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Roma, 30/07/2012 Circolare n. 103

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Roma, 30/07/2012 Circolare n. 103  OGGETTO: Controversie in materia di Invalidità civile – Art. 10 comma 6 della Legge 248/2005 modificato dal decreto legge n. 5 del 9 febbraio 2012 convertito con legge n. 35 del 4 aprile 2012.

Roma, 30/07/2012 Circolare n. 103

OGGETTO: Controversie in materia di Invalidità civile – Art. 10 comma 6 della Legge 248/2005 modificato dal decreto legge n. 5 del 9 febbraio 2012 convertito con legge n. 35 del 4 aprile 2012.

SOMMARIO: 1. Premessa

2. Disposizioni organizzative 2. 1 Giudizi di secondo grado relativi al contenzioso pendente alla data del 1° ottobre 2012

2. 2 Giudizi relativi al contenzioso instaurato a decorrere dalla data del 1° ottobre 2012

3. Ruolo delle Direzioni regionali

4. Modifiche procedurali

5. Attività di Formazione

6. Attività centrali di supporto e monitoraggio

1. Premessa

L’Istituto, in forza dell’art. 10 comma 6 della Legge n. 248/2005, si è avvalso, limitatamente ai procedimenti giudiziari di primo grado, della facoltà di affidare ai funzionari amministrativi la propria rappresentanza e difesa legale nel contenzioso in materia di invalidita’ civile. L’impiego di dette risorse (di seguito brevemente denominati funzionari Inv. Civ. ), opportunamente ed adeguatamente formate, risponde all’esigenza organizzativa di decongestionare gli Uffici Legali attribuendo la gestione delle relative attività di minore complessità a risorse appositamente individuate, in modo da potere concentrare l’azione dei professionisti dell’area legale sul presidio del contenzioso giudiziario di più marcata tecnicità. Il decreto legge 6 luglio 2011 n. 98, convertito con modificazioni dalla Legge 15 luglio 2011, n. 111, all’art. 38 ha introdotto l’art. 445 bis del codice di procedura civile che, come noto, sancisce, per le controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità e per quelle relative alle prestazioni di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 222/84, l’obbligatorietà dell’Accertamento Tecnico Preventivo (ATPO) e configura l’eventuale successiva fase come un giudizio di merito. Successivamente è intervenuta la Legge n. 183 del 12 novembre 2011 (Legge di stabilità 2012) che, all’art. 27, comma 1, lettera f, ha disposto l’inappellabilità delle sentenze che definiscono il su citato eventuale giudizio di merito. A seguito di siffatte importanti innovazioni processuali l’Istituto ha emanato la Circolare n. 168 del 30. 12. 2011. Da ultimo, il decreto legge n. 5 del 9 febbraio 2012, convertito con Legge n. 35 del 4 aprile 2012, ha novellato il citato art. 10 comma 6 del D. L. N. 203/2005 convertito con modificazioni in Legge n. 248/2005, stabilendo che, nelle controversie in materia di invalidità civile, sordomutismo, handicap e disabilità, l’Inps è rappresentato e difeso direttamente dai propri dipendenti “con esclusione del giudizio di cassazione”. La norma, pertanto, consente la rappresentanza e difesa dell’Istituto da parte dei funzionari amministrativi, sempre in materia di invalidita’ civile, anche nel processo di secondo grado che si svolge davanti alle Corti di Appello. Considerato il complesso quadro normativo che si è venuto a determinare a seguito della disposizione che esclude l’impiego dei funzionari amministrativi solo per il giudizio di cassazione, si rende  necessario fornire alle sedi indicazioni univoche sull’utilizzo di tali risorse nei giudizi di secondo grado, come consentito dalle recenti modifiche legislative. Affinché le strutture interessate possano predisporre tutte le necessarie attività propedeutiche, le disposizioni organizzative di seguito descritte saranno operative dal 1° ottobre 2012.

2. Disposizioni organizzative

Si riportano, di seguito, i criteri generali sulla base dei quali procedere alla gestione del contenzioso giudiziario di secondo grado in materia di invalidità civile. Preliminarmente si fa presente, che, per evidenti ragioni di economicità connesse alla riduzione degli oneri di missione e ad un efficiente impiego delle risorse, i giudizi di secondo grado saranno curati dalle Direzioni provinciali dei capoluoghi sede di Corte di Appello. Ciò premesso, in considerazione della necessità di garantire una difesa efficace delle ragioni dell’Istituto, adeguata alla complessità degli atti da svolgere e delle questioni tecnicogiuridiche da affrontare, si dispone che i giudizi di appello in materia di invalidità civile siano trattati come segue: contenzioso passivo: l’Istituto potrà essere rappresentato e difeso dai Funzionari Inv. Civ. Della Direzione provinciale del capoluogo sede di Corte d’Appello; contenzioso attivo: la rappresentanza e difesa dell’Istituto dovrà essere garantita unicamente dai professionisti legali dell’Avvocatura distrettuale.   Nell’ambito dei criteri generali appena descritti, si esaminano di seguito le principali categorie di procedimenti di secondo grado in materia di invalidità civile, alla luce del nuovo quadro normativo.

2. 1 Giudizi di secondo grado relativi al contenzioso pendente alla data del 1° ottobre 2012

Relativamente ai giudizi di primo grado in materia di invalidità civile pendenti alla data del 1° ottobre 2012 già affidati ai funzionari Inv. Civ. , la rappresentanza e difesa dell’Istituto in secondo grado sarà curata sulla base del principio sopra enunciato e pertanto il contenzioso passivo potrà essere affidato ai funzionari Inv. Civ. Della Direzione provinciale del capoluogo sede di Corte d’Appello.

Il contenzioso attivo sarà trattato dai professionisti legali, i quali cureranno anche gli appelli relativi alle sentenze di primo grado già depositate alla data del 1° ottobre 2012 e gli appelli passivi relativi ai giudizi di primo grado in carico agli Uffici legali alla medesima data.   L’U. O. Gestione organizzativa ricorsi amministrativi che ha gestito il procedimento di 1° grado dovrà, comunque, garantire la tempestiva e completa trasmissione alla Direzione provinciale che seguirà il 2° grado di giudizio, del fascicolo di causa e di tutti gli atti ed i documenti necessari per un’efficace difesa dell’Istituto.  

