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Discriminatorietà della mancata assunzione di lavoratori iscritti a sigla sindacale

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Discriminatorietà della mancata assunzione di lavoratori iscritti a sigla sindacale

Cassazione, sez. Lav. , 11 marzo 2014, n. 5581

MASSIMA

E` discriminatorio non assumere, nell’ambito di una operazione di «riassorbimento» di personale addetto ad uno stabilimento aziendale, soltanto i lavoratori iscritti ad una determinata sigla sindacale.

COMMENTO

E` discriminatorio non assumere, nell’ambito di una operazione di «riassorbimento» di personale addetto ad uno stabilimento aziendale, soltanto i lavoratori iscritti ad una determinata sigla sindacale.

Discriminatorietà della mancata assunzione di lavoratori iscritti a sigla sindacale

Cassazione, sez. Lav. , 11 marzo 2014, n. 5581

MASSIMA

E` discriminatorio non assumere, nell’ambito di una operazione di «riassorbimento» di personale addetto ad uno stabilimento aziendale, soltanto i lavoratori iscritti ad una determinata sigla sindacale.

COMMENTO

E` discriminatorio non assumere, nell’ambito di una operazione di «riassorbimento» di personale addetto ad uno stabilimento aziendale, soltanto i lavoratori iscritti ad una determinata sigla sindacale.

Questo e` l’effetto determinato dalla sentenza dell’11 marzo 2014, n. 5581, della Corte di Cassazione che, dichiarando inammissibile il ricorso dell’azienda e, quindi, senza entrare nel merito della vicenda, ha di fatto confermato le decisioni rese in primo e secondo grado. Il caso, cui gli organi di informazione continuano a dare particolare rilievo, riguarda il ricorso presentato al Tribunale di Roma, in funzione di Giudice del lavoro, dalla Fiom – Cgil Nazionale per conto di alcuni lavoratori iscritti, ma anche in nome di altre persone, non individuabili in modo diretto ed immediato.

Il Sindacato chiedeva che fosse accertata la discriminazione collettiva ai sensi del D. Lgs. N. 213/2003, nonchè degli artt. 3 e 4 Cost. E dell’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, posta in essere dalla F. I. P. Spa attraverso l’esclusione dall’assunzione dei 19 lavoratori suoi iscritti e nominativamente indicati, nonche ́ di tutti i lavoratori in atto iscritti alla Fiom, quantomeno in numero tale da ristabilire, e mantenere, tra essi e il totale degli assunti, il rapporto proporzionale preesistente tra gli iscritti alla Fiom e i lavoratori in forza alla F. G. A. Spa nello stabilimento di Pomigliano.

La Corte d’Appello di Roma, confermando la decisione del Tribunale circa la natura di discriminazione collettiva dell’esclusione dalle assunzioni dei lavoratori del detto stabilimento iscritti alla Fiom, ordinava alla F. I. P. Di cessare dal comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti e, pertanto, di predisporre e attuare nel termine di 180 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza un piano di assunzione di 126 lavoratori da selezionare, secondo i criteri gia` utilizzati per l’assunzione dei lavoratori presso lo stabilimento di Pomigliano, nell’ambito dell’elenco nominativo degli affiliati alla F. I. O. M. Risultante al momento della presentazione del ricorso di primo grado. Nel contempo la Corte territoriale dichiarava la natura di discriminazione individuale dell’esclusione dalle assunzioni presso lo stesso stabilimento dei 19 lavoratori nominativamente indicati, ordinando la loro riassunzione.

Tanto decideva la Corte d’Appello ritenendo che la direttiva 2000/78/CE, tutelando le convinzioni personali avverso le discriminazioni, aveva dato ingresso nell’ordinamento comunitario al formale riconoscimento, seppure nel solo ambito della regolamentazione dei rapporti di lavoro, della cosiddetta libertà ideologica, il cui ampio contenuto poteva essere stabilito anche facendo riferimento all’art. 6 del Trattato dell’Unione Europea e, quindi, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo; se il legislatore comunitario avesse voluto comprendere nelle convinzioni personali solo quelle assimilabili al carattere religioso, come sostenuto dall’azienda, non avrebbe avuto bisogno di differenziare le ipotesi di discriminazioni per motivi religiosi da quelle per convinzioni per motivi diversi; doveva pertanto ritenersi che l’ampia nozione di «convinzioni personali» racchiudeva una serie di categorie di ciò che poteva essere definito il «dover essere» dell’individuo, dall’etica alla filosofia, dalla politica in senso lato alla sfera dei rapporti sociali; il contenuto dell’espressione «convinzioni personali», richiamato dall’art. 4 del D. Lgs. N. 216/2003 non poteva essere percio` interpretato che nel contesto del sistema normativo speciale in cui era inserito, restando irrilevante che in altri testi normativi la medesima espressione potesse essere stata utilizzata come alternativa al concetto di opinioni politiche o sindacali; l’affiliazione sindacale rappresentava la professione pragmatica di un’ideologia di natura diversa da quella religiosa, connotata da specifici motivi di appartenenza ad un organismo socialmente e politicamente qualificato a rappresentare opinioni, idee, credenze suscettibili di tutela, in quanto oggetto di possibili atti discriminatori vietati.

Pertanto, secondo i giudici di appello, nell’ambito della categoria generale delle convinzioni personali caratterizzata dall’eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica, poteva essere ricompresa anche la discriminazione per motivi sindacali, con il conseguente divieto di atti o comportamenti idonei a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione dell’affiliazione o della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali.

La Corte d’Appello evidenziava anche come fosse del tutto irrilevante il fatto che la F. I. P. Avesse proceduto alle assunzioni dei lavoratori attingendo al bacino di provenienza della F. G. A. Ed ottemperando cos`ı ad un preciso impegno contrattuale, perchè comunque le assunzioni dovevano essere svolte nel pieno rispetto di tutte le disposizioni di legge, ivi comprese quelle relative al divieto di discriminazioni.

Per di più, secondo la Corte territoriale, i ricorrenti avevano assolto l’onere probatorio della discriminazione – alla stregua del disposto del D. Lgs. N. 150/2011, art. 28, in linea con quanto imposto dalle direttive n. 2000/43/CE e n. 2000/78/CE – fornendo in giudizio gli elementi di fatto, da valutare con metodo statistico, dai quali poteva desumersi «prima facie» l’esistenza della discriminazione: ossia, la consistenza dell’organico nello stabilimento al gennaio/lugliodel2011(4. 367dipendenti), il numero degli assunti dalla F. I. P. Provenienti dallo stabilimento al giugno 2012 (1. 893), il numero degli iscritti alla Fiom al gennaio 2011 (382), la circostanza che nessun lavoratore iscritto alla Fiom risultava essere stato assunto dalla F. I. P. Al momento della presentazione del ricorso.

In sostanza, la Fiom aveva dimostrato che, in una selezione casuale, le probabilità che nessuno degli iscritti alla Fiom fosse stato selezionato per l’assunzione ammontava ad una su dieci milioni, il che faceva risaltare maggiormente la percentuale pari a zero di iscritti alla Fiom assunti dalla F. I. P. Nel giugno 2012.

La vicenda perveniva all’esame della Suprema Corte su ricorso della società F. I. P. , la quale proponeva una articolata serie di motivi di impugnativa, riguardanti i diversi aspetti trattati dalla Corte d’Appello.

Tuttavia, la Corte di Cassazione non entra nell’esame degli stessi e respinge il ricorso per inammissibilità, in accoglimento della specifica eccezione sollevata dai controricorrenti di sopravvenuta carenza dell’interesse ad agire.

In base alla documentazione prodotta dalle parti, osserva la Corte, risulta che, con atto successivo alla notifica del ricorso per cassazione, la F. I. P. Spa ha ceduto alla F. G. A. Spa lo stabilimento interessato alle assunzioni per cui e` causa; nel medesimo atto di cessione e` previsto che, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2112 cod. Civ. , i rapporti di lavoro con i dipendenti sarebbero continuati con la Societa` cessionaria. Risulta inoltre che la F. I. P. Ha comunicato alla Fiom che la medesima F. I. P. Non avrebbe dato corso alle ulteriori assunzioni di cui al provvedimento emesso dalla Corte di Appello di Roma, avendo cessato ogni attivita` produttiva per avere ceduto lo stabilimento alla F. G. A. , società di cui i lavoratori assumendi sono gia` dipendenti.

La Suprema Corte ricorda che la giurisprudenza di legittimita` e` costante nell’affermare che l’interesse all’impugnazione, il quale costituisce manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire, sancito, quanto alla proposizione della domanda ed alla contraddizione alla stessa, dall’art. 100 cod. Proc. Civ. , va apprezzato in relazione all’utilita` concreta derivabile alla parte dall’eventuale accoglimento del gravame, ossia alla sussistenza di un interesse identificabile nella possibilità di conseguire una concreta utilità o un risultato giuridicamente apprezzabile, attraverso la rimozione della statuizione censurata, e non gia` di un mero interesse astratto a una piu` corretta soluzione di una questione giuridica (per tutte, Cass. N. 11844/2006); al contempo e` stato altresı` affermato che l’interesse ad agire (e, quindi, anche ad impugnare)deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutata la sussistenza di tale interesse (Cass. , S. U. , n. 25278/2006).

