.

Non aveva mai nemmeno avuto precedenti contestazioni e sanzioni disciplinari; perché allora temere un licenziamento?

Del resto non aveva mai ricoperto cariche elettive nell’azienda e nel sindacato (a differenza di B. E L. ) e l’ultimo sciopero a cui aveva partecipato si era svolto prima che in azienda addirittura arrivasse il T. Collegava anche l’accaduto a due licenziamenti di iscritti Fiom avvenuti la settimana prima, ma di cui però non conosceva nemmeno le relative vicende perché assente dal lavoro.

Anche la deposizione resa quale testimone dalla figlia di B. Sul paventato disegno aziendale contiene dei contrasti logici insanabili. Questa diceva che il P. Le raccontava sul piazzale del palazzo di giustizia, nel corso di una precedente udienza, che il padre (stranamente solo lui) non c’entrava nulla nella vicenda oggetto del giudizio e che «era stato messo in mezzo» (ma allora è da chiedersi se L. E P. C’entrassero e perché, visto che l’episodio è unico! ). Poi diceva che il padre, dopo il riferimento fatto dal P. All’avvertimento datogli in passato («ti avevo detto di stare attento al T. »), gli chiedeva ingenuamente « perché? », come se a quella data non sapesse già, visto che aveva ricevuto quell’sms (cfr. Interrogatorio libero di B. ) ed aveva parlato con L.  Raccontava quindi che P. Avrebbe fatto riferimento a «quelle buste paga» con l’indicazione dei 5. 000 euro ottenuti per ogni lavoratore licenziato, che lo stesso T. Avrebbe fatto loro vedere vantandosi. Posto che però il T. Non risulta abbia mai avuto il potere di licenziare alcuno, è da chiedersi se è verosimile che l’azienda paghi e contabilizzi ufficialmente somme che, dato l’intento illecito (nel caso in esame sarebbero finalizzate a reprimere l’attività sindacale), avrebbe ben potuto corrispondere in nero, senza lasciare traccia.

Se poi si ritiene che siano state mascherate sotto altre (ad esempio premi di produzione) voci (non potendo evidentemente comparire in busta paga la dicitura «per licenziamenti irrogati»), non si comprende il gesto del T. Di mostrare in visione un documento che agli occhi di terzi non potevi dimostrare proprio alcunché visto che non conteneva riferimenti espliciti. E la conferma di tale inverosimiglianza la si ha nella risposta che il P. Avrebbe dato alla domanda (che riassume tutta la tesi del complotto sconfessandola) della figlia di B. «allora l’hanno fatto apposta? » dicendo «di

non sapere nulla» e che la probabile esistenza di qualche progetto aziendale in tale direzione era solamente il frutto di una sua personale supposizione (la testimonianza di P. Sul punto, pertanto, veniva ritenuta superflua e sovrabbondante, non potendo far transitare nei verbali del giudizio quella che era già stata raccontata da altro teste come mera congettura del P. ).

Né ulteriori elementi sono riscontrabili nella deposizione del teste S. , la quale, anzi, proprio perché non assisteva a tutta la predetta discussione, non ricordava riferimenti fatti dal P. Alla persona del T. O a somme di denaro da questi verosimilmente percepite.

Le deposizioni, poi, dei lavoratori licenziati appaiono in maniera evidente non attendibili ed in aperta contraddizione non solo con quanto riferito in precedenza dagli altri testi escussi durante la fase sommaria ed il giudizio di opposizione, ma anche in contrasto tra loro tre e, in alcuni passaggi,

addirittura nell’ambito della stessa deposizione singolarmente considerata.

Circostanza che avrebbe meritato la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica se tali deposizioni non fossero state rese in sede di libero interrogatorio, e quindi in assenza di previo giuramento secondo la formula di rito, in considerazione di quell’evidente interesse personale all’esito del giudizio che ne aveva escluso l’audizione (e forse vi è da dire meno male) in qualità di testimoni, ex art. 246 c. P. C. , e che poi, di fatto, si è palesato in tutta la sua consistenza all’esito della prova.

In particolare, il B. (ma analoga considerazione è stata resa anche dal L. E dal P. ), nel verbale del 17 maggio 2011, diceva che al momento dei fatti ed ancora oggi non era riuscito a capire il «perché» (ossia il motivo) il T. Contestò loro tre. Tuttavia, tale affermazione è smentita proprio dal loro stesso comportamento (in particolare dal suo e da quello di L. ) che, con tono di sfida e sbeffeggiante, si rivolgevano al T. Dicendogli «che, ti si è incantato il disco? »; atteggiamento con cui, implicitamente, sottolineavano più volte che non era necessario ribadire di continuo la contestazione, forse proprio perché, evidentemente, avevano capito.

Del resto, una persona che non comprende una situazione in cui è, a suo dire, involontariamente ed inconsapevolmente coinvolta, chiede, al contrario, delucidazioni su quanto sta accadendo.

Ma la circostanza di cui sopra è confutata anche, subito dopo, dalla deposizione dello stesso P. , il quale, dopo avere anche egli di sua sponte sottolineato di non avere compreso il perché della contestazione, contraddicendosi, diceva che, appena spostatisi e visto che gli Agv non ripartivano, facevano (loro tre) notare ai responsabili Sa. Che non erano loro la causa del fermo dei carrellini (così difendendosi e giustificandosi, ammettevano di avere compreso quanto loro prima veniva rimproverato e, soprattutto, smentisce che ad oggi non abbiano ancora compreso il c. D. «perché»).

B. Inoltre diceva che «nessuno» dei presenti aveva capito che lì non poteva stare. Ebbene, anche questa affermazione è palesemente contraddetta con quanto riferito dai precedenti testi escussi, anche dagli altri stessi rappresentanti sindacali di cui alla lista indicata dalla Fiom.

In particolare, il teste L. R. (delegato Uim), sentito all’udienza del 3 novembre 2010, dichiarava di sapere che sul percorso riservato al passaggio dei carrellini non si può «sostare» (n. B. Non dice transitare o attraversare, momentaneamente) e che la zona pedonale era delimitata da apposita

segnaletica orizzontale. Sempre alla medesima udienza, il teste F. M. (delegato Ugl) ricordava di essere rimasto sulla fascia rossa (zona pedonale, vedi foto doc. N. 6 produzione Sa. ; a dimostrazione che una segnaletica all’epoca c’era) sapendo (ciò contraddice le difese dei tre licenziati che non

avrebbero saputo del divieto) che oltre non era consentito «sostare». Anche il teste E. G. , delegato Fim-Cisl, dichiarava «sappiamo tutti che lì non possiamo sostare» per motivi di sicurezza e perché si impedisce alla linea il rifornimento dei materiali, tant’è che tutti gli altri, poi, si erano posti

«al di fuori della zona riservata al transito dei carrelli».

Non da ultimo, anche il teste P. , delegato Uelm, all’udienza del 21 ottobre 2010 confermava di sapere che per motivi di sicurezza «lì non possiamo sostare», tant’è che lui stesso invitava B. Ad allontanarsi. Nel proprio racconto B. Continuava dicendo che, successiva ad una prima fase in cui tutti indistintamente si soffermavano sulla banda magnetica, non ne seguiva una seconda in cui solo lui, L. E P. Persistevano nella posizione irregolare.

Anche tale ricostruzione appare in evidente contrasto con quanto riferito dai precedenti testi escussi. Infatti, tra gli altri, il teste M. C. , delegato Fismic, sulla circostanza dichiarava «a questo punto (ossia dopo il richiamo dei responsabili Sa. , ricordato immediatamente prima) chi non era già al di fuori dell’area delimitata dalle linee gialle (che erano presenti, sicuramente all’epoca, confutando anche qui quanto riferito dai tre licenziati e sostenuto dal sindacato per mezzo delle foto poi non acquisite; tuttavia, sul punto, si ritiene essere stata per lo meno inopportuna la scelta aziendale di ritinteggiare la pavimentazione, facendo divenire irrilevante un sopralluogo dei posti per mutamento degli stessi) si è spostato e davanti al carrellino sono rimasti L. , B. E P. »; ed inoltre «tutte le persone che vi sostavano innanzi cominciarono a spostarsi». Gli espressi riferimenti sopra richiamati, fatti dai testi alle diverse colorazioni sul pavimento a delimitazione delle zone riservate rispettivamente agli Agv ed ai pedoni, secondo la raffigurazione ritratta nelle rappresentazioni fotografiche prodotte agli atti dell’azienda (cfr. Doc. 6, 7 e 8), smentiscono in maniera evidente quanto dichiarato dal B. , L. E P. Circa l’assenza di qualsiasi distinzione visiva sul pavimento dei luoghi dove si sono svolti i fatti.