2. 2 Giudizi relativi al contenzioso instaurato a decorrere dalla data del 1° ottobre 2012

Relativamente ai procedimenti giudiziari instaurati dal 1° gennaio 2012, opera “a regime” , per tutte le cause in cui sia controverso unicamente il requisito sanitario, il grado unico per il giudizio di merito, che segue l’espletamento dell’accertamento tecnico preventivo ATPO. Al riguardo si ribadisce quanto disposto dalla Circolare n. 168/2011 e, pertanto, i Funzionari Inv. Civ seguiranno i procedimenti in materia di invalidità civile fino alla definizione della fase relativa all’ATPO. Il successivo ed eventuale giudizio di merito, che si instaura in caso di contestazione dell’ATPO, sarà curato unicamente dall’Avvocatura territoriale competente. A decorrere dalla data del 1° ottobre 2012 i funzionari Inv. Civ. Cureranno la rappresentanza e difesa dell’Istituto anche in tutti i giudizi di primo grado non preceduti da ATPO (quali, a titolo esemplificativo, i giudizi conseguenti alla mancata esecuzione del decreto di omologa per carenza dei requisiti amministrativi o i giudizi scaturenti dall’interruzione del pagamento delleprovvidenze, le richieste di provvedimenti cautelari), nonchè nell’eventuale contenzioso passivo di 2° grado. A tal fine, dalla medesima data, sarà nuovamente  consentita, a parziale modifica del messaggio numero 5776 del 2 aprile 2012, l’acquisizione dei ricorsi di primo grado nel SISCO-IC.   I professionisti legali garantiranno la rappresentanza e la difesa dell’Istituto nel contenzioso attivo di 2° grado relativo ai giudizi di cui al precedente capoverso e, in considerazione della specialità del rito, negli eventuali giudizi di opposizione avverso decreti ingiuntivi, atti di precetto e di pignoramento aventi ad oggetto le provvidenze economiche, gli accessori e le spese legali in materia di invalidità civile.

3. Ruolo delle Direzioni regionali

Come descritto in premessa, all’Istituto è riconosciuta la facoltà di affidare ai funzionari amministrativi la propria rappresentanza e difesa legale nel contenzioso in materia di invalidità civile, con esclusione del giudizio di cassazione. L’esercizio di tale opzione gestionale deve rispondere necessariamente a concrete esigenze operative di decongestionamento degli Uffici Legali, attraverso l’affidamento delle relative attività di minore complessità a risorse appositamente individuate e formate.   La maggiore complessità professionale ed organizzativa che caratterizza il giudizio d’appello rispetto a quello di primo grado, richiede, per il concreto esercizio della facoltà introdotta dalla Legge n. 35/2012, una preventiva valutazione delle criticità prevedibili e dei benefici attesi.   Per tale motivo ed in considerazione del ruolo che la Determinazione commissariale n. 140 del 29 dicembre 2008 attribuisce alle Direzioni regionali, alle quali è riconosciuta nell’ambito della responsabilità complessiva della gestione, quella di esercitare la verifica della qualità dei servizi e di assicurarne l’integrazione e lo sviluppo equilibrato in tutte le strutture, i Direttori regionali, sulla base dei carichi di lavoro gravanti sugli Uffici, sentiti i Coordinatori distrettuali con funzioni di coordinamento regionale, con propria determinazione individueranno le strutture territoriali sedi di Corte d’Appello presso le quali attiveranno, con le modalità definite nella presente circolare, tale opzione organizzativa ed operativa, informandone la Direzione Centrale Organizzazione e la Direzione Centrale Pianificazione e controllo di gestione.

4. Modifiche procedurali

La procedura Sisco verrà implementata per consentire la gestione del contenzioso giudiziario in materia di invalidità civile, così come previsto dalla presente circolare. In particolare, i giudizi per i quali sarà adottata la opzione gestionale dell’impiego dei Funzionari amministrativi Inv. Civ. Saranno incardinati nel settore SISCO-IC, mentre quelli che saranno affidati agli Avvocati, nel settore SISCO-CO. Nel caso in cui i Direttori regionali abbiano adottato la determinazione che individua le strutture territoriali presso le quali attivare la suddetta opzione gestionale, l’amministratore della sede abiliterà la gestione del contenzioso nel settore SISCO-IC dei Funzionari amministrativi Inv. Civ. Con successivo messaggio Hermes verranno fornite le indicazioni operative, anche con riferimento alle nuove funzionalità della procedura SISCO. Al fine di consentire la corretta individuazione e allocazione delle risorse umane impiegate nella gestione del contenzioso di invalidità civile, sia di 1° che di 2° grado, le Direzioni regionali invieranno alla DCPCG l’elenco dei funzionari (file formato excel contenente: sede/matricola/cognome-nome) impiegati nella difesa dell’Istituto ai sensi di quanto previsto dalla circolare n. 93/2009; tali funzionari saranno attribuiti ad uno specifico CIC (xxxx3206) in modo da permetterne la rilevazione puntuale e il successivo trattamento della presenza nell’ambito delle misure di produzione. 5. Attività di Formazione Al fine di consentire l’impiego ottimale dei Funzionari amministrativi Inv. Civ. Nella gestione del contenzioso giudiziario di secondo grado, i Direttori regionali, previa valutazione dello stato di professionalizzazione raggiunto dai funzionari, cureranno, d’intesa con i Coordinatori distrettuali con funzione di coordinamento regionale, l’organizzazione dei necessari interventi formativi sul territorio, informando dei piani predisposti la Direzione centrale Risorse Umane. Per consentire un corretto monitoraggio centrale di tali interventi, è necessario che tutti i corsi di formazione regionale vengano denominati con il seguente titolo: “Funzionari Inv. Civ. : la gestione del contenzioso”.

6. Attività centrali di supporto e monitoraggio

Come di consueto, per garantire una corretta attuazione delle disposizioni operative contenute nella presente circolare, la Direzione generale effettuerà attività di monitoraggio e verifica delle azioni svolte, nonché supporto e affiancamento alle Direzioni regionali e provinciali. Le sedi potranno inviare comunicazioni e qualsiasi richiesta di informazioni e chiarimenti all’indirizzo GestioneContenzioso. DCOrg@inps. It.

 

Circolare n. 90 del 27/06/2012

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Riscossione 2012 dei contributi dovuti dagli iscritti alle gestioni degli artigiani e commercianti sulla quota di reddito eccedente il minimale e dai liberi professionisti iscritti alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26 della legge 8 agosto 1995 n. 335

Circolare n. 90 del 27/06/2012

Riscossione 2012 dei contributi dovuti dagli iscritti alle gestioni degli artigiani e commercianti sulla quota di reddito eccedente il minimale e dai liberi professionisti iscritti alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26 della legge 8 agosto 1995 n. 335

1. Termini e modalità di versamento

L’Istituto ha provveduto, previo scambio di dati con l’Agenzia delle Entrate, alla spedizione di un prospetto di liquidazione contenente l’indicazione degli importi e delle causali per il versamento dei contributi previdenziali relativi all’anno 2012, nonché una lettera esplicativa delle modalità di determinazione degli importi dovuti dai commercianti ed artigiani.

Nel richiamare le precisazioni fornite con circolare n. 14 del 3 febbraio 2012 in ordine alla misura e alle modalità di pagamento dei contributi previdenziali dovuti nel corrente anno dagli artigiani e dagli esercenti attività commerciali, si fa presente che, ai sensi del D. L. 15 aprile 2002, n. 63, convertito con modificazioni dalla legge 15 giugno 2002, n. 112, i contributi dovuti sulla quota di reddito eccedente il minimale devono essere versati alle scadenze previste per il pagamento delle imposte sui redditi.