Quindi, conclude la Corte, la F. I. P. , non essendo più proprietaria dello stabilimento presso il quale avrebbero dovuto essere effettuate le ulteriori assunzioni di affiliati alla Fiom ovvero presso il quale gia` siano state effettuate le assunzioni dei lavoratori nominativamente indicati, non ha piu` alcun concreto ed attuale interesse alla rimozione delle statuizioni rese nell’ordinanza impugnata. Infatti, la Societa` non potra` conseguire in alcun modo un pregiudizio dal mantenimento presso il suddetto stabilimento dei lavoratori assunti (che erano, prima dell’assunzione, dipendenti della F. G. A. E che tali sono tornati ad essere a seguito della cessione), ne ́ potra` procedere ad ulteriori assunzioni presso il medesimo stabilimento di altri dipendenti della F. G. A. Affiliati alla Fiom, ne ́ conseguentemente potra` essere ulteriormente destinataria dell’ordine di cessare dal ritenuto comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti.

Come visto, la sentenza in rassegna risolve la vicenda sotto un profilo di «rito», ovvero quello dell’accertato difetto di interesse ad agire della societa` ricorrente, senza entrare nel merito dei motivi di impugnazione lamentati dalla societa` , riguardo ai quali il parere della Suprema Corte poteva assumere grande interesse.

In particolare, la societa` F. I. P. Sosteneva (o meglio, continuava a sostenere, perche ́ la censura era stata gia` sollevata in appello) che la normativa italiana di cui al D. Lgs. N. 216/2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parita` di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, laddove fa riferimento alle «convinzioni personali», deve essere letta alla luce delle previsioni della predetta direttiva; nell’art. 1 di quest’ultima, il riferimento alle «convinzioni personali», strettamente collegato alla «religione», comporta che la prima locuzione si riferisce non a qualsiasi convinzione di natura ideologica, bensı` a quel credo individuale assimilabile, per la sua particolare cogenza e pervasività, ad una fede religiosa; dal che discende che le «convinzioni personali» non possono essere ritenute diverse da quelle basate su determinate credenze religiose o ad esse assimilabili e non si riferiscono quindi alle opinioni personali di natura politica o di altro genere.

Allo stesso modo, non c’e` stato modo di conoscere l’opinione della Cassazione circa l’utilizzo del modello statistico come mezzo probatorio sul quale i giudici di primo e secondo grado hanno ritenuto fondata la discriminatorietà della condotta tenuta dalla società nella fase di assunzione: considerata una serie di elementi (l’organico nello stabilimento, il numero degli assunti dalla società e provenienti da questo, il numero degli iscritti alla Fiom, la circostanza che nessun lavoratore iscritto alla Fiom risultava essere stato assunto dalla F. I. P. ), il numero degli aventi diritto e` stato individuato in misura percentuale. Resta il fatto che la Cassazione non si e` pronunciata, per cui fa stato quanto ha disposto la Corte d’Appello, con tutto ciò che ne consegue in termini di pratica applicazione.

Redditometro: Escort Accompagnatrice di uomini e donne

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Redditometro, Nel caso di specie, la contribuente effettuava l’attività di accompagnatrice-escort per uomini e donne, e le venivano accertati sinteticamente 127. 845 euro per l’annualità 2004 e 2005, e 128. 131 euro per l’anno 2006.    

Sentenza Commissione tributaria provinciale PIEMONTE Novara, sez. I, 12-01-2011, n. 2 – Pres. Puzo Antonio – Rel. Puzo Antonio  

Redditometro, Nel caso di specie, la contribuente effettuava l’attività di accompagnatrice-escort per uomini e donne, e le venivano accertati sinteticamente 127. 845 euro per l’annualità 2004 e 2005, e 128. 131 euro per l’anno 2006.     

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Signora Va. Mo. , con ricorsi depositati in data 13. 11. 2009, riuniti per connessione soggettiva ed oggettiva ai sensi dell’art. 29 del D. Lgs. N. 546/1992, proponeva opposizione contro l’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Novara avverso gli avvisi di accertamento con i quali veniva determinato in forma sintetica il reddito complessivo stimabile in capo alla medesima nella misura complessiva di Euro 127. 485,00 rispettivamente per gli anni 2004 e 2005 e di Euro 128. 131,00 per l’anno 2006.

La procedura di accertamento disposta a carico della contribuente trovava la sua origine nella rilevazione di una capacità contributiva a lei attribuibile e precisamente per:

assicurazione stipulata in data 04. 04. 2000 con durata nove anni e premio versato pro-quota annuale di Euro 3. 477,33;

possesso, a titolo di proprietà, della residenza principale situata nel Comune di Castelletto Sopra Ticino (NO), intera e piena proprietà, con quota di sostenibilità alle spese nella misura del 100%;

possesso, a titolo di proprietà, di abitazione secondaria situata nel Comune di Valduggia (VC), quota 1/2 di piena proprietà, con quota di sostenibilità alle spese nella misura del 100%;

possesso, a titolo di locazione, di abitazione civile atto di locazione reg. To all’Ufficio di Biella il 18. 02. 200 per un canone di locazione dichiarato di Euro 3. 718,00, con quota di sostenibilità alle spese nella misura del 100%;

possesso, a titolo locazione, di abitazione civile atto di locazione reg. To all’Ufficio di Arona il 08. 01. 2001 per un canone di locazione dichiarato di Euro 4. 028,00, con quota di sostenibilità alle spese nella misura del 100%;

possesso, a titolo locazione, di abitazione civile atto di locazione reg. To all’Ufficio di Novara il 27. 04. 2001 per un canone di locazione dichiarato di Euro 2. 478,00, con quota di sostenibilità alle spese nella misura del 100%;

nonché spese sostenute nel quinquennio 2004/2005, per incrementi patrimoniali e precisamente per:

acquisto di monolocale ad uso abitazione sito in Comune di Arona per un corrispettivo dichiarato di Euro 35. 000,00;

acquisto di autovettura targata (. ) per un valore di Euro 45. 000,00;

acquisto di porzione di fabbricato sito in Comune di Varese per corrispettivo dichiarato di Euro 187. 000,00;

interessi passivi, per gli anni 2004-2005-2006, rispettivamente di Euro 1. 665,00 per Mutuo stipulato di Euro 129. 114,00.

A seguito di notifica dei suddetti avvisi di accertamento, la ricorrente proponeva opposizione, chiedendo, in via principale e nel merito, l’annullamento degli atti impugnati, con vittoria delle spese.

A sostegno della propria richiesta, la ricorrente preliminarmente precisava la natura dell’attività svolta, in qualità di “accompagnatrice/escort per uomini”, assimilabile, con i dovuti distinguo del caso, all’esercizio dell'”attività di prostituta”.

In linea di fatto e di diritto, sosteneva, quindi, che i proventi derivanti dall’esercizio della citata attività di prostituzione non generavano materia imponibile. Ciò, a motivo del fatto “che le somme derivanti dal predetto esercizio costituivano una forma di risarcimento del danno sui generis a causa della lesione dell’integrità della dignità di chi subisce l’affronto della vendita di sé”.

A sostegno delle motivazioni precisate nei propri scritti difensivi, la ricorrente richiamava l’orientamento giurisprudenziale adottato in materia, secondo il quale “i proventi derivanti da esercizio della prostituzione non sono tassabili perché non sono ascrivibili a nessuna categoria di reddito di cui all’art. 6 del T. U. I. R. “.

L’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Novara, costituendosi in giudizio contro deduceva le argomentazioni esposte nei motivi dei ricorsi e chiedeva quindi la conferma del proprio operato, attesa la legittimità delle azioni disposte per il recupero di imposte riconosciute sostanzialmente dovute da parte ricorrente. Ciò, in applicazione dei criteri precisamente stabiliti in materia di accertamento sintetico dell’imponibile (c. D. “reddito/netto”), che nella sostanza rappresentava una forma di controllo che consentiva agli Uffici finanziari di ricostruire induttivamente il reddito delle persone fisiche. Metodo questo, stabilito secondo legge, di svelare la reale ricchezza di un soggetto, basandosi sul sostenimento di alcune spese, ovvero sulla disponibilità di determinati beni considerati “manifestazione di capacità reddituale”.