Del resto tale affermazione, oltre che contrastare con quanto riferito in modo chiaro e puntuale da pressoché tutti i testi escussi in precedenza (sin già dalla fase sommaria), appare inattendibile anche per altre considerazioni. Infatti, i tre licenziati dichiaravano (n. B. Spontaneamente e non su domanda) di avere visionato, perché mostrato loro dai difensori del sindacato opposto nel corso del giudizio, copia della documentazione fotografica agli atti dell’azienda (ciò avveniva prima che il giudice esibisse loro gli originali, a colori, mai visti prima). Orbene, non è dato capire come questi possano avere disconosciuto la presenza di zone colorate su copie fotostatiche in bianco e nero (cfr. Dichiarazione di L. ). Poi, è difficile credere, secondo quanto da loro riferito, che gli stessi percorsi Agv e pedonali in alcune Ute del medesimo stabilimento di S. Nicola siano segnalati ed in altri (tra cui, guarda caso, il posto dove si sono svolti i fatti), inspiegabilmente, no.

Appare anche strano che un combattivo rappresentante per la sicurezza come il B. Non abbia mai segnalato prima, nel corso degli anni, all’azienda una tale palese vio lazione alla normativa sulla sicurezza sul posto di lavoro. Ancora più strano è che la prospettata assenza di segnaletica orizzontale sui luoghi non sia mai stata dedotta prima dal sindacato; ciò non è avvenuto negli atti e nell’istruttoria della fase sommaria né negli atti introduttivi e durante le deposizioni del giudizio di opposizione. Pertanto, la presenza della segnaletica orizzontale a delimitazione delle diverse aree riservate al passaggio degli Agv ed allo stazionamento dei pedoni sulla zona dove sono avvenuti i fatti per cui è causa il 6 e 7 luglio u. S. è comprovata da più elementi tra loro concordanti.

In primo luogo dai riferimenti ai colori (rispettivamente rosso e giallo) delle diverse linee, fatti dai protagonisti di tali avvenimenti nelle diverse deposizioni testimoniali rese nel corso del giudizio (citate sopra come esempi). Oltre che oggetto diretto della percezione sensoriale e ricordo dei presenti, la circostanza appare inoltre essere rafforzata dalle conformi (alle suddette dichiarazioni) riproduzioni fotografiche dei luoghi così come si presentavano in epoca immediatamente prossima e successiva alla sciopero (doc. 6, 7 e 8 della Sa. ) riferito in atti (che raffigurano una situazione corrispondente a quella descritta dai testi).

Anche il riferimento alla presenza di tale segnaletica solo (stranamente! ) presso alcune altre Ute, ammessa dai tre licenziati, proprio perché inverosimile, sembrerebbe rafforzare la ricostruzione dei luoghi in tal senso. Del resto, la riferita assenza della linea gialla, oggetto della deposizione di B. , L. E P. , avvalorata dalle foto esibite (ma non acquisite) in giudizio, poiché riferita ad un momento di gran lunga successivo a tale epoca (udienza del 17 maggio 2011), non è idonea a provare il contrario ma (ed al massimo) semplicemente l’assenza nel momento di esecuzione di quei lavori di manutenzione a cui il procuratore p. T. Dell’azienda aveva fatto riferimento a verbale. Lo dimostra il fatto che prima di tale udienza il sindacato non aveva mai contestato l’assenza di idonea segnaletica sui luoghi degli avvenimenti ed all’epoca dei fatti.

Ma pur volendo sul punto accettare ingenuamente la prospettazione della Fiom, andando contro a quei molteplici e concreti riscontri probatori a cui si è fatto cenno, si può davvero ritenere che mentre tutti i presenti, per loro stessa ammissione resa a verbale, sapessero che lì non potevano sostare (lo si ripete, no «non transitare»), tant’è che prontamente, dopo i richiami, sì ponevano ai lati della banda magnetica, solo e proprio i tre licenziati, di cui due (B. E L. ) di lunga e comprovata esperienza lavorativa e sindacale, ignorassero la circostanza?

Ciò sarebbe potuto accadere per un neofita (ma neanche pure, come si dimostrerà).

Infatti, quand’anche avessero inizialmente ignorato il dato, se ne sono resi conto dopo i primi richiami, quando,anziché conformarsi a tutti i loro colleghi di lavoro, rispondevano «e se qui non possiamo stare, diccelo tu dove dobbiamo andare! ».

Nemmeno veritiera è la circostanza secondo cui né il B. Né il L. Avrebbero risposto alle ripetute contestazioni del T. Dicendo «che, ti si è incantato il disco? » e « se qui non possiamo stare, dicci tu dove dobbiamo andare! ». Senza voler richiamare le numerose precedenti deposizioni in senso contrario presenti nei verbali di causa (a cui sopra si è fatto cenno), basti ricordare la stessa deposizione del P. , il quale invece ricordava la frase «ti si è incantato il disco? », però, stranamente, non ricordava essere stata detta da uno dei due suoi colleghi sopra indicati (visto che non era stato lui né gli altri presenti che, nel frattempo, avevano da loro preso, anche fisicamente le distanze); lo ricordava invece il L. Che attribuiva la frase «probabilmente» al B.

Palesemente falsa è anche la circostanza secondo cui, all’esito dello sciopero per cui è causa, sarebbero stati altri rappresentanti sindacali e non lo stesso L. A prendere l’iniziativa della redazione della dichiarazione sulla regolarità della protesta versata in atti, fatta, secondo l’assunto di L. E B. , non certo per proteggere il più debole (giuridicamente) P. (così rifiutando quell’intento filantropico che pure altri – – P. – – , forse immeritatamente, pur gli aveva attribuito).

Peccato invece che P. Ed E. Abbiano, rispettivamente, attribuito al L. L’iniziativa della redazione di tale atto in difesa proprio del P. Anzi, il teste F. Ricordava come fosse stato proprio L. A pretendere l’inserimento nel documento del riferimento «all’atteggiamento provocatorio del gestore operativo». Dulcis in fundo, è da chiedersi come prestare importanza e credibilità alla giustificazione addotta dal L. , secondo cui il fermo della produzione loro contestato dal T. Era stato ricondotto per errore alla loro partecipazione allo sciopero piuttosto che alla irregolare persistenza sulla banda magnetica. E lui stesso, infatti, dopo avere ricordato di avere partecipato in passato a numerosi scioperi, a dire che in tali altre similari situazioni nessun responsabile aziendale si era mai permesso (per ciò solo) di esigere dai manifestanti la ripresa dell’attività lavorativa. Come prestare credito ad una ricostruzione (cfr. Cap. 16) della o. S. Secondo cui il B. , chiamato in aiuto e soccorso dal L. Con la telefonata della 2,24, rientrato sì prontamente sui luoghi, invece di avvicinarsi subito al collega in difficoltà, chiedere cosa fosse avvenuto e prenderne le difese, si fermava a ben venti metri di distanza, per poi intervenire solo successivamente? Quanto, invece, alla circostanza strettamente personale riferita dal B. , volta a dimostrare la preesistenza ai fatti per cui è causa di un complotto aziendale posto in essere dal T. Stesso nei suoi confronti al fine di licenziarlo (cosa che comporterebbe l’illegittimità del licenziamento e la sussistenza dell’invocata antisindacalità, secondo gli indirizzi giurisprudenziali sopra richiamati), anche qui giova sottolineare che tale tesi appare inverosimile anche per almeno un ulteriore duplice ordine di considerazioni (in aggiunta alle considerazioni sopra esposte).