I lavoratori autonomi, che svolgono attività di cui all’art. 53, comma 1, del TUIR, iscritti alla Gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, legge 8 agosto 1995, n. 335 devono versare il contributo dovuto, al netto degli eventuali acconti versati nell’anno precedente, entro le scadenze stabilite ai fini fiscali. Alla stessa data deve essere versato anche l’acconto relativo all’anno d’imposta 2012.

Per il corrente anno le scadenze fiscali, inizialmente stabilite per il 18 giugno 2012 per il saldo 2011 ed il primo acconto 2012 e 30 novembre 2012 per il secondo acconto 2012, sono state modificate dal D. P. C. M. 6 giugno 2012, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale – Serie generale n. 135 del 12 giugno 2012.

L’art. 1 del citato D. P. C. M. Prevede, infatti, lo slittamento dei termini, dal 18 giugno al 9 luglio 2012, senza alcun pagamento aggiuntivo, dei versamenti risultanti dalle dichiarazioni dei redditi, da quelle in materia di imposta regionale sulle attività produttive e dalla dichiarazione unificata annuale: tale slittamento è applicabile anche a quei contributi che devono essere versati alle scadenze previste per il pagamento delle imposte sui redditi.

La proroga riguarda le persone fisiche, mentre per tutti gli altri soggetti lo spostamento in avanti delle scadenze si riferisce soltanto alle attività interessate dagli studi di settore.

Il D. P. C. M prevede, inoltre, in relazione alle stesse imposte, la possibilità di effettuare i versamenti dal 10 luglio al 20 agosto 2012, versando una maggiorazione, a titolo di interesse, pari allo 0,40 per cento.

La predetta maggiorazione dello 0,40 per cento deve essere versata separatamente dai contributi, utilizzando la causale contributo “API” (artigiani) o “CPI” (commercianti) e la codeline INPS utilizzata per il versamento del relativo contributo, oppure con la causale DPPI nel caso dei liberi professionisti.

2. Reddito imponibile

In merito all’individuazione dell’ammontare del reddito da assoggettare all’imposizione dei contributi previdenziali, nel far rinvio alle precisazioni fornite con circolare n. 102 del 12 giugno 2003, si fa presente che deve essere preso in considerazione il totale dei redditi d’impresa conseguiti nel 2011, al netto delle eventuali perdite dei periodi d’imposta precedenti scomputate dal reddito dell’anno.

Per i soci di S. R. L. Iscritti alle gestioni degli artigiani o dei commercianti la base imponibile, oltre a quanto eventualmente dichiarato come reddito d’impresa, è costituita dalla parte del reddito d’impresa della S. R. L. Corrispondente alla quota di partecipazione agli utili, ovvero alla quota del reddito attribuita al socio per le società partecipate in regime di trasparenza.

Ciò premesso, si indicano, di seguito, gli elementi che costituiscono la base imponibile per il calcolo della contribuzione dovuta, indicati eventualmente nei quadri RF (impresa in contabilità ordinaria), RG (impresa in regime di contabilità semplificata e regimi forfetari) e RH (redditi di partecipazione in società di persone ed assimilate):

RF47 – (RF48 + RF50, col. 1) + [RG29 – (RG31+RG33, col. 1)] + [somma algebrica (colonne 4 da RH1 a RH4 con codice 1,3 e 6 e colonne 4 da RH5 a RH6) – RH12] + RS37 colonna 11.

Si sottolinea che i redditi in argomento devono essere integrati anche con quelli eventualmente derivanti, agli iscritti alle Gestioni, dalla partecipazione a società a responsabilità limitata denunciati con il mod. Unico SC (società di capitali).

Per i Liberi professionisti la base imponibile sulla quale calcolare la contribuzione dovuta è rappresentata dal reddito di lavoro autonomo dichiarato ai fini Irpef nel quadro RE , se l’attività è esercitata in forma individuale e/o nel quadro RH, nel caso in cui l’attività è esercitata in forma associata.

Si rammenta che, a partire dalla dichiarazione Unico Persone Fisiche 2011, ai fini della determinazione dell’imponibile da assoggettare a contribuzione, devono essere indicati tutti i redditi che hanno concorso al raggiungimento del massimale retributivo, di cui all’art. 2, comma 18, L. 335/1995, oltre il quale nella Gestione separata non è più dovuta la contribuzione previdenziale.

In particolare nei righi da RR5 a RR7 della sezione II del Quadro RR del modello unico PF, a colonna 1, deve essere riportato il reddito imponibile sul quale è stato calcolato il contributo a carico del professionista, eventualmente ridotto entro il limite del massimale e dell’eventuale quota che ha concorso al massimale stesso derivante da altri redditi già assoggettati a contribuzione nella gestione separata (ad esempio il reddito derivante da attività di collaborazione o da lavoro autonomo occasionale superiore a € 5. 000). Se ricorre tale ultimo caso deve essere barrata la casella di colonna 8 del rigo RR5.

3. Reddito imponibile per i contribuenti minimi

Per i soggetti che – ai sensi dell’art. 1, commi da 96 a 117, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 – fruiscono del regime semplificato per i contribuenti minimi, la base imponibile per il calcolo dei contributi dovuti viene determinata come segue:

CM6 (Reddito lordo o perdita) – CM9 (Perdite pregresse).

Il reddito da assoggettare ad imposizione contributiva previdenziale, infatti, deve essere considerato al netto delle perdite pregresse ma al lordo dei contributi previdenziali, che il contribuente dovrà indicare nel rigo CM7.

4. Rateizzazione

Per i commercianti e gli artigiani la rateizzazione può avere ad oggetto esclusivamente i contributi dovuti sulla quota di reddito eccedente il minimale imponibile, con esclusione quindi dei contributi dovuti sul minimale predetto, ancorché risultanti a debito del contribuente nel Quadro RR in quanto non versati in tutto o in parte all’atto della compilazione del modello UNICO 2012.

Per i liberi professionisti la rateazione può essere effettuata sia sul contributo dovuto a saldo per l’anno di imposta 2011 che sull’importo del primo acconto relativo ai contributi per l’anno 2012.

La prima rata deve essere corrisposta entro il giorno di scadenza del saldo e/o dell’acconto differito; le altre rate alle scadenze indicate nel modello Unico persone fisiche 2012.

In ogni caso il pagamento rateale deve essere completato entro il mese di novembre 2012.

L’importo da pagare ad ogni scadenza dovrà essere determinato secondo le modalità riportate nelle istruzioni per la compilazione del mod. Unico 2012 nella parte riguardante “Modalità e termini di versamento – Rateazione”.