Sosteneva, al riguardo, che la validità di un tale tipo di accertamento si era nel tempo consolidata a seguito di un costante orientamento della Corte di Cassazione, la quale aveva ritenuto legittimo l’accertamento effettuato dall’Ufficio sulla base di coefficienti presuntivi di reddito (indici di capacità di spesa), quando il contribuente avesse dimostrato che il reddito presunto non esisteva o esisteva in misura inferiore. (In tal senso le sentenze n. 21930/2007; n. 22574/2007; n. 16284/2007; n. 19252/2005; n. 14161/2003; n. 12731/2002; n. 11611/2001).

Per quanto riguardava, in particolare, l’oggetto delle questioni sollevate in questa sede, la parte resistente richiamava il principio stabilito dall’art. 53, comma 1, della Costituzione, secondo il quale “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della toro capacità contributiva”. L’Agenzia delle Entrate sosteneva, inoltre, secondo anche l’orientamento espresso in materia dalla Corte di Giustizia Europea nella causa C-268/99 del 20 novembre 2001, che tale attività era caratterizzata dalla natura economica e dal suo svolgimento in forma di lavoro autonomo, non sussistendo alcun vincolo di subordinazione in capo a chi la esercita.

Ciò, in considerazione del fatto che effettivamente la prostituzione era un’attività svolta in maniera autonoma, per effetto della quale chi la esercitava si impegnava personalmente a procurare il soddisfacimento di un altrui bisogno di carattere sessuale, dietro corrispettivo di denaro o di altra utilità economicamente valutabile, senza che la scelta di detta attività o delle modalità del suo esercizio fosse imposta da terzi. Chiedeva, pertanto, che venisse disposto il rigetto dei ricorsi e la condanna della controparte al pagamento delle spese di giudizio. All’odierna udienza di discussione, sentito il relatore e il rappresentante dell’Ufficio, in assenza della parte ricorrente, che risulta regolarmente invitata con apposite raccomandate spedite all’indirizzo del domicilio eletto presso il difensore indicato in atti e rilevato che, allo stato, tale domiciliazione non risulta essere stata revocata da parte della stessa ricorrente; letti gli atti e la documentazione acquisita ai fascicoli processuali, riuniti per connessione soggettiva ad oggettiva, ai sensi dell’art. 29 del D. Lgs. N. 546/1992, il Collegio.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Che i ricorsi sono infondati e pertanto vanno respinti. Appare corretto osservare preliminarmente che le eccezioni sollevate, in linea di fatto e di diritto, avverso l’operato dell’Ufficio, debbono riconoscersi sostanzialmente infondate.

Ciò, a motivo principalmente del fatto che, nella sostanza, la procedura adottata nei confronti della contribuente deve riconoscersi sostanzialmente fondata, essendo stata regolarmente attuata nella corretta osservanza delle disposizioni riguardanti la soggetta materia. Esaminata attentamente la questione, alla luce della documentazione acquisita in atti, si rileva che, allo stato, deve riconoscersi sostanzialmente corretta la procedura di accertamento disposta dall’Ufficio, il quale nei propri atti di costituzione in giudizio ha compiutamente precisato la legittimità del proprio operato.

Ciò, avuto riguardo essenzialmente alla effettiva rilevazione della disponibilità da parte della contribuente dei beni e dei servizi, oggetto delle valutazioni attentamente eseguite ai fini della concreta determinazione della capacità contributiva della ricorrente medesima. Appare corretto osservare, inoltre, che, in concreto, l’Ufficio ha dimostrato di aver provveduto a verificare le effettive disponibilità economiche della contribuente e che, nella sostanza, ha provveduto all’accertamento induttivo del reddito, ai sensi dell’art. 38, commi 4-5 e 6, del D. P. R. N. 600/1973, essendo effettivamente venuto a conoscenza di indici di capacità contributiva, basata essenzialmente su elementi che lasciano fondatamente presumere la esistenza di redditi non assoggettati alla dovuta imposizione. Nel merito della questione si ritiene di dover rilevare che, nella sostanza, il quadro regolante la procedura di accertamento induttivo, adottato nelle ipotesi della specie, deve, allo stato attuale, considerarsi sostanzialmente consolidato. Appare corretto osservare, al riguardo, che l’attività di accertamento della specie è stata ampiamente potenziata nei confronti dei contribuenti, per i quali sono disponibili informazioni in ordine alla esistenza di eventuali manifestazioni di capacità contributiva, incompatibili con le posizioni reddituali dichiarate o addirittura omesse da parte dei contribuenti medesimi. A tal fine, risultano impartite precise disposizioni agli Uffici, i quali a loro volta debbono correttamente promuovere tutte la procedure necessarie, nella corretta osservanza della normativa regolante la procedura di accertamento della specie. E’ dato rilevare, infatti, che una disposizione sull’accertamento (art. 38, commi 4-5 e 6, del D. P. R. N. 600/1973) stabilisce espressamente che l’Amministrazione Finanziaria può, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente, in base al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze di fatto certi, che fanno presumere una capacità di spesa correlata ad esborsi di somme di denaro e a spese di gestione da confrontare con il reddito imponibile dichiarato o da accertare nei casi di omessa dichiarazione da parte del contribuente.

L’Amministrazione Finanziaria, quindi, può determinare anche in modo matematico il reddito presuntivo, attenendosi al solo redditometro, cioè agli elementi formulati da un decreto ministeriale che può individuare elementi di capacità contributiva. Appare corretto osservare, al riguardo, che la stessa Corte Costituzionale, investita della questione, ebbe a suo tempo a pronunciarsi in merito (sentenza n. 297/2004), affermando il principio che detto strumento di accertamento permette all’Amministrazione Finanziaria di determinare sinteticamente il reddito sulla base di parametri, i quali, alla luce di consolidate massime di esperienza, sono rivelatori del reddito del contribuente e demanda a un regolamento del Ministro delle Finanze la determinazione dei parametri in base ai quali stabilire presuntivamente il reddito. Non c’è, dunque, osserva la Corte, alcuna violazione dell’art. 53 della Costituzione. Anzi, tale accertamento presuntivo, sostiene ancora la Corte Costituzionale, costituisce un mezzo di attuazione del principio di capacità contributiva. Avuto riguardo ai principi chiaramente affermati dalla citata Corte Costituzionale, che sostanzialmente confermano l’orientamento già assunto con analoga sentenza n. 283/1987, si ritiene di poter osservare, in via definitiva, che sostanzialmente legittima deve considerarsi l’attività di accertamento disposto dall’Amministrazione Finanziaria nei confronti dei contribuenti, per i quali si sono resi disponibili informazioni in ordine alla esistenza di evidenti manifestazioni di capacità contributiva, incompatibili con le posizioni reddituali dichiarate dai medesimi.

Corretto deve riconoscersi, pertanto, l’operato dell’Amministrazione Finanziaria, la quale, nella emissione dei relativi atti di accertamento, procede, sulla base anche di segnalazioni dei Centrali Uffici (Direzione Centrale ed Anagrafe Tributaria), nella identificazione degli elementi e delle circostanze di fatto certi, rilevanti ai fini della determinazione sintetica del reddito. In applicazione delle disposizioni normative regolanti la procedura di accertamento sintetico ed avuto riguardo ai principi e agli orientamenti innanzi precisati, nonché alle risultanze degli atti del processo, si ritiene di poter osservare che, a parere del Collegio, la procedura adottata a carico della contribuente deve, nella sostanza, riconoscersi regolare e che la stessa può certamente ritenersi convincente, ai fini della determinazione del reddito, essendo compiutamente eseguite le necessaire valutazioni degli elementi acquisiti a carico della contribuente medesima. Avuto riguardo alle risultanze acquisite in atti, appare corretto osservare, peraltro, che, allo stato, non risulta fornita adeguata dimostrazione da parte ricorrente della effettiva inconsistenza della procedura adottata a suo carico, atteso che, nella sostanza, le eccezioni mosse avverso l’operato dell’Ufficio non risultano in concreto fondate sulla base di idonee precisazioni e valide dimostrazioni della infondatezza della pretesa stessa vantata nei suoi confronti. E’ dato rilevare, infatti, che, nella sostanza, non appaiono adeguatamente dimostrate, in sede contenziosa, le motivazioni genericamente sostenute da parte ricorrente, non essendo, allo stato, comprovata con certezza la fondatezza e la validità stessa delle eccezioni sollevate avverso l’operato dell’Organo di accertamento. Appare corretto osservare, sulla base anche della costante giurisprudenza adottata in materia, che i motivi posti a base dei ricorsi proposti avverso l’operato dell’Ufficio, se non idoneamente comprovati, in linea di fatto e di diritto, non possono certamente assurgere ad elementi fondanti della opposizione proposta in sede contenziosa.