Infatti, questi dichiarava che già dal 26 maggio 2010, per avere ricevuto un sms che lo metteva in guardia, era a conoscenza di essere attenzionato dal T. Orbene, è inverosimile, poiché irrazionale, che un lavoratore che già da tempo sa di essere futuro bersaglio e destinatario di prospettati provvedimenti disciplinari a suo carico, pubblicamente si metta in condizione di farsi contestare ripetutamente proprio da quel responsabile che sa essere pronto a punirlo; una persona di buon senso, invece, avrebbe fatto esattamente il contrario, allontanandosi come tutti gli altri presenti Ma è il contenuto stesso di quanto riferito dal B. Ad essere contrario ad ogni logica. Come si può affermare che il T. «prende dei soldi per licenziare persone» quando questi, per organigramma aziendale, non ha giuridicamente alcun potere di licenziare nessuno?

Infatti, sia le contestazioni disciplinari sia i licenziamenti sono firmati da diverso e ben più elevato dirigente aziendale. Senza tacere l’ulteriore inverosimile fatto che stranamente il B. Non ha mai chiesto al P. Come e perché questi fosse venuto a conoscenza della prassi del T. Di prendere soldi per licenziare persone visto che tale circostanza riguardava anche lui direttamente (lo ammette in sede di interrogatorio).

Analoghe considerazioni devono farsi in merito alle dichiarazioni rilasciate sulla medesima circostanza dai testi S. , B. I. , P. Anche il richiesto esperimento giudiziale mediante simulazione contestuale all’ispezione dei luoghi, per mezzo di perito, nulla avrebbe aggiunto a completamento dell’istruttoria già svolta ed alla ricostruzione dei fatti oggetto di causa, apparendo attività defatigatoria oltre che onerosa per le parti. Detta attività sarebbe stata non assolutamente indispensabile anche in considerazione della produzione agli atti dell’opponente della copia del manuale di funzionamento degli Agv e della deposizione resa sul punto dal teste P. Del resto, una simulazione volta a riprodurre l’arresto del carrellino sarebbe apparsa inutile rispetto all’oggetto dell’accertamento, consistente nell’ostacolo alla ripresa della produzione piuttosto che al sabotaggio (c. D. Contatto). Inoltre, è da considerare anche che sarebbe stato praticamente impossibile individuare con assoluta certezza proprio quel carrello Agv oggetto degli avvenimenti per cui è causa, essendo più d’uno gli Agv che transitano su quel percorso; la circostanza non è di poco conto se si considera che potrebbero esserci delle differenze più o meno tollerabili nella taratura dei sensori dei diversi carrellini secondo la procedura tecnica riportata nel relativo manuale di funzionamento.

Il rispetto del principio di proporzionalità della sanzione

Ciò precisato, rimane tuttavia da verificare se la massima sanzione irrogata come reazione dall’azienda sia stata o meno proporzionata a tale comportamento illegittimo, tenuto conto delle modalità e circostanze con cui in concreto è stato posto in essere, ciò perché, secondo i consolidati indirizzi giurisprudenziali innanzi richiamati, l’antisindacalità della condotta potrebbe essere stata concretizzata proprio adottando una punizione sproporzionata per eccesso. Le modalità della condotta concretamente posta in essere dai tre lavoratori licenziati e la loro idoneità a scuotere irreparabilmente l’elemento fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro portano a ritenere sussistente la proporzione della sanzione irrogata.

Infatti, va nuovamente evidenziato che i tre sono stati «formalmente» ed «individualmente» contestati dai responsabili aziendali più volte, ed invano (circostanza riferita da pressoché tutti i testi escussi; del resto non si spiegherebbe altrimenti nemmeno la frase riferita in risposta da B. In tale contesto: «che, ti si è incantato il disco? » ); ciò avveniva dopo che già tutti gli altri manifestanti erano stati inizialmente richiamati e resi edotti della loro posizione, tanto che questi subito provvedevano ad allontanarsi dal percorso dell’Agv. La circostanza comprova il formarsi in quel

frangente dell’elemento psicologico intenzionale in capo ai tre, che decidevano, deliberatamente, di persistere nell’intento ostruzionistico (dato confermato dalla riferita minaccia del B. Di estendere tale forma di protesta all’intero montaggio, cfr. Dichiarazioni resa, tra i tanti, da M. P. ).

Tale condotta era di fatto accompagnata da un atteggiamento irriguardoso e provocatorio, volto al pubblico ludibrio di chi, lavoratore non partecipante alla protesta indetta e loro superiore gerarchico, in nome e per conto dell’azienda, tentava di ripristinare il funzionamento dell’Agv e continuare la produzione (che si noti bene era già stata ripresa, seppur per soli pochi minuti); in tale contesto devono, appunto, essere inserite le frasi del B. «che, ti si è incantato il disco? » (circostanza che sottolinea il fatto che per loro non era necessaria la ripetuta contestazione e che avevano capito bene ciò che veniva agli stessi imputato) e «tu mi devi dare del lei» (che però lui è il primo a non dare al giudice dell’opposizione durante tutto il suo interrogatorio, così come del resto gli altri due suoi colleghi! ).

A ciò si aggiunga la grave insubordinazione ed il plateale disconoscimento dei ruoli all’interno dell’azienda; infatti, il B. , rivolgendosi al T. , gli diceva che questi «non era nessuno (però poi stranamente sì per intimorire L.! ) per poter dire ai lavoratori che cosa dovevano fare» (cfr. , tra le tante del medesimo tenore, le dichiarazioni rilasciate dal M. F. All’udienza del 15 marzo 2011).

Sul punto è da rilevare come l’insubordinazione ed il comportamento oltraggioso, oltre a costituire violazione del dovere di obbedienza del lavoratore di cui all’art. 2104 c. C. (che la difesa dell’o. S. Ritiene di dover considerare essere stato sospeso nel caso in esame, durante lo sciopero), sia

in contrasto anche con l’etica comune e con i più generali principi giuridici di correttezza e buona fede che comunque devono permeare lo svolgimento del rapporto di lavoro in atto tra le parti.

Infatti, la Suprema Corte ha stabilito che «la reiterata insubordinazione del lavoratore ad un ordine legittimo del datore di lavoro può legittimamente essere posta a base di un licenziamento per giusta causa, se la mancanza commessa è tale da provocare – secondo l’accertamento del giudice di merito – la totale perdita di fiducia da parte del datore di lavoro, anche nel caso in cui il contratto collettivo preveda condizioni più restrittive per il licenziamento in tronco, e così pure in caso di mancata affissione del codice disciplinare, in quanto una mancanza che implichi la consapevole ribellione nei confronti dell’imprenditore, oltre a comportare la evidente violazione del precetto dell’art. 2104 c. C. Relativo al dovere di obbedienza del lavoratore, ed essere riconducibile alla nozione legale di giusta causa, si pone manifestamente in contrasto con l’etica comune, cioè con i valori generalmente accettati dalla collettività» (Sez. Lav. , sentenza n. 2179 del 25 febbraio 2000).

Ma anche la pubblica minaccia di B. Di estendere tale forma di protesta a tutto il montaggio, non solo alle Ute tre e quattro (cfr. Quanto dichiarato sul punto, tra i tanti, dal teste Pa. ) dimostra la gravità dell’accaduto e di quanto prospettato (circostanza che ha sicuramente inciso sulla persistenza del rapporto di fiducia anche nel futuro). Orbene, se la condotta di L. E P. Inizialmente può apparire meno grave, va invece evidenziato che è stata permeata di uguale disvalore giuridico.

Infatti, questi altri due lavoratori, con un comportamento tacito concludente, non solo non si dissociavano da quanto detto dal B. (ed a differenza di quello che subito avevano fatto tutti gli altri manifestanti, prendendo anche fisicamente le distanze da loro), ma, anzi, persistendo nella loro condotta ostruzionistica, rafforzavano l’altrui (del B. ) proposito. Basti sul punto considerare il comportamento del P. Che inizialmente si trovava defilato rispetto al percorso dell’Agv, vicino ad altri lavoratori ed intento a leggere i dati di una busta paga, poi, proprio dopo le prime e formali contestazioni rivolte agli altri due colleghi, li raggiungeva fisicamente e si poneva, a braccia conserte, sulla banda magnetica nella zona loro  interdetta (tant’è che poi gli veniva chiesto di fornire le proprie generalità dal responsabile aziendale).