Gli interessi devono essere corrisposti utilizzando, per ogni sezione del modello, l’apposita causale (API o CPI o DPPI) e, per gli artigiani e commercianti, la medesima codeline relativa al contributo cui afferiscono. Essi decorrono dal termine previsto per il versamento in via ordinaria dell’acconto e/o del saldo, eventualmente differito, che coincide con il termine di versamento della prima rata.

In merito alle modalità di compilazione del modello F24 in caso di pagamento rateale, si precisa quanto segue:
gli interessi vanno esposti separatamente dai contributi;
le causali da utilizzare per il pagamento dei soli contributi sono: CP, CPR, AP, APR, P10, P10R, PXX, PXXR, mentre per il pagamento degli interessi comprensivi anche della maggiorazione devono essere utilizzate le causali CPI o API o DPPI;
la rateizzazione riguarda sia i contributi dovuti, che la maggiorazione dello 0,40 per cento nel caso in cui il versamento della prima rata sia effettuato dal 10 luglio al 20 agosto.

5. Il Quadro RR del modello UNICO Persone Fisiche 2012

Ai sensi dell’articolo 10 del decreto legislativo n. 241/97, il quadro RR sezione I del modello UNICO Persone Fisiche 2012 deve essere compilato, ai fini della determinazione dei contributi dovuti per l’anno 2011, sulla base dei redditi dichiarati per il medesimo anno, dai soggetti iscritti alle gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attività commerciali.

In questa sede appare sufficiente evidenziare che, qualora dal Quadro RR emergano debiti a titolo di contributi dovuti sul minimale di reddito ed il contribuente intenda regolarizzare la propria posizione tramite mod. F24, la codeline da riportare nel modello è sempre quella relativa ai predetti contributi sul minimale di reddito (codeline del titolare).

In caso di importi diversi da quelli originari, la codeline deve essere rideterminata secondo i criteri esposti al punto 6 che segue. Qualora l’importo da corrispondere si riferisca a più di una rata, dovrà essere riportato quale numero rata “0”.

I liberi professionisti iscritti alla Gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 terranno conto della circolare n. 16 del 03 febbraio 2012 per la determinazione della contribuzione dovuta, mentre per la compilazione del Quadro RR – sezione II, avranno cura di osservare le istruzioni contenute nel mod. Unico 2012.

6. Compensazione

L’importo eventualmente risultante a credito dal Quadro RR del modello UNICO 2012 può essere portato in compensazione nel modello di pagamento unificato F24.

Per effettuare la compensazione il contribuente compilerà uno o più righi di uno o più modelli F24 indicando la causale contributo AP o AF (artigiani) o CP o CF (commercianti), il codice sede, il codice INPS (17 caratteri) relativo alla riscossione dell’anno 2010, se il credito è evidenziato nella colonna 16 o 28 del Quadro RR (credito dell’anno precedente) o dell’anno 2011 se il credito emerge dalla dichiarazione 2012 (i codici INPS sono rilevabili dai prospetti inviati unitamente ai modelli F24 dei predetti anni).

Sarà quindi indicato il periodo di riferimento (l’anno 2010 ovvero il 2011, secondo quanto appena evidenziato) e l’importo che si intende compensare.

Qualora venga portata in compensazione soltanto una quota parte della contribuzione originariamente versata con una delle quattro rate relative al minimale imponibile il codice INPS (codeline di n. 17 caratteri) dovrà essere rideterminato in funzione del nuovo importo secondo i criteri di cui al punto 3 della circolare n. 98 del 7 maggio 2001.

A tal fine potrà essere utilizzata la funzione di calcolo della codeline rilevabile nel sito Internet www. Inps. It – servizi on line – elenco di tutti i servizi – calcolo codeline.

Analogamente per i liberi professionisti l’eventuale importo che risulta a credito dal Quadro RR del modello UNICO 2012 potrà essere portato in compensazione utilizzando sempre il modello di pagamento unificato F24, secondo le modalità indicate nelle istruzioni relative allo stesso.

 

Cass., sez. lav., 10 aprile 2012, n. 5677

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Rapporto a tempo determinato e impugnazione del termine apposto illegittimamente: Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un terminale finale, per aversi tacito mutuo consenso, inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro, non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente appoosto e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumerein maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro, ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso.  

Rapporto a tempo determinato e impugnazione del termine apposto illegittimamente

Cass. , sez. Lav. , 10 aprile 2012, n. 5677

Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un terminale finale, per aversi tacito mutuo consenso, inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro, non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente appoosto e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumerein maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro, ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso. (Nella specie la S. C. Ha riformato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto sussistente il tacito mutuo consenso delle parti alla risoluzione del contratto sul mero decorso del tempo, più di sei anni, tra la cessazione del contratto e l’impugnazione dello stesso. )

Nota – Nella fattispecie in esame, la Corte di Appello di Catania ha confermato la decisione di primo grado con la quale era stata rigettata la domanda diretta all’accertamento della nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro a tempo determinato prorogato per due volte, in ragione del mutuo consenso alla risoluzione del rapporto di lavoro intervenuto fra le parti, desumibile dal fatto che il lavoratore avevalasciato decorrere più di sei anni dalla scadenza dell’ultimo rapporto a termine prima di attivare il tentativo di conciliazione e, quindi di agire in giudizio contro la società.

Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione lamentando che il mutuo consenso alla risoluzione del contratto di lavoro non può essere desunto dal mero decorso del tempo intercorrente tra la scadenza del contratto a tempo determinato e l’esperimento dell’azione in giudizio per l’impugnazione della clausola del termine.

La Suprema Corte ha ritenuto fondato detto motivo di impugnazione e richiamando alcune decisioni in materia ( Cass. 15 novembre 2010, n. 23057; Cass. 19 novembre 2010, n. 23501; Cass. 1° febbraio 2010, n. 2279; Cass. 29 aprile 2011, n. 9583), ha confermato che: “per aversi tacito mutuo consenso, inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro, non basta il mero decorso del tempofra la scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumere in maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro, ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso”.

In applicazione di detti principi, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto insufficiente la motivazione resa dall Corte territoriale, in quanto fondata su un fatto ( il mero decorso del tempo – più di sei anni – tra la cessazione del secondo ed ultimo contratto a termine e l’esercizio dell’azione giudiziaria) di per sé giuridicamente non rilevante e non accompagnato dalla valorizzazione di circostanze diversamente significative ed idonee ad essere interpretate come sintomatiche di una chiara e certa comune volontà di considerare definitivamente chiuso il rapporto di lavorativo.

La Suprema Corte ha, pertanto, accolto il ricorso rinviando il giudizio alla Corte di Appello di Palermo per l’applicazione del principio enunciato.