Nel caso di specie occorre prendere atto, quindi, della legittimità degli avvisi di accertamento, essendo fondati su dati ed elementi certi comprovanti la effettiva capacità contributiva della ricorrente. Appare corretto rilevare, al riguardo – secondo anche l’orientamento espresso dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 18710 del 23. 09. 2005 – che il contribuente è tenuto a fornire la prova in sede giudiziale, di tutti gli elementi ritenuti necessari per dimostrare la attendibilità delle argomentazioni addotte a sostegno delle richieste avanzate in sede contenziosa. Per la Corte di Cassazione, questo non stravolge i principi generali in tema di onere della prova, poiché se spetta all’Amministrazione Finanziaria dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria azionata, fornendo quindi la prova degli elementi e circostanze che rivelano l’esistenza di un imponibile omesso o maggiore rispetto a quello dichiarato (cosiddette componenti positive), “è altrettanto vero che è il contribuente, il quale intenda contestare la capacità dimostrativa di quei fatti oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive, che deve a sua volta dimostrare gli elementi sui quali le sue eccezioni si fondano”.

La regola generale, in tema di ripartizione dell’onere della prova, è quella prevista dall’art. 2697 del Codice Civile. Regola ribadita con la sopra citata sentenza n. 18710/2005. In effetti, chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi, invece, intende eccepire l’inefficacia di tali fatti o eccepire che il diritto si è modificato oppure estinto o altro, deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda. In linea di principio, quindi, l’onere della prova dell’obbligazione tributaria grava sull’Amministrazione. Al contribuente-ricorrente incombe la dimostrazione dei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa. E’ altrettanto pacifico che il principio generale, sancito dall’art. 2697 del c. C. , non è operante quando il giudice può formare il proprio convincimento in base a elementi probatori, da chiunque forniti e già acquisiti al processo. Avuto riguardo alle considerazioni innanzi precisate, si ritiene di dover rilevare, in via definitiva, che, in concreto, nel caso di specie, risultano venute a verificarsi tutte le condizioni necessarie per poter procedere alla corretta applicazione della ricostruzione presuntiva della redditività effettivamente conseguita dalla contribuente. E’ dato rilevare, d’altra parte, che, allo stato degli atti, non risultano fornite da parte della contribuente medesima idonee prove concrete, atte ad inficiare la pretesa erariale. Avuto riguardo alle risultanze in atti, appare corretto osservare che invece da parte ricorrente non risulta negato affatto il possesso degli indici di capacità contributiva, essendosi limitata unicamente ad affermare che aveva un reddito che ne giustificava il mantenimento e che tale reddito non era imponibile, in quanto derivava dall’attività esercitata, assimilabile a quella di prostituzione. E’ dato rilevare, inoltre, che la ricorrente non smentisce affatto il possesso dei citati indici di capacità contributiva, non smentisce neppure la omessa presentazione delle previste dichiarazioni dei redditi, e quindi, l’omessa tassazione dei redditi, che in concreto afferma di possedere. Le circostanze e gli elementi innanzi citati, a parere del Collegio, debbono riconoscersi tutti correttamente posti a base della pretesa erariale. Nel caso di specie, peraltro, non risulta essersi verificata alcuna delle ipotesi di esenzione dall’imposta e neppure di eventuale tassazione alla fonte riferita ai periodi d’imposta oggetto della contestazione. Ne consegue che, allo stato, deve dichiararsi sostanzialmente legittima la procedura di accertamento disposta a carico della ricorrente. Ciò, avuto riguardo alla circostanza che la ricorrente medesima ha comunque conseguito redditi, presuntivamente calcolati dallo stesso Ufficio e che la ricorrente medesima, pur avendo provato chiaramente quale era effettivamente la propria attività nel corso degli anni, non ha provato tuttavia quale era o poteva essere l’ammontare delle somme da lei percepite e le somme da lei spese, non avendo a ciò prodotto alcuna documentazione idonea. Nella sostanza, debbono riconoscersi, quindi, sostanzialmente fondati gli accertamenti sintetici delle imposte afferenti alle annualità oggetto della contestazione, a titolo IRPEF ed Addizionali, atteso che la ricorrente ha concretamente sostenuto ingenti spese per incrementi patrimoniali, senza che la medesima avesse dichiarato redditi che ne giustificassero la effettiva sostenibilità. Non appare, pertanto, a parere del Collegio, assolutamente fondata la precisazione addotta da parte ricorrente circa la particolare natura degli importi percepiti per lo svolgimento della propria attività di meretrice e, quindi, della non assoggettabilità degli stessi ad alcuna imposizione fiscale, in quanto, a suo parere, i compensi percepiti a tale scopo dovevano considerarsi “una forma di risarcimento danni sui generis a causa della lesione della integrità della dignità di cui subisce l’affronto della vendita di sé”. Nel merito delle eccezioni sollevate da parte ricorrente, appare corretto osservare che, allo stato, occorre prendere atto, in linea di principio, della correttezza dell’argomentazione addotta da parte dell’Agenzia delle Entrate, ampiamente precisata in sede dibattimentale, circa la effettiva natura della prestazione dell’attività in concreto esercitata dalla ricorrente. E’ dato rilevare, infatti, che effettivamente, nelle ipotesi della specie, gli utili da prostituzione sono assolutamente imponibili, in quanto devono inquadrarsi nella specifica categoria dei redditi di lavoro autonomo. Avuto riguardo alle risultanze in atti, appare corretto osservare che in concreto la ricorrente ha esercitato, in modo abituale e continuativo, la professione di prostituzione e che tale abitualità della professione di meretricio, essendo comprovata al di là di ogni ragionevole dubbio, fa escludere che i compensi siano stati effettuati “cum animo donandi” o come regali occasionali, laddove invece appare certo che le frequentazioni fossero regolate da precisi accordi commerciali, di natura sinallagmatica riconducibili al “do ut facias”, per cui le parti erano ben consce di adempiere ad obblighi contrattuali, sia pure aventi uno scopo che offende il buon costume, ma che, una volta assolto, non potevano essere, in alcun modo, ripetuti (art. 2035 c. C. ).

Si ritiene di poter osservare, inoltre, che, a parere del Collegio, occorre dichiarare infondata anche la affermata natura risarcitoria dei proventi derivanti dall’attività di meretricio, precisata da parte ricorrente al fine di sentire dichiarata la insussistenza della pretesa erariale in merito agli utili conseguiti per lo svolgimento della citata attività. Appare corretto dichiarare, nel merito, la esclusione della natura risarcitoria dei proventi percepiti per lo svolgimento dell’attività di meretrice, a motivo del fatto che, nelle ipotesi della specie, il consenso manifestato dall’avente diritto preclude assolutamente che si possa far luogo al risarcimento. E’ dato rilevare, infatti, che, in concreto, se un soggetto acconsente, ancorché il fatto posto in essere venga avvertito dalla generalità delle persone come violazione della morale corrente, tale comportamento certamente non può giuridicamente assumere natura di “risarcimento”. Va precisato, al riguardo, che senza antigiuridicità non ci può essere risarcimento, né indennizzo alcuno. E’ palese che la fattispecie si configuri quale ipotesi contrattuale, come precisamente previsto dall’esame dell’art. 1325 del c. C. Infatti: – sussiste l’accordo delle parti (contrattazione del costo della prestazione); – sussiste la causa, (né questa è illecita per conformi giudicati di legittimità); – sussiste l’oggetto, in quanto possibile lecito (come innanzi precisato), determinato e/o determinabile; – sussiste la forma (volontà orale liberamente espressa). A tal fine, corretto si appalesa il richiamo alla recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, la quale ha chiaramente affermato il principio secondo il quale la prestazione non pagata di un rapporto di meretricio configura, in capo al richiedente, l’ipotesi delittuosa di reato di stupro.

Ne consegue che il pagamento della prestazione “comprovando la volontà della consenziente ne elide la violenza, configurandosi nella fattispecie la sussistenza di un rapporto contrattuale e non risarcitorio”.

Occorre prendere atto, infine, come correttamente precisato dall’Organo di accertamento nei propri scritti difensivi, che nella sostanza gli utili da prostituzione sono in sostanza imponibili e, come tali, devono essere inquadrati nella categoria di redditi di lavoro autonomo.

E’ dato rilevare, infatti, in linea di fatto e di diritto, che effettivamente, nelle ipotesi della specie, i proventi derivanti dall’attività di prostituzione esercitata professionalmente, devono essere riconducibili alla categoria di cui all’art. 6 del T. U. I. R. , ovvero nella categoria dei “redditi di lavoro autonomo”, in quanto in concreto sussistono tutti i requisiti specifici, quali: – la prevalenza del lavoro personale della prestatrice d’opera; – l’assenza del vincolo di subordinazione; – la libera pattuizione del compenso; – l’assunzione degli oneri relativi alla esecuzione della prestazione e del rischio inerente alla esecuzione stessa.

A tal fine, allo stato degli atti, appare corretto il richiamo della parte resistente alla sentenza emessa dalla Corte di Giustizia CEE nella causa C-268/99 del 20. 11. 2001, in base alla quale veniva definitivamente riconosciuto che l’attività di meretricio doveva essere qualificata come “lavoro autonomo”. Osservano i Giudici della citata Corte comunitaria che “la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita” che rientra nella nozione di “attività economica”.