Tale modalità di protesta, oltre che sul piano strettamente giuridico, veniva sin da subito percepita come illegittima sindacalmente anche da tutti gli altri manifestanti, tra cui alcuni rappresentanti di altre sigle sindacali, i quali si dissociavano sia prima, spostandosi fisicamente ai bordi del percorso dell’Agv ed invitando i tre a fare altrettanto (è il caso dell’invito a prendere un caffè rivolto dal teste P. Al B. ), sia successivamente, manifestando psicologicamente delle perplessità e rimostranze nel sottoscrivere la dichiarazione di corretto svolgimento della protesta (in particolare L. , M. E F. ; cfr. Dichiarazioni dei testi L. E M. ), di cui lo stesso L. Si era reso promotore (cfr: dichiarazione di P. ) ed il B. (cfr. Dichiarazione del teste L. ) si era tanto premurato di approntare al fine di tutelare il P. , quale soggetto più debole rispetto a loro, che infatti non ricopriva alcuna carica sindacale, ma che, si badi bene, paradossalmente non viene nemmeno citato indirettamente in tale documento (infatti, una cosa sarebbe stato dire che il P. Non aveva alcuna responsabilità, altra che tutto in generale si era svolto nel rispetto delle regole). è alquanto strano che proprio il beneficiario delle tutela, il destinatario diretto, non sia stato menzionato nell’atto o, per lo meno, non sia stata premessa, per iscritto, la finalità di tale dichiarazione. Del resto, lo stesso teste e sindacalista P. D. , alla fine delle dichiarazioni rilasciate nel verbale di udienza del 21 ottobre 2010, su domanda del giudice tesa ad evidenziare la contraddizione del comportamento tenuto, ossia nell’essersi guardato bene dal porsi sulla banda magnetica, nell’avere rivolto l’invito al B. Di spostarsi e prendere un caffè, per non condividere tali forme di protesta, ed avere successivamente sottoscritto la dichiarazione riguardante la regolarità della protesta, si giustificava dicendo che «lo abbiamo dovuto fare perché è prassi» e che «tuttavia se avessi saputo all’epoca che il contenuto di tale documento non sarebbe rimasto in ambito aziendale, forse non l’avrei sottoscritto».

Ciò si spiega perché tale dichiarazione scritta (versata in atti) doveva avere una valenza meramente «interna» all’azienda e non, evidentemente, in ambito giudiziario o nei confronti dell’opinione pubblica.

Conseguenza del comportamento illegittimamente tenuto dai tre lavoratori licenziati è stato il grave danno economico subito dall’azienda opponente (circa quindici auto non prodotte), gravità da rapportare alla particolare situazione di crisi economica e di difficoltà vissuta dal mercato automobilistico in generale ed in special modo dalla Sa. In considerazione dei non gratificanti dati stati stici relativi alle vendite dei modelli prodotti a San Nicola di Melfi e resi pubblici recentemente. A ciò si aggiunga che il tempo in cui si è avuto il blocco della produzione riconducibile alla condotta esclusiva di B. , L. E P. è stato tutta’altro che trascurabile (secondo l’assunto Fiom solo un paio di minuti, pretendendo per assurdità logica prima che giuridica di confrontare un dato oggettivo e immodificabile [tuttavia noto solamente a posteriori rispetto all’accadimento dei fatti] quale l’orario delle 2,24 del tabulato telefonico, non con altro dato altrettanto oggettivo e certo ma con dati «soggettivi» rimessi di ricordo (tuttavia concordante come si dirà) dei testi di momenti vissuti ben tempo prima (i quali durante il richiamo opportunistico alla concitazione dei fatti non stavano certo con il cronometro alla mano e precostituirsi la prova) circa l’arrivo del T. E la ripresa della produzione, riferiti con naturali ma tollerabili discrasie percettive e poi riportati nelle lettere di contestazione); infatti, tale fase, durata secondo quanto concordemente riferito da molteplici testi escussi (M. , E. , R. , F. , M. E P. ) in circa (o in media, che dir si voglia) 10 minuti (ossia grosso modo dalle 2,20 alle 2,30), è stata tale da cagionare, oltre che la mancata produzione di circa (in via prudenziale, non volendo incorrere in cesure della o. S. ) quindici auto, anche la necessità per l’azienda di retribuire gli oltre cento dipendenti che avevano deciso di non scioperare, rimasti inattivi durante il perpetuarsi dell’illecito dei tre licenziati. Concludendo, una volta accertata quindi l’illegittimità della condotta dei tre lavoratori e l’estraneità di essa dall’ambito dello sciopero (infatti, sul punto il Lo. , nel verbale del 21 ottobre 2010, dichiarava che non aderiva alla minaccia di estendere la protesta all’intero montaggio perché «era fondata su motivi esclusivamente personali») non può ritenersi antisindacale il licenziamento dei medesimi, risultato tra l’altro proporzionato alle modalità di tale condotta, sotto il profilo che sia stato intimato soltanto a chi era sindacalmente attivo per la Fiom.

Ed invero, escluso che tale condotta potesse essere giuridicamente ritenuta quale esplicazione del diritto di sciopero e stabilito che il licenziamento era stato intimato in ragione di essa, la partecipazione allo sciopero e la qualità od appartenenza dei soggetti appaiono, come tali, estranei alla causa ed ai motivi della misura adottata (essendosi trattato di una mera coincidenza).

Pertanto, il lamentato effetto intimidatorio non potrebbe essere riguardato esclusivamente che in relazione a tale condotta e non già con riferimento allo svolgimento dell’attività sindacale ed alla partecipazione allo sciopero fintanto che questo si era mantenuto nel rispetto del limite di cui si è precedentemente detto.  

Si è conseguentemente fuori da ogni ipotesi di discriminazione che possa avere rilevanza a norma dell’art. 28 st. Lav. La difficoltà interpretativa della materia e la complessità della vicenda considerata anche la soccombenza reciproca in entrambe le fasi del giudizio, nonché il particolare contesto di aspro confronto sindacale in cui sono maturati i fatti posti alla base dei licenziamenti impugnati, costituiscono gravi ed eccezionali ragioni (ex art. 92, co. 2, c. P. C. ), per compensare per intero le spese di lite tra le parti.

Per questi motivi, il Tribunale di Melfi, in funzione di giudice del lavoro, nella persona del dott. Amerigo Palma, pronunciando sul ricorso in opposizione ex art. 28 l. N. 300/1970 (c. D. St. Lav. ) proposto da S. A. S. P. A. , nei confronti di Fiom-Cgil di P. , ogni contraria istanza ed eccezione disattesa, così provvede: 

1) Accoglie l’opposizione proposta e, per l’effetto, revoca il decreto opposto;
2) Ordina la pubblicazione del presente dispositivo, entro 30 gg. Dalla sua pubblica lettura in udienza, a cura e spese della o. S. Opposta, sui quotidiani «Il Corriere della Sera» e «La Repubblica»; 
3) Compensa per intero le spese di lite, 
4) Motivazione riservata in gg. 7 data la particolare complessità della controversia.

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Proroga del termine del 31 marzo 2012 (previsto al punto 3.5 del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 16 novembre 2011) al 15 ottobre 2012.

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N. 2012/37049

Modalità e termini di comunicazione all’Anagrafe Tributaria dei dati relativi ai beni dell’impresa concessi in godimento a soci o familiari, ai sensi dell’articolo 2, comma
36-sexiesdecies , del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148. Modifiche al provvedimento del 16 novembre 2011.

Il direttore dell’Agenzia

In base alle attribuzioni conferitegli dalle norme riportate nel seguito del   presente provvedimento,

Dispone:

1. Proroga

1. 1.     Il termine del 31 marzo 2012, previsto al punto 3. 5 del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 16 novembre 2011, è prorogato al 15 ottobre 2012.

Motivazioni

Il presente provvedimento modifica il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 16 novembre 2011, disponendo un più ampio termine per la prima comunicazione dei dati, originariamente fissato al 31 marzo 2012, tenuto conto delle particolari difficoltà di attuazione e della assoluta novità dell’obbligo in parola.

Riferimenti normativi

a) Attribuzioni del Direttore dell’Agenzia delle Entrate:

Decreto legislativo  30  luglio  1999,  n.   300  (art. 57; art. 62; art. 66; art. 67,  comma  1; art. 68  comma 1; art. 71, comma 3, lettera a); art. 73, comma 4). Statuto dell’Agenzia   delle   Entrate, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 2001 (art. 5, comma 1; art. 6, comma 1).