 

Sentenza della Corte di Cassazione Penale numero 18139 del 14 maggio 2012

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Infortunio del lavoratore: risponde il venditore del macchinario: La Corte d’appello di Lecce confermava la condanna inflitta in primo grado a un commerciante per il reato di lesione personali colpose in danno di una donna, cameriera in un hotel, che aveva riportato l’amputazione di una mano, a causa dell’utilizzo di una macchina stiratrice professionale venduta e installata dall’imputato.

Infortunio del lavoratore: risponde il venditore del macchinario

Sentenza della Corte di Cassazione Penale del 14 maggio 2012

Il venditore del macchinario privo dei necessari requisiti di sicurezza risponde penalmente dell’infortunio occorso al lavoratore.

La sentenza. E’ quanto si evince dalla sentenza 18139, pubblicata ieri, 14 maggio 2012, dalla Quarta Sezione Penale della Cassazione.

Il caso. La Corte d’appello di Lecce confermava la condanna inflitta in primo grado a un commerciante per il reato di lesione personali colpose in danno di una donna, cameriera in un hotel, che aveva riportato l’amputazione di una mano, a causa dell’utilizzo di una macchina stiratrice professionale venduta e installata dall’imputato.
L’obbligo. A sostegno della decisione, i giudici del merito avevano invocato l’art. 6, D. L. Vo 626/94, che vieta, tra l’atro, la vendita di attrezzature da lavoro e di impianti non rispondenti alle norme sulla sicurezza e impone agli installatori di attenersi alle norme di sicurezza. Di qui, il riconoscimento di un preciso obbligo in capo all’imputato, in qualità di venditore e installatore, di assicurare la conformità del macchinario alle norme antinfortunistiche, eventualmente anche sollecitando ed operando modifiche, laddove i difetti, come nel caso di specie, fossero evidenti.

La Corte. Gli Ermellini, investiti dell’esame della controversia, hanno osservato che, nel caso di specie, l’accertata “inadeguatezza dei sistemi di protezione del macchinario era percepibile palesemente e ictu oculi”, a maggior ragione da un soggetto come l’imputato certamente esperto nel settore, per la sua attività di venditore di tali macchinari. Prendendo le mosse da una simile considerazione, il Collegio di Piazza Cavour ha ritenuto sussistente la responsabilità dell’esercente (sia pure ai soli fini civili, stante l’intervenuta prescrizione del reato), anche alla luce del principio di diritto, secondo il quale: “nel caso di incidente derivato dall’uso di un macchinario, anche del venditore del macchinario stesso ove si tratti di infortunio riconducibile alla inadeguatezza dei congegni antinfortunistici di quel macchinario: ‘Il divieto di vendita di macchine non conformi alle norme antinfortunistiche, di cui all’articolo 6 del D. Lgs. 19 settembre 1994 n. 626, come sostituito dall’articolo 4 del D. Lgs. 19 marzo 1996 n. 242, non può ritenersi limitato agli industriali o commercianti che abitualmente forniscono le macchine, attrezzature e impianti, bensì va esteso a qualsiasi soggetto che esegua anche una sola vendita o rivendita’”. Peraltro, “in tema di lesioni personali a seguito di infortunio sul lavoro, la condotta di colui che, in violazione del divieto sancito dallo articolo 7 del D. P. R. 547/1955, venda una macchina non conforme alle prescrizioni dell’articolo 68 dello stesso D. P. R. , è di per sé sufficiente a integrare l’elemento di colpa specifica del delitto di cui all’articolo 590 C. P. , ed è legata da nesso concausale con l’evento lesivo, stante la normalità e la conseguenzialità dell’impiego della macchina nel ciclo produttivo della ditta acquirente”.

La prescrizione. In conclusione, la Quarta Sezione Penale ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali, per intervenuta prescrizione del reato, “ferme restando le disposizioni della sentenza che concernono gli effetti civili”.

Licenziamento del dirigente

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La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, per riconnettere alla mancanza di essa il diritto del dipendente licenziato ad un’indennità, si discosta, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, da quella di giustificato motivo di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, art. 3. Sul piano soggettivo, tale asimmetria trova la sua ragion d’essere nel rapporto fiduciario che lega in maniera più o meno penetrante al datore di lavoro il dirigente in ragione delle mansioni a lui affidate per la realizzazione degli obiettivi aziendali, per cui anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o un’importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro o un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale a causa della posizione rivestita dal dirigente possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura di tale rapporto fiduciario e quindi giustificare il licenziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso.  