Il meretricio, inoltre, viene più precisamente meglio definito come un’attività “tramite la quale il prestatore soddisfa, a titolo oneroso, una domanda del beneficiario senza produrre o trasferire beni materiali”.

La Corte di Giustizia ha riconosciuto, pertanto, che “la prostituzione rientra nelle attività economiche svolte in qualità di lavoratore autonomo, qualora sia dimostrato che è svolta dal prestatore senza alcun vincolo di subordinazione per quanto riguarda la scelta di tale attività, le condizioni di lavoro e retributive, sotto la propria responsabilità ed a fronte di una retribuzione che gli sia pagata integralmente e direttamente. Spetta al giudice nazionale accertare in ciascun caso, alla luce degli elementi di prova che gli sono forniti, se ricorrono tali presupposti”. Invece, nel caso in cui l’attività di prostituzione viene svolta in modo occasionale, i proventi conseguiti per tale attività possono essere fatti rientrare nella categoria di redditi diversi, ed in particolare, tra quelli previsti dall’art. 67, comma 1, lettera I) del TUIR, che comprende fra i redditi diversi anche quelli “. Derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”.

In via definitiva, appare corretto osservare che in concreto la ricorrente ha effettivamente svolto attività di meretricio e che nella sostanza tutto ciò legittima la ripresa a tassazione dei relativi proventi non dichiarati. Ciò, in conformità alla giurisprudenza adottata dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale in merito ad analoga questione, con sentenza n. 20528 del 1° ottobre 2010, ha chiaramente affermato che “. All’esercizio dell’attività di prostituta della Signora. , che ha coltivato nel tempo numerose relazioni tutte lautamente pagate, non vi è dubbio alcuno che anche tali proventi debbano essere sottoposti a tassazione, dal momento che pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita”.

I redditi provenienti dal meretricio, infatti, vanno considerati, secondo i Giudici di legittimità, come guadagni derivanti dall’esercizio di un’attività economica, come tutte le altre. Ne consegue che, allo stato, il reddito da prostituzione è correttamente ascrivibile tra quelli indicati nell’art. 6 del TUIR ed, in particolare, nella categoria dei redditi diversi quelli riconducibili all’ipotesi prevista dall’art. 67, comma 1, dello stesso Testo Unico. Alla luce delle considerazioni innanzi enunciate, appare corretto osservare, in via definitiva, che la condotta dell’Agenzia delle Entrate deve riconoscersi pienamente legittima, dal momento che la norma richiamata dalla stessa Amministrazione Finanziaria sembra rispondere proprio all’esigenza, avvertita dal legislatore, di ricondurre a tassazione tutte quelle espressioni economiche, connesse all’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, idonee a concorrere alla spesa pubblica, in attuazione del disposto di cui all’art. 53 della Costituzione. Va osservato, peraltro, che effettivamente la sopracitata categoria residuale di cui all’art. 67 del TUIR trova il fondamento normativo proprio nell’art. 53 della Costituzione, secondo il quale ciascuno è tenuto a contribuire alle spese pubbliche in base alla propria capacità contributiva. A questo principio generale possono essere portate eccezioni, necessariamente e tassativamente indicate dal legislatore, e comunque giustificate, a livello sociale, da motivi del tutto particolari. Non può, d’altra parte, ritenersi ammissibile che determinati soggetti possano eludere il dovere di contribuire al sostenimento dei costi dei servizi collettivi, di cui essi stessi beneficiano. Avuto riguardo, in via definitiva, alle risultanze in atti, ed in particolare, alla natura del reddito e alla tassabilità dei proventi derivanti dallo svolgimento abituale dell’attività di prostituzione, osserva il Collegio che, allo stato, occorre dichiarare pienamente fondata la procedura di accertamento disposta dall’Agenzia delle Entrate e che, per l’effetto, occorre disporre il definitivo rigetto dei ricorsi proposti in questa sede. Le spese del presente giudizio si dichiarano dovute dalla parte soccombente nella misura complessiva di Euro 25. 500,00.

P. Q. M. La Commissione Tributaria Provinciale di Novara – Sezione Prima – all’udienza del 17. 11. 2010, definitivamente pronunciando, – respinge i ricorsi; – condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in complessivi Euro 25. 500,00.    

 

Cartella Nulla se l’avviso di accertamento è stato notificato in modo irregolare o omesso

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Principio ribadito recentemente dalla sesta sezione civile della Corte di Cassazione con l’ordinanza 18651/14 depositata il 3 settembre 2014 l’amministrazione finanziaria “perde” i soldi chiesti con le cartelle di pagamento o con gli avvisi di mora se l’accertamento è stato omesso o è stato notificato in modo irregolare.  

 

Principio ribadito recentemente dalla sesta sezione civile della Corte di Cassazione con l’ordinanza 18651/14 depositata il 3 settembre 2014 l’amministrazione finanziaria “perde” i soldi chiesti con le cartelle di pagamento o con gli avvisi di mora se l’accertamento è stato omesso o è stato notificato in modo irregolare. Addirittura, il contribuente che volesse contestare la pretesa tributaria, con impugnazione della cartella o dell’avviso di mora, può farlo chiamando in causa anche solo uno tra ufficio delle Entrate e agente della riscossione. La sentenza richiamata ha respinto il ricorso presentato dall’agente della riscossione per la Sicilia, contro la sentenza 235/12 della Ctr, sezione staccata di Siracusa. La vicenda ha interessato un contribuente che aveva proposto ricorso contro una cartella ricevuta dall’agente della riscossione, chiedendone l’annullamento in quanto non era stata preceduta dalla notifica dell’accertamento. Il ricorso veniva accolto dalla Ctp, e impugnato davanti alla Ctr dall’agente per la riscossione che, in quanto unico ente chiamato in causa, lamentava la carenza di legittimazione passiva. La Ctr prima, e la Cassazione dopo, hanno ritenuto infondata la censura proposta, infatti, «l’aver il contribuente individuato nell’uno o nell’altro il legittimato passivo nei cui confronti dirigere la propria impugnazione non determina l’inammissibilità della domanda, ma può comportare la chiamata in causa dell’ente creditore» cioè l’agenzia delle Entrate, nell’ipotesi di azione svolta contro l’agente della riscossione.

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Circolare INPS n. 140 07/11/2014

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Convenzione tra l’INPS e il SINDACATO AUTONOMO VALDOSTANO “TRAVAILLEURS” (SAVT) ai sensi dell’art. 18 della legge 23/07/91 n. 223, per la riscossione dei contributi associativi dovuti dai propri iscritti sulle prestazioni temporanee. Istruzioni procedurali e contabili. Variazioni al piano dei conti.  

Circolare INPS n. 140 07/11/2014

OGGETTO: Convenzione tra l’INPS e il SINDACATO AUTONOMO VALDOSTANO “TRAVAILLEURS” (SAVT) ai sensi dell’art. 18 della legge 23/07/91 n. 223, per la riscossione dei contributi associativi dovuti dai propri iscritti sulle prestazioni temporanee. Istruzioni procedurali e contabili. Variazioni al piano dei conti.

SOMMARIO: Istruzioni per le trattenute dei contributi associativi in favore del Sindacato Autonomo Valdostano “Travailleurs” (SAVT) sulle prestazioni temporanee. In data 30 settembre 2014 è stata sottoscritta una convenzione con il Sindacato Autonomo Valdostano “Travailleurs” (SAVT), approvata con determinazione n. 80 del 06/06/2014 per la riscossione dei contributi associativi sulle prestazioni temporanee ai sensi di quanto previsto dall’art. 18 della legge 1991, n. 223 (all. 1).

Si illustrano, di seguito, i punti salienti relativi all’applicazione della predetta convenzione.  I soggetti beneficiari dei trattamenti previdenziali di mobilità, trattamenti di disoccupazione ASpI, Mini ASpI e di disoccupazione speciale, dei trattamenti ordinari e straordinari di integrazione salariale e dei sussidi per lavori socialmente utili, possono versare i contributi associativi a favore dell’Associazione mediante trattenuta sulle prestazioni predette.

L’autorizzazione ad effettuare le trattenute, avverrà mediante la trasmissione di apposita delega all’INPS, redatta secondo un modulo allegato nel modello INPS relativo alla richiesta della prestazione. La delega dovrà obbligatoriamente essere sottoscritta dal soggetto delegante e riportare, in allegato, copia del documento d’identità.

Il codice identificativo del Sindacato Autonomo Valdostano “Travailleurs” (SAVT) è “5601”.

Nel caso di pagamento diretto da parte dell’INPS dei trattamenti d’integrazione salariale, il datore di lavoro dovrà comunicare all’Istituto, contestualmente agli elenchi, i dati relativi alle deleghe rilasciate da ciascun lavoratore, compresa l’autorizzazione ad effettuare le ritenute previste dall’art. 18 legge 223/1991. Tale documentazione, così come eventuali revoche e nuove deleghe, dovrà essere depositata e conservata presso il datore di lavoro, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 18, terzo comma, della legge 1991, n. 223.