Regolamento  di      amministrazione      dell’Agenzia    delle    Entrate,    pubblicato  nella Gazzetta Ufficiale n. 36 del 13 febbraio 2001 (art. 2, comma 1).

Decreto del   Ministro   delle   finanze   28   dicembre   2000,   pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 9 del 12 febbraio 2001.

b) Disciplina normativa di riferimento:

Decreto-legge 13  agosto  2011, n. 138,  convertito,  con  modificazioni, dalla  legge 14 settembre 2011, n. 148 (art. 2, commi 36-quaterdecies, 36-sexiesdecies e 36- septiesdecies).

Decreto 31 luglio 1998, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 187 del 12 agosto 1998. Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (art. 38, quarto, quinto comma).

Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 16 novembre 2011.

La pubblicazione del presente provvedimento sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate tiene luogo della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’articolo 1, comma 361, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.

Roma, 13 marzo 2012

Attilio Befera

Nozione Fiscale delle Slot Machines e delle Newslot ai sensi dell’articolo 110, comma 6, del Tulps e della Circolare n. 21/E del 13 maggio 2005 Agenzia delle Entrate

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Nell’attuale formulazione l’art. 110, comma 6, del Tulps  dispone:  “Si considerano apparecchi e congegni automatici, semiautomatici ed elettronici da trattenimento o da gioco di abilità,  come  tali  idonei  per  il  gioco lecito, quelli che si attivano solo con l’introduzione di moneta metallica, nei quali gli  elementi  di  abilità  o  trattenimento  sono  preponderanti rispetto all’elemento aleatorio, il  costo  della  partita  non  supera  50 centesimi di euro, la durata della partita è compresa tra sette  e  tredici secondi e che distribuiscono vincite in denaro, ciascuna comunque di valore non superiore a  50  euro,  erogate  dalla  macchina  subito  dopo  la  sua conclusione ed esclusivamente in monete metalliche.  

Apparecchi e congegni art. 110, comma 6, del Tulps      

L’art. 110 del testo unico delle leggi di pubblica  sicurezza  (Tulps), di cui al R. D. 18 giugno 1931, n. 773, nel testo introdotto  dall’art.   22, comma 3, della L. 27 dicembre 2002, n. 289, al comma 6 considera apparecchi e congegni per il gioco lecito quegli  apparecchi  che,  nel  rispetto  dei limiti  e  delle   condizioni   fissati   normativamente,   consentono   la corresponsione di vincite in denaro.     

L’art. 39, comma 6, del D. L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla L.   24  novembre  2003,  n.   326,  nel  riordinare  la disciplina degli apparecchi con vincite in denaro, ha  apportato  modifiche al testo dell’art. 110, comma 6, del Tulps introdotto dall’art. 22 della L. N. 289 citata.     

Nell’attuale formulazione l’art. 110, comma 6, del Tulps  dispone:  “Si considerano apparecchi e congegni automatici, semiautomatici ed elettronici da trattenimento o da gioco di abilità,  come  tali  idonei  per  il  gioco lecito, quelli che si attivano solo con l’introduzione di moneta metallica, nei quali gli  elementi  di  abilità  o  trattenimento  sono  preponderanti rispetto all’elemento aleatorio, il  costo  della  partita  non  supera  50 centesimi di euro, la durata della partita è compresa tra sette  e  tredici secondi e che distribuiscono vincite in denaro, ciascuna comunque di valore non superiore a  50  euro,  erogate  dalla  macchina  subito  dopo  la  sua conclusione ed esclusivamente in monete metalliche.

In tal caso le  vincite computate dall’apparecchio e dal congegno, in modo non predeterminabile, su un ciclo complessivo di 14. 000 partite, devono risultare non  inferiori  al 75 per cento delle somme giocate. In ogni caso tali apparecchi non  possono riprodurre il gioco del poker o comunque  anche  in  parte  le  sue  regole fondamentali”.     

In forza del testo vigente  dell’art.   110,  comma  6,  del  Tulps  gli apparecchi e congegni che corrispondono vincite in denaro devono  possedere i seguenti requisiti:        

– si attivano solo con l’introduzione di moneta metallica;       

– gli elementi di abilità o trattenimento sono preponderanti rispetto all’elemento aleatorio;       

– il costo della partita non supera 50 centesimi di euro;       

– la durata della partita è compresa tra sette e tredici secondi;       

–  distribuiscono  vincite  in  monete  metalliche  subito  dopo   la conclusione della partita ciascuna di valore non superiore a 50 euro;       

– le vincite  computate  dall’apparecchio  o  congegno  in  modo  non predeterminabile su un ciclo complessivo di 14. 000 partite devono risultare non inferiori al 75 per cento delle somme giocate;      

– non possono riprodurre il gioco del poker o comunque anche in parte le sue regole fondamentali.  

Circolare n. 31 Roma, 02/03/2012

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La legge 8 agosto 1995, n. 335, entrata in vigore il 17 agosto 1995, all’art. 3, commi 9 e10, ha disciplinato, come noto, il nuovo regime di prescrizione della contribuzione di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle gestioni pensionistiche nonché di tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza obbligatoria. L’interpretazione coordinata dei due commi dell’art. 3, necessaria a definire l’esatta applicazione della norma, ha dato luogo ad un lungo contrasto giurisprudenziale che ha richiesto, anche da parte dell’Istituto, l’adeguamento nel tempo delle disposizioni impartite in materia.  Quanto il tema continui ad avere rilievo è dimostrato dai ripetuti interventi giurisprudenziali che si sono succeduti nel tempo anche per la fattispecie della prescrizione in presenza della denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti.  

Circolare n. 31 Roma, 02/03/2012

OGGETTO: Prescrizione dei contributi previdenziali ed assistenziali. Denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti.

Premessa

La legge 8 agosto 1995, n. 335, entrata in vigore il 17 agosto 1995, all’art. 3, commi 9 e10, ha disciplinato, come noto, il nuovo regime di prescrizione della contribuzione di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e delle gestioni pensionistiche nonché di tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza obbligatoria.

L’interpretazione coordinata dei due commi dell’art. 3, necessaria a definire l’esatta applicazione della norma, ha dato luogo ad un lungo contrasto giurisprudenziale che ha richiesto, anche da parte dell’Istituto, l’adeguamento nel tempo delle disposizioni impartite in materia.

Quanto il tema continui ad avere rilievo è dimostrato dai ripetuti interventi giurisprudenziali che si sono succeduti nel tempo anche per la fattispecie della prescrizione in presenza della denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti.

A tale riguardo, con la presente circolare si forniscono le istruzioni specifiche alla luce dei mutati orientamenti giurisprudenziali, da ritenersi ormai costanti e consolidati, che affermano che la denuncia del lavoratore deve avvenire prima dello spirare della prescrizione quinquennale per consentire il meccanismo del raddoppio della prescrizione da cinque a dieci anni previsto dall’art. 3, comma 9, lett. A) ultimo periodo, della legge n. 335/95.

1. Quadro normativo di riferimento.

E’ opportuno ricordare che con l’art. 3, commi 9 e 10 della legge in trattazione, in tema di prescrizione, si è delineato il seguente quadro:

a. I contributi relativi a periodi precedenti al 17 agosto 1995, si prescrivono in cinque anni dal 1° gennaio 1996. Qualora siano intervenuti atti interruttivi o siano state poste in essere procedure di recupero prima del 17 agosto 1995, continua ad applicarsi, agli effetti del computo del più ampio termine prescrizionale (13 anni), la sospensione prevista dall’ art. 2, comma 19, del D. L. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 novembre 1983, n. 638. Diversamente, qualora gli atti o le procedure di recupero siano stati compiuti entro il 31 dicembre 1995, permane il termine decennale di prescrizione.

b. I contributi dovuti per il finanziamento del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e di tutte le altre Gestioni pensionistiche obbligatorie in scadenza successivamente al 17 agosto 1995, conservano una prescrizione decennale fino al 31 dicembre 1995 (3). A decorrere dal 1° gennaio 1996, la prescrizione è ridotta a cinque anni;

c. La denuncia del lavoratore o dei suoi aventi causa effettuata, successivamente al 1° gennaio 1996, entro cinque anni dalla scadenza del termine previsto per il versamento della contribuzione non denunciata, consente la conservazione della prescrizione decennale per i contributi dovuti a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e di tutte le altre Gestioni pensionistiche obbligatorie;

d. I contributi dovuti ai Fondi per le prestazioni previdenziali e assistenziali in scadenza successivamente al 17 agosto 1995, si prescrivono da tale data in cinque anni.