Licenziamento del dirigente Cass. , sez. Lav. , 10 aprile 2012, n. 5671 La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, per riconnettere alla mancanza di essa il diritto del dipendente licenziato ad un’indennità, si discosta, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, da quella di giustificato motivo di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, art. 3. Sul piano soggettivo, tale asimmetria trova la sua ragion d’essere nel rapporto fiduciario che lega in maniera più o meno penetrante al datore di lavoro il dirigente in ragione delle mansioni a lui affidate per la realizzazione degli obiettivi aziendali, per cui anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o un’importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro o un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale a causa della posizione rivestita dal dirigente possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura di tale rapporto fiduciario e quindi giustificare il licenziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso. Sul piano oggettivo, la concreta posizione assegnata al dirigente nell’articolazione della struttura direttiva dell’azienda può inoltre divenire nel tempo non pienamente adeguata nello sviluppo delle strategie di impresa del datore di lavoro nell’esercizio della sua iniziativa economica e quindi rendere, anche solo per questa minore utilità, giustificata la sua espulsione nel quadro di scelte orientate al miglior posizionamento dell’impresa sul mercato. Anche la nozione di giusta causa legale di licenziamento risente infine – sia pure in misura più contenuta in quanto legata ad una definizione precisa dettata dall’esigenza di tener conto della maggiore gravità delle conseguenze – dell’investimento di fiducia fatto dal datore di lavoro con l’attribuire al dirigente compiti, di volta in volta strategici o comunque di impulso, di direzione e di orientamento nella struttura organizzativa aziendale. In tema di assenza alla visita di controllo, il giustificato motivo di esonero del lavoratore in stato di malattia dall’obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo ricorre oltre che nel caso di forza maggiore, in ogni situazione che, ancorché non insuperabile e nemmeno tale da determinare, ove non osservata, la lesione di beni primari, abbia reso indifferibile altrove la presenza personale del lavoratore, come la concomitanza di visite mediche, prestazioni sanitarie o accertamenti specialistici, purché sia dimostrata l’impossibilità di effettuare tali visite in orario diverso da quello corrispondente alla fasce orarie di reperibilità. Nota – Il giudizio riguarda un dirigente, licenziato per giusta causa (per assenza dal domicilio nelle fasce orarie di disponibilità per le visite di controllo durante la malattia), che ha impugnato il licenziamento anche per il risarcimento danni da mobbing e demansionamento. La Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha accolto in parte il ricorso del dirigente, riconoscendo al medesimo il diritto all’indennità di preavviso, avendo escluso la giusta causa di recesso ma non la giustificatezza dello stesso, poiché i fatti posti a base del provvedimento espulsivo, pur non essendo così gravi da impedire la prosecuzione del rapporto per il periodo del preavviso, integravano il giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Il datore di lavoro ha proposto ricorso per cassazione, censurando, in particolare, la motivazione della sentenza in merito alla ritenuta insussistenza della giusta causa di licenziamento. La Suprema Corte ha ritenuto infondato detto motivo di impugnazione e, richiamando un principio già espresso con la sentenza n. 11691/2005, ha precisato che: “La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, per riconnettere alla mancanza di essa il diritto del dipendente licenziato ad un’indennità, si discosta, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, da quella di giustificato motivo di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, art. 3. Sul piano soggettivo, tale asimmetria trova la sua ragion d’essere nel rapporto fiduciario che lega in maniera più o meno penetrante al datore di lavoro il dirigente in ragione delle mansioni a lui affidate per la realizzazione degli obiettivi aziendali, per cui anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o un’importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro o un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale a causa della posizione rivestita dal dirigente possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura di tale rapporto fiduciario e quindi giustificare il licenziamento sul piano delle disciplina contrattuale dello stesso. Sul piano oggettivo, la concreta posizione assegnata al dirigente nell’articolazione della struttura direttiva dell’azienda può inoltre divenire nel tempo non pienamente adeguata nello sviluppo delle strategie di impresa del datore di lavoro nell’esercizio della sua iniziativa economica e quindi rendere, anche solo per questa minore utilità, giustificata la sua espulsione nel quadro di scelte orientate al miglior posizionamento dell’impresa sul mercato. Anche la nozione di giusta causa legale di licenziamento risente infine sia pure in misura più contenuta in quanto legata ad una definizione precisa dettata dall’esigenza di tener conto della maggiore gravità delle conseguenze dell’investimento di fiducia fatto dal datore di lavoro con l’attribuire al dirigente compiti, di volta in volta strategici o comunque di impulso, direzione e di orientamento nella struttura organizzativa aziendale”. Posta la premessa di cui sopra, con riferimento al caso concreto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la Corte di Appello di Roma avesse applicato correttamente i principi sopra esposti, avendo ritenuto che il comportamento contestato al dirigente (assenza dal domicilio nelle fasce orarie di disponibilità per le visite di controllo) pur essendo grave in relazione alla posizione apicale ricoperta dal lavoratore (“al quale è richiesto, con maggiore rigore, l’osservanza degli obblighi e dei doveri di condotta”) non fosse, però, tale da impedire la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto di lavoro. La Suprema Corte ha, altresì, precisato che la giustificatezza del licenziamento, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, era determinata dal fatto che il dirigente, pur avendo dimostrato che, in concomitanza delle visite di controllo domiciliari si trovava ad effettuare alcune visite ambulatoriali presso il medico curante, non aveva provato che dette visite ambulatoriali potevano essere programmate in orari diversi da quelli di reperibilità. A questo proposito, la Cassazione ha ricordato il principio (già espresso con la sentenza n. 14735/2004), secondo il quale: “In tema di assenza alla visita di controllo, il giustificato motivo di esonero del lavoratore in stato di malattia dall’obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo ricorre oltre che nel caso di forza maggiore, in ogni situazione che, ancorché non insuperabile e nemmeno tale da determinare, ove non osservata, la lesione di beni primari, abbia reso indifferibile altrove la presenza personale del lavoratore, come la concomitanza di visite mediche, prestazioni sanitarie o accertamenti specialistici, purché sia dimostrata l’impossibilità di effettuare tali visite in orario diverso da quello corrispondente alla fasce orarie di reperibilità”.  

Proroga per associazione ed enti non profit per usufruire del 5 per mille

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Proroga per usufruire del contributo cinque per mille, per enti non profit, attraverso  il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 20 aprile 2012, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 98  del 27 aprile 2012.

Proroga per usufruire del contributo cinque per mille per enti non profit

Attraverso  il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dello scorso 20 aprile 2012, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 98  del 27 aprile 2012, reca  “Disposizioni in materia di cinque per mille a sostegno del volontariato e delle  organizzazioni non lucrative  di utilità sociale di cui all’articolo 10 del decreto  legislativo 4 dicembre 1997,  n. 460, delle associazioni di promozione sociale  iscritte nei registri nazionale, regionali e provinciali previsti dall’articolo 7 della  legge 7 dicembre 2000, n. 383, e delle associazioni e fondazioni riconosciute che  operano nei settori di cui all’articolo 10, comma 1, del citato decreto legislativo  n. 460 del 1997. Esercizi finanziari 2009, 2010 e 2011”.  

In particolare, il decreto prevede:  

·        la proroga al 31 maggio 2012 dei termini per l’integrazione documentale delle domande di iscrizione presentate dagli enti del volontariato per la  partecipazione al riparto del contributo del cinque per mille per gli esercizi  finanziari 2009, 2010 e 2011;

·        la validità delle domande di iscrizione presentate entro il 30 giugno 2010 relativamente all’esercizio finanziario 2010 ed entro il 30 giugno 2011 per  l’esercizio finanziario 2011  dagli enti del volontariato in possesso dei  requisiti per l’accesso al beneficio alla data rispettivamente del 7 maggio  2010 e del 7 maggio 2011;  

·        la proroga, a decorrere dall’esercizio finanziario 2011,  al primo giorno lavorativo successivo  dei termini per l’effettuazione degli adempimenti  connessi al contributo del cinque per mille  che scadono di sabato o di  giorno festivo.    

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Periodo di prova e interruzione del decorso per ferie

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Le ferie interrompono la decorrenza del periodo di prova, che si prolunga per i giorni fruiti dal lavoratore, a meno, naturalmente, che la loro fruizione non fosse stata prevista preventivamente all’interno del patto.  

Periodo di prova e interruzione del decorso per ferie Cass. , sez. Lav. , 22 marzo 2012, n. 4573

Le ferie interrompono la decorrenza del periodo di prova, che si prolunga per i giorni fruiti dal lavoratore, a meno, naturalmente, che la loro fruizione non fosse stata prevista preventivamente all’interno del patto. Nota – Il caso di specie è sorto in seguito al licenziamento per mancato superamento del periodo di prova di un lavoratore, assunto come apprendista montatore calzaturiero, con un periodo di prova di un mese. Il lavoratore impugnava il licenziamento affermando che, posto che l’assunzione era avvenuta il 25 novembre, il licenziamento, intimato il 3 gennaio, era stato assunto dopo il decorso del periodo di prova e chiedeva pertanto, previo accertamento dell’illegittimità del licenziamento, la condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno. Il Tribunale di Rimini respingeva il ricorso e la Corte d’Appello di Bologna confermava la decisione di primo grado, osservando che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il recesso, comunicato dalla società il 3 di gennaio e motivato dal mancato superamento della prova, non era tardivo e, come tale, nullo, tenuto conto della data di assunzione (25 novembre) e della data del recesso (3 gennaio) e del periodo di fruizione delle ferie natalizie (dal 23 dicembre al 1° gennaio), sicché il recesso risultava intimato non oltre il mese, tenuto conto del mancato espletamento dell’attività nei giorni 23 e 24 dicembre.