In caso di contestazione concernente l’effettivo rilascio della delega da parte di uno o più lavoratori, oggetto di apposita comunicazione da parte del datore di lavoro o dei lavoratori interessati, l’Istituto cesserà di operare le relative trattenute a far tempo dal mese successivo alla ricezione della comunicazione medesima. L’Associazione sindacale, in tal caso, restituirà le

somme indebitamente ricevute a favore dei lavoratori interessati.

La delega esaurisce i suoi effetti col pagamento della prestazione richiesta.

La comunicazione all’Istituto della revoca può essere effettuata dall’associato, sia direttamente, sia attraverso le Associazioni sindacali interessate, secondo le modalità concordate con l’Istituto.

Nel caso in cui l’INPS riceva comunicazione direttamente dall’associato della sua volontà di revocare la delega per la riscossione del contributo associativo, l’Istituto procederà, nel più breve tempo possibile, all’acquisizione della revoca stessa, ed alla comunicazione all’Associazione sindacale revocata.

Nel caso in cui un’Associazione sindacale presenti una delega su prestazione sulla quale è già attiva una delega ad altra Associazione sindacale, la nuova produrrà effetti solo se preceduta dalla revoca di quella esistente, contenente l’indicazione dell’Associazione sindacale revocata.

Alla revoca / nuova delega dovrà essere allegata copia del documento d’identità.

In caso di revoca o annullamento della prestazione, l’Associazione sindacale è tenuta a restituire al lavoratore interessato le somme già trattenute sulla prestazione a titolo di contributo associativo.

La misura del contributo da trattenere deve essere indicata espressamente nell’atto di delega, in misura percentuale alla prestazione previdenziale e uguale per tutti gli iscritti all’Associazione. A tal proposito il SAVT ha comunicato la misura di dette percentuali, come di seguito riportate:

– 3,00 % sull’indennità di disoccupazione MINI ASPI;

– 0,50 % su CIG edile, ordinaria e straordinaria;

– 1,00 % sui restanti trattamenti (CIG ordinaria e straordinaria, CISOA, indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti normali, indennità di disoccupazione ASPI, trattamenti speciali di disoccupazione, indennità di mobilità e sussidio per lavori socialmente utili).

L’Istituto verserà all’Associazione sindacale l’importo delle trattenute operate sui pagamenti effettuati, dedotte le spese di cui all’art. 8 e le eventuali trattenute già versate e non dovute, con quattro mandati di pagamento, nei mesi di aprile, luglio, ottobre e dicembre.

L’INPS metterà a disposizione dell’Associazione sindacale, sui servizi on line, applicazione “Deleghe su disoccupazione e cig”, gli elenchi dei nominativi per i quali è stata effettuata la trattenuta, con indicazione dei relativi dati anagrafici e dell’importo, nonché l’elenco dei pagamenti telematici effettuati a favore delle Associazioni sindacali. Mediante l’applicazione predetta, l’Istituto provvederà, inoltre, all’invio delle fatture relative al costo dei servizi e di tutte le eventuali comunicazioni inerenti la convenzione.

L’Associazione s’impegna a corrispondere all’INPS il costo del servizio che è stato determinato in € 0,80 (ottanta centesimi) per singola delega.

La variazione annuale dei costi sarà oggetto di apposita comunicazione a seguito della quale l’Associazione ha facoltà di recedere entro 60 giorni dalla stessa comunicazione.

Dall’applicazione della convenzione di cui trattasi non dovranno derivare oneri aggiuntivi a carico dell’INPS, rimanendo l’Istituto estraneo al rapporto associativo intercorrente tra l’associato e l’Organizzazione sindacale e alle vicende ad esso relative.

Inoltre l’INPS si intende sollevato da ogni e qualsiasi responsabilità comunque derivante dall’applicazione della presente convenzione e, in particolare, in caso di pignoramento presso terzi eseguito sulle somme oggetto della presente convenzione da creditori dell’associazione stipulante o di strutture associate alla stessa, anche in relazione a pignoramenti in corso o già eseguiti alla data di stipula della presente convenzione.

Nelle ipotesi di controversie riguardanti l’effettivo e valido rilascio della delega, l’Associazione, che risulti soccombente nel giudizio eventualmente instauratosi, dovrà rimborsare all’interessato la ritenuta operata.

L’Associazione sindacale stipulante inoltre si impegna, in caso di controversie giudiziarie per questioni attinenti o comunque connesse ai rapporti intercorrenti tra gli associati e l’associazione alla quale essi sono iscritti, a ristorare l’INPS per le spese sostenute, a semplice presentazione di nota specifica.

La convenzione ha validità triennale con decorrenza dalla data di sottoscrizione. La richiesta di rinnovo dovrà pervenire almeno 90 giorni prima della scadenza.

L’INPS si riserva la facoltà di sospendere l’efficacia del presente negozio giuridico ove sorgano contestazioni: sull’uso della denominazione, dell’acronimo, del logo dell’Associazione Sindacale; sul legittimo esercizio dei corrispondenti poteri statutari, nonché a seguito della perdita da parte dell’associazione sottoscrivente dei requisiti prescritti ex lege per accedere alla stipula della presente convenzione o qualora intervengano disposizioni normative e/o regolamentari che rendano opportuna e/o necessaria, nell’interesse dell’INPS, l’adozione di un nuovo testo che regoli il negozio giuridico.

L’Istituto si riserva, comunque, la facoltà di recedere unilateralmente dalla presente convenzione in tutti i casi in cui siano rilevabili pregiudizi, irregolarità o conflitti di interessi a danno dell’Istituto da parte dell’associazione.

Si comunica che la sede legale del Sindacato Autonomo Valdostano “Travailleurs” (SAVT) è in Piazza Manzetti n. 2 – Aosta (AO).

ISTRUZIONI PROCEDURALI E CONTABILI

Ai fini della rilevazione contabile dei contributi associativi di che trattasi e dei conseguenti versamenti a favore del Sindacato Autonomo Valdostano “Travailleurs” (SAVT), sono stati istituiti i seguenti conti:

– GPA25437 – per l’imputazione dei contributi associativi trattenuti sulle prestazioni economiche temporanee;

– GPA35437 – per l’accreditamento al Sindacato Autonomo Valdostano “Travailleurs” (SAVT) dei contributi associativi sopra citati;

– GPA11437 – per la rilevazione del debito verso il Sindacato Autonomo Valdostano “Travailleurs” (SAVT).

I pagamenti a favore dell’Associazione sindacale in argomento vanno imputati in DARE del conto GPA11437, il cui saldo eventualmente risultante a fine esercizio deve essere ripreso in carico nel nuovo esercizio.

Gli importi relativi al rimborso delle spese per il servizio di esazione dei contributi in questione, da trattenere sulle somme da versare al Sindacato Autonomo Valdostano “Travailleurs” (SAVT), devono essere imputati al conto esistente GPA24042.

Infine, nell’allegato n. 2, vengono riportati i conti GPA25437, GPA35437e GPA11437 sopra indicati.

Il Direttore Generale 

Newco & Società di Capitali: Minori imposte grazie al premi per la capitalizzazione (ACE)

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 Il Governo Monti  ha posto in essere un primo piccolo ma virile passo verso un successivo ed atteso piano di interventi di aiuto e sostegno alle imprese meritevoli, introducendo attraverso l’articolo 1 del D. L. 201/2011 (legge di conversione 214/2011) un premio per la capitalizzazione denominato ACE, acronimo di Aiuto alla Crescita Economica.

 

Newco & Società di Capitali: Minori imposte grazie al premi per la capitalizzazione (ACE)

Il Governo Monti  ha posto in essere un primo piccolo ma virile passo verso un successivo ed atteso piano di interventi di aiuto e sostegno alle imprese meritevoli, introducendo attraverso l’articolo 1 del D. L. 201/2011 (legge di conversione 214/2011) un premio per la capitalizzazione denominato ACE, acronimo di Aiuto alla Crescita Economica.

La ratio è quella di premiare l’imprenditore che apporta capitali propri nell’impresa. In altri termini, le società che a partire dall’anno di imposta 2011 hanno registrato aumenti del patrimonio netto possono usufruire in dichiarazione dei redditi di una deduzione pari al rendimento nozionale del nuovo capitale di rischio. Tanto più se trattasi di società  NEWCO.

Rendimento nozionale =  incremento rilevato del patrimonio*3%

Dove, per il triennio 2011 -2012 -2013 il 3% è fisso, successivamente dal quarto periodo di imposta, sarà il Ministero delle Finanze che con proprio decreto, entro 31 gennaio di ogni anno, chiamato in causa per determinare la nuova aliquota.

Di fatto,  il rendimento nozionale altro non è che il valore ottenuto dall’applicazione della predetta aliquota all’incremento del patrimonio nel periodo di riferimento.