2. La denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti diretta al recupero della contribuzione non denunciata. Giova ricordare preliminarmente che la denuncia costituisce lo strumento attraverso il quale il legislatore ha inteso offrire al lavoratore o ai suoi superstiti la possibilità di ottenere il riconoscimento della contribuzione non denunciata dal soggetto tenuto per legge all’adempimento contributivo che si trova in posizione di terzietà rispetto al denunciante.

Pertanto, sono legittimati ad effettuare la denuncia i lavoratori subordinati o a progetto, i lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, gli associati in partecipazione, i coadiuvanti dell’imprenditore artigiano e commerciante e i componenti del nucleo familiare dei lavoratori autonomi agricoli.

In ordine gli effetti derivanti dalla denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti,la Suprema Corte di Cassazione, nel confermare la validità degli atti interruttivi compiuti prima del 17 agosto 1995 e tra il 17 agosto ed il 31 dicembre1995, ha ribadito che, a decorrere dal 1° gennaio 1996, il termine di prescrizione dei contributi è quinquennale.

In particolare, con riferimento alla data del 17 agosto 1995, ai fini della conservazione della prescrizione decennale,la Corte ha chiarito che:

Qualora, alla medesima data, siano trascorsi cinque anni dalla scadenza dell’obbligo contributivo, la denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti, se intervenuta entro il 31 dicembre 1995, realizza il medesimo effetto conservativo della prescrizione decennale analogamente agli effetti degli atti interruttivi posti in essere dall’Istituto nel medesimo periodo.

Qualora, al 17 agosto 1995, non sia trascorso il termine di cinque anni dalla scadenza dell’obbligo contributivo, il termine di prescrizione decennale permane a condizione che, prima della scadenza del quinquennio, intervenga una denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti.

A decorrere dal 1° gennaio 1996, i contributi dovuti per il finanziamento del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e di tutte le altre Gestioni pensionistiche obbligatorie si prescrivono in cinque anni. Tuttavia, l’espressa previsione dell’art. 3, commi 9 e 10 della legge n 335/1995, non impedisce la possibilità che possa essere mantenuto il termine prescrizionale decennale qualora il lavoratore o i suoi superstiti presentino all’Istituto una denuncia entro il termine di cinque anni dalla scadenza dei contributi per i quali si chiede il recupero.

La denuncia, se compiuta secondo le modalità descritte al successivo punto e nei termini sopra indicati, è atto di per sé idoneo ad interrompere, per i successivi dieci anni dalla data in cui è avvenuta, il decorso della prescrizione.

Laddove, diversamente, la stessa venga effettuata oltre il predetto termine di cinque anni dalla scadenza dei contributi dei quali il lavoratore o i suoi superstiti chiedono il recupero, la contribuzione si considera prescritta e, qualora il datore di lavoro provveda ad effettuarne spontaneamente il versamento, l’Istituto deve procedere d’ufficio al suo rimborso.

In relazione a ciò, le disposizioni impartite in materia con la circolare n. 262 del 13 ottobre 1995, devono essere conformate alle indicazioni sopra descritte.  

3. Idoneità degli atti conservativi del termine decennale.

Come già illustrato al punto precedente, la denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti può, in talune ipotesi, determinare la conservazione del precedente termine decennale. Occorre, tuttavia, precisare, in accordo con l’ormai costante giurisprudenza, che per tale si deve intendere soltanto la denuncia di omissione contributiva presentata all’Istituto dall’interessato (o dai superstiti) ai fini del recupero dei contributi non denunciati e che, in tal caso, l’allungamento del termine prescrizionale opera indipendentemente dal fatto che l’Istituto si attivi o meno, nei confronti del datore di lavoro inadempiente, con le opportune azioni di recupero.

Gli operatori della funzione accertamento e gestione del credito dovranno procedere alla tempestiva gestione delle denunce effettuando le verifiche documentali poste a fondamento della richiesta del lavoratore e provvedendo, in presenza di tutti gli elementi richiesti, alla quantificazione del credito dell’Istituto e alla notifica al contribuente dell’atto di diffida al pagamento di quanto richiesto.

La funzione vigilanza dovrà essere attivata esclusivamente qualora la documentazione agli atti della denuncia non consenta la definizione in via amministrativa della richiesta.

Per quanto riguarda gli atti interruttivi (o gli atti di inizio di procedure di recupero) posti in essere dall’Istituto e ritenuti idonei ai fini dell’applicazione del preesistente termine di prescrizione decennale, oltre a richiamare quanto già rappresentato in proposito con la circolare n. 69 del 25 maggio 2005, si precisa che tra questi rientra qualunque concreta attività di indagine o attività ispettiva compiuta dall’Istituto in qualità di titolare della contribuzione omessa.

Al contrario, non potranno ritenersi idonei a determinare l’applicabilità del termine decennale di prescrizione, atti d’iniziativa, assunti da soggetti diversi, tra i quali si annoverano i verbali di altri Enti contenenti la contestazione dell’omissione contributiva.

Ricorrendo tale fattispecie, l’omissione contributiva, analogamente a quanto previsto in caso di denuncia del lavoratore, dovrà essere notificata al contribuente riportando nell’atto di diffida il riferimento all’atto di accertamento posto a base della richiesta.

Redditometro: Acquisto di immobili ed imbarcazione con denaro dei genitori Legittimo

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Redditometro: Acquisto di immobili ed imbarcazione con denaro dei genitori Legittimo

Commiss. Trib. Reg. Puglia Bari Sez. IX, Sent. , 29-04-2010, n. 52

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DI BARI NONA SEZIONE riunita con l’intervento dei Signori: SARDIELLO ANTONIO – Presidente MONTERISI VINCENZO – Relatore LANCIERI ROBERTO – Giudice ha emesso la seguente SENTENZA – sull’appello n. ____/09 depositato il 14/10/2009 – avverso la sentenza n. __/01/2008 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Bari proposto dall’ufficio: Agenzia Entrate Ufficio Bari

Fatto Diritto P. Q. M.  Svolgimento del processo

Con atto regolarmente notificato e depositato 30. 04. 2007 il sig.  ***** proponeva ricorso avverso avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Bari 2, con il quale gli veniva intimato il pagamento dell’importo di Euro 26. 785,52 sull’imponibile accertato in via sintetica di Lire 145. 180. 000 Lire 145. 180. 000 – pari ad Euro 74. 979,21 Euro 74. 979,21 – per l’anno 2000 – mai dichiarato – per l’effetto dell’acquisto di n. 4 immobili e di quota di una imbarcazione, per il complessivo importo di Lire 725. 900. 000 Lire 725. 900. 000 – pari ad Euro 374896,06. Il  *****, nella stessa data, ricorreva avverso altro avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate Ufficio Bari 2, anch’esso notificato il 30. 11. 2006 che, per le stesse causali, in relazione all’anno di imposta 1999, intimava il pagamento della medesima somma di Euro 26. 785,52 sull’imponibile accertato in via sintetica di Lire 145. 180. 000 Lire 145. 180. 000 – pari ad Euro 74. 979,21 Euro 74. 979,21 – per l’anno 2000 – mai dichiarato – per l’affetto dell’acquisto di n. 4 immobili e la quota di un’imbarcazione, per il complessivo importo di Lire 725. 900. 000 Lire 725. 900. 000 – pari ad Euro 374896,06. Il  *****, con detti ricorsi, dopo aver premesso che, a seguito della ricezione degli avvisi di accertamento, aveva inutilmente tentato la definizione della lite mediante accertamento adesivo, ex art.  6 D. Lgs. 218/97, con esito negativo, eccepiva la illegittimità degli atti opposti per difetto di motivazione e per essere stati gli acquisti, effettuati con danaro della propria famiglia di origine, con la quale conviveva, essendo all’epoca dei fatti appena maggiorenne ed ancora studente e privo di reddito.

Evidenziava che tali circostanze non erano state considerate dall’Agenzia delle Entrate.