Il lavoratore ricorreva pertanto in Cassazione denunciando la falsa applicazione ed erronea interpretazione dell’art. 2109 c. C. E dell’art. 85 Ccnl di categoria in relazione al disposto dell’art. 41 Cost. Ed in particolare lamentava che la Corte del merito avesse ricondotto il periodo feriale a quegli eventi di norma non prevedibili e come tali, sempre di norma, interferenti sul periodo della prova, nel senso di richiederne il corrispondente prolungamento per i giorni della mancata erogazione della prestazione lavorativa.

Il ricorrente lamentava inoltre che la Corte territoriale avesse trascurato di considerare la peculiarità della fattispecie, erroneamente sostenendo che, anche nel caso in oggetto, non si fosse potuto avere previsione dell’incidenza di tale evento sul periodo stabilito per la prova.

Il ricorrente, pur dando atto che, ai sensi dell’art. 2109 c. C. Spetta al datore di lavoro determinare il periodo in cui far godere le ferie ai propri dipendenti nell’anno lavorativo, tenuto conto delle esigenze dell’impresa – e ciò nel rispetto del principio di libertà economica fissato dall’art. 41 della Costituzione della Repubblica ed anche degli interessi del prestatore di lavoro -, sostiene che tale determinazione, essendo, nella specie, avvenuta, di concerto e previa consultazione con le Rsu, ed essendo stata preventivamente resa nota ai prestatori di lavoro, non abbisognava di ulteriori “apposite conferme in relazione alle concrete esigenze aziendali”, delle quali il datore di lavoro aveva evidentemente già tenuto conto nella determinazione operata.

Con il secondo motivo il ricorrente lamentava che la Corte territoriale avesse ritenuto che i disposti calendari aziendali delle ferie sarebbero stati meri programmi di massima, e che richiedevano una conferma di volta in volta, senza dare ragione di come, a novembre (quando al periodo stabilito per le ferie mancavano ormai poco più di tre settimane e non vi era più tempo di utilmente procrastinarlo), si potesse ritenere quel programma una mera previsione di massima inidonea a fondare un diritto dei lavoratori a fruire delle ferie nel periodo indicato.

La Cassazione ha rigettato il ricorso richiamando il principio (Cass. N. 23061/2007), secondo il quale il decorso di un periodo di prova, determinato nella misura di un complessivo arco temporale, non è sospeso da ipotesi di mancata prestazione lavorativa inerenti al normale svolgimento del rapporto, quali i riposi settimanali e le festività. Devono, invece, ritenersi esclusi (considerata la funzione di consentire alle parti di verificare la convenienza della collaborazione reciproca del periodo di prova concordato tra le parti) i giorni in cui la prestazione non si è verificata per eventi non prevedibili al momento della stipulazione del patto stesso, quali la malattia, l’infortunio, la gravidanza e il puerperio, i permessi, lo sciopero, la sospensione dell’attività del datore di lavoro nonché il godimento delle ferie annuali, in quanto, queste ultime in particolare, hanno la funzione di consentire al lavoratore il recupero delle energie lavorative dopo un cospicuo periodo di attività, che solitamente pertanto maturano dopo il periodo di prova. Pertanto, “come regola generale le ferie interrompono la decorrenza del periodo di prova, che si prolunga per i giorni fruiti dal lavoratore (a meno, naturalmente, che la loro fruizione non fosse stata prevista preventivamente all’interno del patto)”.

Nel caso di specie, la Corte di merito, dopo aver osservato che nessuna pattuizione di fruizione delle ferie era stata prevista preventivamente all’interno del patto di prova, ha preso in esame la disposizione del Ccnl, interpretandola, in ragione della sopraevidenziata caratteristica del contratto di lavoro con clausola di prova, in termini di adempimento, per il caso di mancato recesso al termine del periodo di prova, dell’onere di informazione, a carico dell’imprenditore, circa la durata o le modalità di determinazione e di fruizione delle ferie. A ciò si aggiunga che la contrattazione collettiva applicabile ha recepito il principio dell’effettività dell’esperimento della prova attraverso la previsione (implicita) ai fini della prova dei giorni di effettivo lavoro.

La Cassazione ha pertanto, per le ragioni sopraesposte, rigettato il ricorso.  

Proroga per la presentazione della denuncia dei redditi attraverso modello 730

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Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 26. 04. 2012 ha stabilito che i contribuenti persone fisiche tenuti a presentare denuncia dei redditi per l’annualità 2011 attraverso il modello 730 godono di una proroga di  tempo fino al prossimo 16 maggio, se provvedono a darlo al sostituto d’imposta, oppure fino al 20 giugno, se utilizzano intermediari abilitati (Caf o commercialista).

Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 26. 04. 2012 ha stabilito che i contribuenti persone fisiche tenuti a presentare denuncia dei redditi per l’annualità 2011 attraverso il modello 730 godono di una proroga di  tempo fino al prossimo 16 maggio, se provvedono a darlo al sostituto d’imposta, oppure fino al 20 giugno, se utilizzano intermediari abilitati (Caf o commercialista).

Cassazione sezione lavoro 26 marzo 2012, n. 4797 Licenziamento di dirigente

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Non è applicabile al dirigente – non ha rilievo se si tratti di dirigente apicale ovvero di dirigenti medi o minori – la disciplina dettata dalla legge n. 604/1966 o quella della legge 300/1970 ed ai fini della legittimità (o meno) del licenziamento deve farsi riferimento alla nozione di giustificatezza, la quale, come è noto, non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo, ex art. 1 della legge n. 604/1966, ma è molto più ampia e può fondarsi sia su ragioni soggettive ascrivibili al dirigente, sia su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non devono necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale, tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost.  

Licenziamento di dirigente

Cass. Sez. Lav. 26 marzo 2012, n. 4797

Non è applicabile al dirigente – non ha rilievo se si tratti di dirigente apicale ovvero di dirigenti medi o minori – la disciplina dettata dalla legge n. 604/1966 o quella della legge 300/1970 ed ai fini della legittimità (o meno) del licenziamento deve farsi riferimento alla nozione di giustificatezza, la quale, come è noto, non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo, ex art. 1 della legge n. 604/1966, ma è molto più ampia e può fondarsi sia su ragioni soggettive ascrivibili al dirigente, sia su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non devono necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale, tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost.

Nota – Il caso di specie è sorto in seguito al licenziamento di un dirigente di un istituto di credito che aveva rifiutato il trasferimento ad altra sede. Questi agiva in giudizio dinanzi al giudice del lavoro del Tribunale di Viterbo perché fosse dichiarata la nullità del licenziamento che sosteneva essere stato ritorsivo.