Ambito soggettivo

Si applica l’articolo 73 del DPR 917/86 TUIR, comma primo, lettere a, b e d (srl, spa, sapa, società cooperative, trust, società di mutua assicurazione, enti pubblici che hanno per oggetto esercizio attività  commerciale, gli enti associativi – ssd -asd – limitatamente per l’attività commerciale svolta). Inoltre, vi rientrano anche le snc e le sas a condizione che: a) abbiamo adottato una contabilità ordinaria; b) il Ministero delle Finanze emani delle disposizioni attuative.

Ambito Oggettivo

In sintesi: a) per le società/enti/trust/aziende di nuova costituzione si considera incremento tutto il nuovo patrimonio netto; b) aumenti di capitale sociale; c) i versamenti di sovrapprezzo azioni o quote; d) i versamenti in conto capitale o a fondo perduto, o cmq destinati al patrimoni netto. Sono Esclusi gli apporti infruttiferi dei soci.

Da prestare attenzione alla decorrenza degli effetti dell’incremento patrimoniale in oggetto: a) gli incrementi derivanti dai conferimenti in denaro, decorrono  dalla data del versamento; b) gli incrementi derivanti dall’accantonamento di utili decorrono a partire dall’inizio dell’esercizio in cui le relative riserve sono formate.

Funzionamento ed esempi

Hp1. Srl con incremento pari ad €. 100. 000 nel 2011, questo consente nell’unico SC 2012 di dedurre €. 3. 000 (RN = INCREM CS * 3%), dal reddito imponibile ai fini Ires. Per determinare l’impatto IRES applichiamo aliquota 27. 5% su €. 3. 000 ed otteniamo €. 825 di abbattimento dell’imposta.   Ciò detto, tutti gli incrementi nell’intervallo 2011 – 2013 sconteranno una detrazione fiscale dello 0. 825% (100*3%*27. 5%). A parità condizione (non si prevedono perdite o decrementi del capitale) per GLI ANNI SUCCESSIVI la SRL detrarrà in ciascuna denuncia dei redditi €. 825, salvo ulteriori incrementi di capitale.

Il testo dell’articolo 1 del Decreto legge 06. 12. 2011 n. 201  “Aiuto alla crescita economica (Ace)”

TITOLO

I Sviluppo ed equità

Art. 1  Aiuto alla crescita economica (Ace)   

In vigore dal 28 dicembre 2011

1.   In considerazione della esigenza di rilanciare lo sviluppo economico del Paese e fornire un aiuto alla crescita mediante una riduzione della imposizione sui redditi derivanti dal finanziamento con capitale di rischio, nonché per ridurre lo squilibrio del trattamento fiscale tra imprese che si finanziano con debito ed imprese che si finanziano con capitale proprio, e rafforzare, quindi, la struttura patrimoniale delle imprese e del sistema produttivo italiano, ai fini della determinazione del reddito complessivo netto dichiarato dalle società e dagli enti indicati nell’articolo 73, comma 1, lettere a) e b), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è ammesso in deduzione un importo corrispondente al rendimento nozionale del nuovo capitale proprio, secondo le disposizioni dei commi da 2 a 8 del presente articolo. Per le società e gli enti commerciali di cui all’articolo 73, comma 1, lettera d), del citato testo unico le disposizioni del presente articolo si applicano relativamente alle stabili organizzazioni nel territorio dello Stato.  

2.   Il rendimento nozionale del nuovo capitale proprio è valutato mediante applicazione dell’aliquota percentuale individuata con il provvedimento di cui al comma 3 alla variazione in aumento del capitale proprio rispetto a quello esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2010.

3.   Dal quarto periodo di imposta l’aliquota percentuale per il calcolo del rendimento nozionale del nuovo capitale proprio è determinata con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze da emanare entro il 31 gennaio di ogni anno, tenendo conto dei rendimenti finanziari medi dei titoli obbligazionari pubblici, aumentabili di ulteriori tre punti percentuali a titolo di compensazione del maggior rischio. In via transitoria, per il primo triennio di applicazione, l’aliquota è fissata al 3 per cento.

4.   La parte del rendimento nozionale che supera il reddito complessivo netto dichiarato è computata in aumento dell’importo deducibile dal reddito dei periodi d’imposta successivi.

5.   Il capitale proprio esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2010 è costituito dal patrimonio netto risultante dal relativo bilancio, senza tener conto dell’utile del medesimo esercizio. Rilevano come variazioni in aumento i conferimenti in denaro nonché gli utili accantonati a riserva ad esclusione di quelli destinati a riserve non disponibili; come variazioni in diminuzione: a)  le riduzioni del patrimonio netto con attribuzione, a qualsiasi titolo, ai soci o partecipanti; b)  gli acquisti di partecipazioni in società controllate; c)  gli acquisti di aziende o di rami di aziende.

6.   Gli incrementi derivanti da conferimenti in denaro rilevano a partire dalla data del versamento; quelli derivanti dall’accantonamento di utili a partire dall’inizio dell’esercizio in cui le relative riserve sono formate. I decrementi rilevano a partire dall’inizio dell’esercizio in cui si sono verificati. Per le aziende e le società di nuova costituzione si considera incremento tutto il patrimonio conferito.

7.   Il presente articolo si applica anche al reddito d’impresa di persone fisiche, società in nome collettivo e in accomandita semplice in regime di contabilità ordinaria, con le modalità stabilite con il decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze di cui al comma 8 in modo da assicurare un beneficio conforme a quello garantito ai soggetti di cui al comma 1.

8.   Le disposizioni di attuazione del presente articolo sono emanate con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Con lo stesso provvedimento possono essere stabilite disposizioni aventi finalità antielusiva specifica.

9.   Le disposizioni del presente articolo si applicano a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2011.

CIRCOLARE INPS N. 121 DEL 10/10/2014 Credito figurativo del servizio di leva

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Accredito figurativo del servizio di leva – regime telematico esclusivo per la presentazione della domande – ampliamento del servizio al Fondo di Quiescenza Poste e alla Gestione Ex-Enpals, attribuzioni competenze territoriali.

Roma, 10/10/2014

Circolare n. 121

OGGETTO: Accredito figurativo del servizio di leva – regime telematico esclusivo per la presentazione della domande – ampliamento del servizio al Fondo di Quiescenza Poste e alla Gestione Ex-Enpals, attribuzioni competenze territoriali.

Precisazioni.

L’Istituto è da tempo impegnato nel complesso e graduale processo di telematizzazione dei servizi avviato dal 2010 a seguito della determinazione presidenziale n. 75 – avente adoggetto “Estensione e potenziamento dei servizi telematici offerti dall’INPS ai cittadini” – con la quale è stato stabilito l’utilizzo esclusivo del canale telematico per la presentazione delle principali domande di prestazioni/servizi.

A seguito dell’entrata in vigore del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 214, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, che ha disposto la soppressione di INPDAP ed ENPALS e l’attribuzione delle relative funzioni all’INPS, il Presidente dell’Istituto, con la Determinazione n. 95 del 30 maggio 2012, ha esteso agli enti incorporati (Gestione pubblica e Lavoratori dello spettacolo e Sportivi professionisti) il programma di telematizzazione dei servizi.

La presente circolare disciplina l’applicazione del regime telematico esclusivo per la presentazione delle domande di accredito figurativo del servizio di leva e l’ampliamento del servizio on line al Fondo di Quiescenza Poste e alla gestione ex-Enpals.

Per la presentazione telematica, in via esclusiva, delle istanze per il riconoscimento del servizio militare nella Gestione dipendenti pubblici (Ex Inpdap) si rinvia a quanto già disposto con circolare n. 12/2013; per tali domande nulla è innovato in questa sede.

2. Canale telematico esclusivo e ampliamento del servizio al Fondo di Quiescenza Poste e alla Gestione Ex-Enpals

La presentazione telematica della domanda di riconoscimento del servizio militare è già attiva per gli iscritti al FPLD dell’AGO, gestioni speciali CD/CM, ART/COM e per gli iscritti ai Fondi speciali sostitutivi EL, TT, VL e FS; tale modalità viene estesa al Fondo di Quiescenza Poste (ex Ipost) e alla Gestione Ex-Enpals.

La presentazione telematica diventerà il canale esclusivo dal 1° gennaio 2015.
In seguito l’istanza presentata in forma diversa da quella telematica non sarà procedibile.

3. Presentazione della domanda

Le domande devono essere presentate attraverso uno dei seguenti canali:

– WEB – servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino tramite PIN attraverso il portale dell’Istituto;
– Contact Center Integrato – n. 803164.
– Patronati – attraverso i servizi telematici offerti dagli stessi;

a) Presentazione delle domande tramite Servizio Web da parte degli assicurati.

Il servizio di presentazione delle domande è disponibile sul sito internet dell’Istituto (www. Inps. It) nella sezione Servizi ON LINE > Elenco di tutti i servizi > Accredito del servizio di leva.