Contestava, inoltre, gli accertamenti per essere, gli stessi, basati sulle sole risultanze del “redditometro”, la cui natura presuntiva non è certa, né verosimile; rilevava, altresì, che la quota a lui riferibile del natante era solo di 1/3 essendo lo stesso in comproprietà con il padre e la madre.

Concludeva per l’annullamento degli avvisi di accertamento e vittoria di spese.

Con memorie illustrative del 28. 03. 2008 ribadiva che gli acquisti erano stati effettuati con danaro dei genitori; opponeva la erroneità, incongruità e illegittimità dei coefficienti utilizzati e il difetto di motivazione degli atti, avendo l’Ufficio operato una ricostruzione irreale degli eventi ed applicato – non specificando l’iter seguito – parametri di determinazione della capacità contributiva, rilevando, infine, la decadenza dell’accertamento ai sensi dell’art.  17 D. P. R. 602/73 e dell’art.  43 D. P. R. 600/73.

Concludeva per l’accoglimento dei ricorsi

L’Agenzia delle Entrate Ufficio di Bari 2, nel ricorso sub n. 2489/07, relativo all’anno 2000, si costitutiva con memoria depositata il 03. 07. 2007 ed in quello sub n. 2490/07, relativo all’anno di imposta 1999, con memoria del 05. 07. 2007; contestava le ragioni addotte circa gli acquisti con denaro di famiglia per l’assenza di riscontro delle somme sugli estratti conto del padre, compreso il costo dell’imbarcazione.

Ribadiva la correttezza del suo operato per aver posto il ricorrente in condizioni di provare il contrario di quanto accertato, ancorché le relative motivazioni erano risultate inefficaci. Ridefiniva il reddito degli anni contestati – in via sintetica e presuntiva in Lire 119. 165. 000 (Euro 61. 543,59) dalle originarie Lire 145. 180. 000 (Euro 74. 979,21), avendo accertato che la quota posseduta dal ricorrente era pari ad 1/3 e non pari ad 1/2 e concludeva per il rigetto dei ricorsi con vittoria di spese di giudizio. La CTP di Bari, con sentenza n. 66/01/08 nel ricorso sub n. 2489/07 RG – relativo all’anno 2000 – e con sentenza n. 67/01/08 nel ricorso sub n. 2490/07 RG – relativo all’anno di imposta 1999, accoglieva i ricorsi. Avverso dette sentenze, ha proposto appello l’Agenzia delle Entrate Ufficio di Bari 2, con atti regolarmente notificati e depositati in data 14. 10. 2009, che qui si hanno per riportati e ritrascritti, chiedendone il rigetto.

Con detti appelli l’Amministrazione Finanziaria ha chiesto la riforma delle sentenze sostenendo essere le stesse affette da ultrapetizione e per aver, i primi giudici, accolto le motivazioni del contribuente senza che lo stesso avesse in alcun modo dimostrato “la provenienza delle somme occorse per far fronte agli investimenti” di cui agli accertamenti. Sostiene inoltre l’Ufficio che il contribuente non avrebbe fornito alcuna prova liberatoria atta a superare la presunzione di cui all’art.  38del D. P. R. 600/73 in quanto, a suo avviso, la documentazione fornita in sede di contraddittorio e cioè a dire estratti conto del sig. Gi. ***** – genitore del contribuente  *****Ma. – dai quali risulta un esborso per un importo di Euro 402. 526,51 in favore della Ma. S. A. S. , società che ha venduto l’imbarcazione, “in mancanza di esibizione di contratto preliminare, regolarmente registrato. Non possa dirsi idonea a documentare la spesa inerente l’acquisto dell’imbarcazione effettuata un anno dopo il 17. 09. 2002”.

L’Ufficio, poi, sostiene che il contribuente non abbia prodotto alcuna “specifica documentazione per giustificare la provenienza del danaro impiegato per gli altri investimenti patrimoniali” e che alcuna valenza può avere il sostenere che quelli investimenti siano stati resi possibili grazie all’aiuto economico dei genitori “poiché non è affatto improbabile che uno studente possa produrre reddito”.

Conclude, pertanto, per l’accoglimento degli appelli e la riforma delle sentenze.

Con memorie depositate il 03. 12,2009, che qui si hanno per riportate e conosciute, si è costituito il  *****Ma. Chiedendo in primo luogo che nel giudizio sub n. 2546/09 fosse operata la riunione dello stesso a quello sub n. 2544/09 innanzi alla IX sezione.

Il  *****, nella stessa data, si è costituito anche nel giudizio sub n. 2544/09. Con ambedue le memorie ha chiesto il rigetto degli appelli e la conferma delle sentenze di primo grado, con condanna alle spese dell’Amministrazione.

L’appello avverso la sentenza n. 66/01/08 n. 66/01/08 – relativo all’anno di imposta 2000 – iscritto al n. 2544/09 RGA è stato assegnato alla IX sezione; quello avverso la sentenza n. 67/01/08 n. 67/01/08 – relativo all’anno di imposta 1999 – iscritto al n. 2546/09 RGA è stato assegnato alla XIII sezione.

A seguito della istanza proposta dal  *****, in ordine a quest’ultimo giudizio, avendo il Presiedente della XIII sezione evidenziato la connessione con quello sub n. 2544/09, ha rimesso gli atti al Presidente della Commissione per la eventuale riassegnazione. Il Presidente della Commissione, con provvedimento del 23. 12. 2009 ha disposto la riassegnazione del giudizio sub n. 2546/09 alla IX sezione. All’udienza del 25 febbraio 2010, il Presidente del Collegio ha disposto la riunione degli appelli sub nn. 2544/09 e 2546/09 per connessione soggettiva ed oggettiva.

I rappresentanti delle parti si sono riportati alle rispettive difese; i ricorsi riuniti sono stati decisi.

Motivi della decisione

Gli appelli proposti dall’Agenzia delle Entrate Ufficio di Bari 2 sono infondati e meritano rigetto. Le motivazioni con le quali il primo giudice ha accolto i ricorsi, logiche ed esaustive, e che questo Collegio ritiene di fare proprie, relativamente alla erroneità, incongruità e legittimità dei coefficienti utilizzati e del difetto di motivazione degli atti impugnati, sono immuni da censure.

Dalla documentazione fornita tanto in sede di contraddittorio, quanto nei giudizi di primo grado, emerge in modo chiaro ed inequivocabile la fondatezza degli assunti del ricorrente.

In primo luogo non si può non evidenziare che il  *****, nato il (. ) nel 1999 aveva appena compiuto diciotto anni e risultava essere studente a carico dei genitori. Dalla stessa documentazione emerge che, contrariamente a quanto sostenuto dall’Agenzia, l’imbarcazione acquistata dalla Ma. S. A. S. Ed intestata per 1/3 –  al  *****Ma. è stata integralmente pagata dal padre,  *****Gi. E dalla madre sig. Ra Ca. An. ; non solo infatti, nell’atto di compravendita si dichiara che l’importo di Euro 402. 526,51 oltre I. V. A. è stata versata prima dell’atto alla Ma. Che ne ha rilasciato quietanza a saldo, ma oltre ad un assegno a firma della sig. Ra Ca. An. – madre del  *****Ma. – e ai bonifici effettuati dal  *****Gi. , vi sono le fatture della Ma. S. A. S. Intestate allo stesso sig. Gi. ***** si deve, evidenziare inoltre, che avendo il contribuente, ottemperando all’invito, trasmesso all’Ufficio le proprie deduzioni, tanto è che a seguito di ciò si è instaurato il contraddittorio, l’avviso di accertamento notificato doveva contenere una adeguata replica tale da superare tutte le deduzioni del  ***** Come correttamente evidenziato dalla Corte Suprema di Cassazione – v. La relazione tematica n.94 del 09.07.09 dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo -, la mancanza di tale motivata replica comporta che gli atti impositivi gli avvisi di accertamento notificati devono essere considerati nulli per difetto di motivazione.

L’onere di motivazione sugli elementi forniti dal contribuente in sede di contraddittorio, deve intendersi, infatti, come necessità di una motivazione che dimostri che le ragioni e circostanze allegate dal contribuente sono state a) prese in considerazione; b) adeguatamente valutate; c) ragionevolmente superate.

Nel caso di specie gli accertamenti impugnati non contengono l’adeguata prevista obbligatoria replica alle deduzioni del contribuente, di talché quegli atti devono in ogni caso considerarsi nulli per difetto di motivazione.