Il Tribunale e la Corte di Appello di Roma confermavano la legittimità del licenziamento posto che era stato intimato non – come sostenuto dal dirigente – a seguito del rifiuto del dirigente ad essere distaccato in altre città, ma piuttosto per le esigenze legate alla ristrutturazione della banca datrice di lavoro, da cui erano emerse considerevoli eccedenze di personale ad ogni livello, per far fronte alle quali, per mantenere i livelli occupazionali, la banca aveva adottato anche lo strumento del distacco di parte del personale.

Il dirigente proponeva pertanto ricorso per cassazione per molteplici motivi. In primo luogo denunciava il fatto che la sentenza impugnata non si fosse pronunciata in merito alla nullità del licenziamento che il dirigente asseriva essere stato intimato per ritorsione successivamente alla proposizione da parte dello stesso di un’azione giudiziaria avverso il provvedimento di distacco, posto che tale pronuncia aveva ritenuto il distacco illegittimo. La Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato posto che la sentenza impugnata ha precisato che il licenziamento era stato intimato per le esigenze legate alla ristrutturazione della datrice di lavoro e non per il rifiuto del lavoratore ad accettare il distacco, che gli era stato offerto perché ritenuto l’unico strumento per mantenere invariati i livelli occupazionali. Il licenziamento non poteva pertanto ritenersi ritorsivo, posto che il preteso motivo ritorsivo deve, come richiesto da consolidata giurisprudenza, essere l’unico motivo alla base del recesso perché questo possa essere qualificato come tale (Cass. N. 17087/2011). Cosa che nel caso di specie non è avvenuta data la specificazione dell’esigenza di ristrutturazione aziendale che era stata posta a base del licenziamento.

Con ulteriore motivo il dirigente denunciava che non era stato preso in considerazione il fatto che il Tribunale, in sede di reclamo, aveva confermato l’illegittimità del distacco e ordinato la sospensione del distacco del dipendente e che successivamente il dirigente era stato licenziato. La Cassazione ha affermato che la dichiarata illegittimità del distacco non era un elemento che si poneva in contrasto con l’interpretazione letterale della motivazione indicata nella lettera di licenziamento che, dopo l’espresso richiamo alle esigenze di riorganizzazione della struttura della banca, specificava che “il criterio adottato dalla banca contemplava, fra gli altri, il ricorso all’istituto del distacco, che è stato adottato nei suoi riguardi avendo la riorganizzazione comportato la soppressione della sua posizione di lavoro”. La Cassazione rilevava inoltre che il ricorrente, limitandosi ad insistere nella propria valutazione del licenziamento come conseguenza del rifiuto al distacco nella sede di Brescia, non spiegava quale fosse l’errore di interpretazione compiuto dal giudice del merito nel pervenire alla conclusione che il recesso era stato motivato a causa delle esigenze di ristrutturazione aziendale che avevano comportato anche la soppressione della posizione lavorativa in precedenza occupata dal dirigente. Inoltre, dato che è consolidata giurisprudenza che “la disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi n. 604/1966e n. 300/1970 non è applicabile, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 604/1966, ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudodirigenti, vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente” (Cass. N. 25145/2010) e che era stato accertato, con autorità di giudicato, che il ricorrente rivestisse la qualifica di dirigente, la Corte ha ritenuto la censura infondata.

In definitiva, la Corte ha rigettato il ricorso del dirigente e affermato che non è applicabile al dirigente la disciplina dettata dalla legge n. 604/1966o quella della legge n. 300/1970ed ai fini della legittimità del licenziamento deve farsi riferimento alla nozione di giustificatezza.

Cass., sez. lav., 28 febbraio 2012, n. 3033

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Risarcimento dei danni per infortunio sul lavoro: posta la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’articolo 2087 del codice civile, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre – in parziale deroga al principio generale stabilito dall’articolo 2697 del codice civile – non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento.

Risarcimento dei danni per infortunio sul lavoro

Cass. , sez. Lav. , 28 febbraio 2012, n. 3033

Posta la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’articolo 2087 del codice civile, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre – in parziale deroga al principio generale stabilito dall’articolo 2697 del codice civile – non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento.

Diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza – asseritamente omesse – siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso articolo 2087 del codice civile, che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza.

Nel primo caso – riferibile alle misure di sicurezza cosiddette “nominate” – il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa – ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere – nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito. La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno.

Nel secondo caso – in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette “innominate” – la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standard” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe.

Nota – La fattispecie in esame riguarda il caso di un dipendente di una banca che si era rivolto al Tribunale di Foggia per domandare il risarcimento dei danni per infortunio sul lavoro asseritamente subiti in occasione di una rapina avvenuta nell’agenzia della banca dove prestava servizio.

Il Tribunale ha rigettato il ricorso.

Anche la Corte di Appello di Bari ha respinto il ricorso del lavoratore ritenendo che la banca avesse adempiuto all’obbligazione di cui all’articolo 2087 del codice civile essendo stata accertata, nell’agenzia dove era avvenuta la rapina, l’osservanza degli standard di sicurezza presenti in tutte le altre filiali del medesimo istituto bancario. Inoltre, il lavoratore non aveva indicato ulteriori sistemi di sicurezza che la banca avrebbe potuto o dovuto osservare per evitare la rapina.

Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando che la sentenza impugnata fosse errata nella parte in cui aveva gravato il lavoratore dell’onere della prova in merito all’adempimento dell’obbligo di sicurezza che sarebbe, invece, spettato alla banca.

La Suprema Corte, richiamando una precedente decisione in materia (Cass. 25 maggio 2006, n. 12445), ha ritenuto infondato detto motivo di impugnazione.

Dopo avere premesso che: “Posta la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’articolo 2087 del codice civile, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre in parziale deroga al principio generale stabilito dall’articolo 2697 del codice civile non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento “, la Suprema Corte di Cassazione ha precisato che “Diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza asseritamente omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso articolo 2087 c. C. , che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza.

Nel primo caso riferibile alle misure di sicurezza cosiddette “nominate” il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito.

La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno.

Nel secondo caso in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette “innominate” la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standard” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe”.

La Cassazione ha, pertanto, stabilito che nel caso in esame la Corte territoriale aveva correttamente individuato gli standard di sicurezza idonei ad adempiere l’obbligo di sicurezza in quelli utilizzati nelle altre filiali dello stesso istituto bancario e, posto che dette misure di sicurezza erano risultate presenti nell’agenzia che aveva subito la rapina, l’obbligo di sicurezza della banca era da ritenersi adempiuto.

La Suprema Corte ha, altresì, rilevato che il lavoratore ricorrente non aveva indicato le misure che il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare.

La Corte di Cassazione, ha, per questi motivi, rigettato il ricorso.

 

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