Gli appelli dell’Agenzia delle Entrate sub nn. 2544/09 e 2546/09 RGA sono pertanto da rigettare.

Stante la complessità della materia e la novità, in specie per quanto attiene la necessità della motivazione da parte dell’Amministrazione, a seguito del contraddittorio instauratosi, sussistono giusti motivi per la totale compensazione delle spese.  P. Q. M.

La Commissione Tributaria Regionale di Bari Sezione IX, sugli appelli proposti dalla Agenzia delle Entrate Ufficio di Bari 2 sub nn. 2544/09 e n. 2546/09, riuniti, contro  *****Ma. , avverso le sentenze nn. 66/01/2008 e 67/01/08 della Commissione Tributaria Provinciale di Bari, così provvede: “Rigetta gli appelli. Compensa le spese”.

Rubrica Legale dell’Avv. Lifang Dong: La responsabilità dai vizi del prodotto OEM

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Rubrica Legale dell'Avv. Lifang Dong: La responsabilità dai vizi del prodotto OEM

Rubrica Legale dell’Avv. Lifang Dong: La responsabilità dai vizi del prodotto OEM

Sig. Francesco: Buongiorno, Avvocato Dong! Sono direttore di una società italiana di prodotti alimentari con grande diffusione in Cina.

Tuttavia, a causa della crisi, circa un anno fa, abbiamo affidato ad un’impresa cinese la produzione dei nostri prodotti e fino a qualche giorno fa è andato tutto per il meglio. Tuttavia, di recente una consumatrice dei nostri prodotti ha subito dei gravi danni fisici a causa di un vizio dei generi alimentari da noi realizzati, e, per questo, ha agito in tribunale per chiedere il risarcimento.

A mio avviso, non abbiamo alcuna responsabilità per l’accaduto proprio perché il prodotto è stato lavorato dalla società cinese.

In ogni caso, dovremo presentarci in tribunale e dare delle spiegazioni. Può dirmi qualcosa di più sulla mia posizione in base alla legge cinese?

Avv. Dong: Buongiorno Sig. Francesco!

Direi che la Sua storia è un tipico evento di responsabilità dai vizi del prodotto OEM. L’articolo 43 della Legge cinese sulla Qualità del Prodotto prevede che, se si subisce un danno personale o patrimoniale a causa dei difetti dei prodotti, la vittima può richiedere il risarcimento dei danni sia ai produttori sia ai venditori.

Se la responsabilità è dei produttori e il risarcimento viene pagato dai venditori, questi ultimi hanno il diritto di regresso nei confronti dei produttori; se, invece, la responsabilità è dei venditori e la compensazione viene pagata dai produttori, questi ultimi hanno il diritto di regresso nei confronti dei venditori. L’articolo 40 della Legge dispone che il venditore è responsabile per la riparazione, sostituzione, restituzione e risarcimento dei danni subiti dai consumatori nei seguenti casi:

(1) quando non è possibile utilizzare i prodotti per l’uso a cui sono destinati e il venditore non ha dato spiegazioni illustrative;

(2) quando la qualità dei prodotti oppure le confezioni non sono conformi agli standard indicati nelle spiegazioni illustrative;

(3) quando la qualità dei prodotti non coincide con quella specificata nelle istruzioni per l’uso o con la qualità dei campioni previsti.

Dopo l’effettuazione della riparazione sostituzione, restituzione o risarcimento dei danni da parte del venditore, secondo le disposizioni del comma precedente, questo ultimo ha diritto di regresso nei confronti dei produttori o fornitori, se quest’ultimi sono responsabili, salvi i casi in cui le parti abbiano concluso un patto contrario.

Secondo il diritto cinese, per “produttore” si intende qualsiasi soggetto, che indica la denominazione sociale, numero di registrazione,  marchio, nome e cognome o altri segni distintivi sul prodotto o sulla confezione, che possa identificare la società, l’ente o la persona fisica produttrice si assumerà la responsabilità per vizi sulla qualità del prodotto. Se il prodotto difettoso o la confezione sia contraddistinto solo dalla denominazione sociale del committente o del mandatario, allora la responsabilità sarà assunta solo dal committente o dal mandatario; diversamente se entrambe le parti indichino le loro denominazioni sociali sul prodotto, allora entrambi le parti si assumeranno la responsabilità solidale.

Alla luce delle disposizioni predette, benché la Sua società non produca l’articolo direttamente, ma apponga semplicemente il proprio marchio sul prodotto, rientrerà nel concetto di “produttore”.

In ogni caso, non essendo la Sua società ad aver causato i difetti che hanno provocato il danno, Le consiglio di rivolgersi ad un Avvocato al fine di difendere i Suoi diritti.

Nota: il contenuto di questo articolo non costituisce un parere del nostro studio legale, ma ha funzione informativa. Se Lei ha altri dubbi, ci può contattare per ulteriori informazioni ed assistenza legale.

董丽芳律师信箱:OEM产品质量责任

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先生:董丽芳律师,您好!我是一家意大利厨具企业的经理,我们的产品在中国拥有广泛的知名度。为了应对经济危机和降低产品的成本,大概一年前,我们开始委托一家无锡的中国企业为我们进行贴牌生产,我们的合作进展的很顺利。但最近,一个客户在使用我们的产品时因质量问题遭受了身体伤害,于是他将我们和上述无锡企业告上法庭,要求我们赔偿其损失。在我看来,我们没有实际生产,对产品质量缺陷也没有过错,原告对我们的起诉是毫无道理的,但我们已经收到了法院的传票,因此您能给我们一些法律建议吗?

             董丽芳律师信箱:OEM产品质量责任

先生:董丽芳律师,您好!我是一家意大利厨具企业的经理,我们的产品在中国拥有广泛的知名度。为了应对经济危机和降低产品的成本,大概一年前,我们开始委托一家无锡的中国企业为我们进行贴牌生产,我们的合作进展的很顺利。但最近,一个客户在使用我们的产品时因质量问题遭受了身体伤害,于是他将我们和上述无锡企业告上法庭,要求我们赔偿其损失。在我看来,我们没有实际生产,对产品质量缺陷也没有过错,原告对我们的起诉是毫无道理的,但我们已经收到了法院的传票,因此您能给我们一些法律建议吗?

董丽芳律师:Francesco先生,您好!向您的这种情况,属于典型的OEM产品质量责任。中国《产品质量法》第43条规定,因产品存在缺陷造成人身、他人财产损害的,受害人可以向产品的生产者要求赔偿,也可以向产品的销售者要求赔偿。属于产品的生产者的责任,产品的销售者赔偿的,产品的销售者有权向产品的生产者追偿。属于产品的销售者的责任,产品的生产者赔偿的,产品的生产者有权向产品的销售者追偿。第40条规定,售出的产品有下列情形之一的,销售者应当负责修理、更换、退货;给购买产品的消费者造成损失的,销售者应当赔偿损失:(1)不具备产品应当具备的使用性能而事先未作说明的;(2)不符合在产品或者其包装上注明采用的产品标准的;(3)不符合以产品说明、实物样品等方式表明的质量状况的。销售者依照前款规定负责修理、更换、退货、赔偿损失后,属于生产者的责任或者属于向销售者提供产品的其他销售者(以下简称供货者)的责任的,销售者有权向生产者、供货者追偿。生产者之间,销售者之间,生产者与销售者之间订立的买卖合同、承揽合同有不同约定的,合同当事人按照合同约定执行。而根据相关法律规定,任何将名称、商号、商标、姓名或者可资识别的其他标识体现在产品上及包装上,表示其为产品制造者的企业、组织及个人,即属于的“生产者”,应当承担产品质量责任。如果不合格产品或者包装上仅标注了委托方或受委托方的名称,则委托方或者受托方单独承担产品质量责任,如果同时标注了委托方和受托方的名称,则双方均为生产商,共同承担连带的产品质量责任。

依据上述法律规定,尽管贵公司并未参与实际的生产,但将自己的标识贴在了商品上,因此属于“生产者”的范畴。据此,原告对贵公司的起诉是合法的。但正如贵公司提到的,产品的缺陷是因受托企业而引起,为此我建议贵公司聘请自己的律师,积极应诉以捍卫自己的权利。
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