Per poter accedere al servizio, il richiedente deve essere in possesso del PIN “dispositivo” di autenticazione.

Nel menù delle funzioni della pagina iniziale, è disponibile un manuale consultabile on line o scaricabile direttamente dal sito.
La compilazione della richiesta telematica prevede l’inserimento di:

– Codice Fiscale del Richiedente (dati anagrafici e indirizzo di residenza saranno prelevati da ARCA);
– recapiti telefonici o e-mail;
– tipo di servizio svolto (militare, civile, richiamo alle armi);

– arma di appartenenza e ruolo svolto;
– date di inizio e fine servizio;
– distretto militare di appartenenza (centro documentale o direzione marittima di appartenenza);
– residenza al 18° anno di età;
– fondo pensionistico nel quale si chiede l’accredito;
– eventuali note

La domanda sarà regolarmente trasmessa al momento della conferma finale (indicata dalla funzione “salva”).
Dopo l’invio, il richiedente potrà immediatamente stampare la ricevuta di presentazione dell’istanza protocollata.

Oltre alla funzione d’invio della domanda, l’applicazione on-line permette, al soggetto autenticato, di:

– visualizzare le richieste inoltrate mediante il menù “cerca”;
– visualizzare la fase di lavorazione attuale della domanda, l’esito e l’eventuale provvedimento di accoglimento o reiezione generato.

Le notifiche dello stato della pratica (richiesta inviata al distretto militare per la certificazione dei periodi, definizione dell’accredito) saranno inviate in automatico con e-mail e sms ai recapiti indicati dal richiedente nel modulo di presentazione della domanda.

b) Presentazione della domanda tramite i soggetti abilitati (Patronati – Intermediari Istituzionali).

Il richiedente può presentare la domanda rivolgendosi ad un Ente di Patronato. I Patronati forniranno il servizio utilizzando il seguente percorso:
PORTALE PATRONATI > Servizio: Richiesta di accredito del servizio di Leva. Nel menù delle funzioni della pagina iniziale è disponibile il manuale utente.

c) Presentazione della domanda tramite Contact Center.

Il richiedente può presentare la domanda rivolgendosi al servizio di Contact Center disponibile da rete fissa al Numero Verde 803164 oppure da telefono cellulare al numero 06164164, a pagamento secondo il piano tariffario del proprio gestore telefonico.

4. Competenze territoriali (Fondo di Quiescenza Poste e Gestione Ex-Enpals)

La competenza alla trattazione delle domande di accredito figurativo del servizio di leva è individuata sulla base della residenza degli interessati.

Fanno eccezione le richieste di accredito nel Fondo di Quiescenza Poste e nella Gestione Ex- Enpals, per le quali è prevista la seguente competenza territoriale:

a) Gestione Ex-Enpals
Roma 7000 – Polo Previdenza Pals nell’area metropolitana di Roma. B) Fondo di Quiescenza Poste (ex-Ipost)

A parziale modifica della circolare n. 103 del 28. 06. 2013, che ha attribuito la gestione del conto assicurativo al Polo Specialistico istituito presso la Filiale di Coordinamento di Roma EUR, le attività connesse alla trattazione e all’inserimento in estratto conto di periodi riferiti al servizio di leva saranno decentrate presso le direzioni metropolitane/provinciali competenti a trattare le pensioni Fondo Poste a partire dal 1° gennaio 2015.

Le domande telematiche di accredito del servizio di leva saranno pertanto attribuite in automatico secondo la tabella riepilogativa che segue.

Le domande cartacee, pervenute durante i tre mesi di fase transitoria successiva alla pubblicazione della presente circolare, saranno inoltrate dal Polo Specialistico istituito presso la Filiale di Coordinamento di Roma EUR alle Direzioni competenti come di seguito individuate.

REGIONE DI RESIDENZA DELL’ISCRITTO

DIREZIONE METROPOLITANA/PROVINCIALE

COMPETENTE

VALLE D’AOSTA

TORINO – 810000

PIEMONTE

TORINO – 810000

LOMBARDIA

MILANO – 490000

VENETO (provincie di VERONA VICENZA e ROVIGO)

VERONA – 900000

VENETO (province di VENEZIA PADOVA TREVISO e BELLUNO)

VENEZIA – 880000

TRENTINO ALTO ADIGE

BOLZANO – 140000

FRIULI VENEZIA GIULIA

TRIESTE – 850000

LIGURIA

GENOVA – 340000

EMILIA ROMAGNA

BOLOGNA – 130000

TOSCANA

FIRENZE – 300000

UMBRIA

ANCONA – 030000

MARCHE

ANCONA – 030000

ABRUZZO

ROMA – 700000

LAZIO

ROMA – 700000

MOLISE

NAPOLI – 510000

CAMPANIA

NAPOLI – 510000

PUGLIA

BARI – 090000

BASILICATA

REGGIO CALABRIA – 670000

CALABRIA

REGGIO CALABRIA – 670000

SICILIA

PALERMO – 550000

SARDEGNA

CAGLIARI – 170000

Non è attualmente prevista la possibilità di invio telematico di domande di accredito figurativo del servizio di leva da Stati Esteri; le istanze avanzate da utenti residenti all’estero possono essere presentate per il tramite dei Patronati.

5. Informativa all’utenza

Si invitano le Direzioni Regionali INPS a dare la massima diffusione, sul territorio, del nuovo modello organizzativo sopra illustrato.

6. Istruzioni per gli operatori di Sede

In ordine all’utilizzo della procedura di accredito di leva da parte degli operatori di sede, per quanto non espressamente disposto nella presente circolare, si rinvia alle disposizioni già fornite con messaggio 2690 del 19/2/2014.

Ricorso in Cassazione dell’interveniente adesivo: presupposti e limiti

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L’interventore adesivo non ha un’autonoma legittimazione ad impugnare (salvo che l’impugnazione sia limitata alle questioni specificamente attinenti la qualificazione dell’intervento o la condanna alle spese imposte a suo carico), sicche ́ la sua impugnazione e` inammissibile.

Ricorso in Cassazione dell’interveniente adesivo: presupposti e limiti

Cassazione, sez. Lav. , 8 luglio 2013, sentenza n. 16930 – Pres. De Renzis – Rel. Manna – P. M. (Parz. Conf. ) Fucci – Ric. C. F. – Res. T. A.

L’interventore adesivo non ha un’autonoma legittimazione ad impugnare (salvo che l’impugnazione sia limitata alle questioni specificamente attinenti la qualificazione dell’intervento o la condanna alle spese imposte a suo carico), sicche ́ la sua impugnazione e` inammissibile.

Il caso

Il dirigente scolastico di un Istituto professionale di Stato, nella sua qualita` di rappresentante dell’istituto stesso, proponeva appello contro la sentenza di primo grado che aveva confermato il decreto ex art. 28 Stat. Lav. , con cui era stata affermata l’antisindacalita` del comportamento tenuto dal dirigente medesimo ai danni del coordinatore regionale e provinciale di Catanzaro del sindacato Gilda degli insegnanti, «comportamento consistito nell’affiggere, nella bacheca riservata a comunicazioni inerenti all’attivita` sindacale, una nota giudicata offensiva e lesiva dell’immagine sindacale del predetto coordinatore». Nell’ambito del giudizio di secondo grado lo stesso dirigente svolgeva anche, a titolo personale, «un intervento adesivo dipendente rispetto alla posizione processuale dell’istituto scolastico». La sentenza d’appello confermava l’antisindacalita` del comportamento e veniva poi impugnata dal solo dirigente, nella sua qualita` di interveniente adesivo. Nel giudizio di cassazione si costituivano poi, depositando controricorso, sia l’istituto scolastico, che chiedeva l’accoglimento del ricorso, sia il sindacato, che concludeva per l’inammissibilita` o, in subordine, per il rigetto.

La decisione

La Cassazione ha dichiarato inammissibile l’impugnazione, in quanto proposta dal ricorrente in proprio, e quindi nella sola sua qualita` di interveniente adesivo rispetto all’appello proposto dall’Istituto. Dopo avere premesso che, ai sensi dell’art. 344 c. P. C. , l’intervento avrebbe dovuto essere ritenuto inammissibile gia` dal giudice di secondo grado, non trattandosi certo di un soggetto che sarebbe stato poi legittima- to alla opposizione di terzo, la S. C. Ha afferma- to che, comunque e soprattutto, per giurisprudenza consolidata, «l’interventore adesivo dipendente non ha autonoma legittimazione ad impugnare, salvo che l’impugnazione sia limitata alle questioni specificamente concernenti la qualificazione dell’intervento o la condanna alle spese imposte a suo carico (e non e` questo il caso), di guisa che la sua impugnazione e` inammissibile». Rilevava inoltre la Cassazione che, pur trattandosi «indirizzi giurisprudenziali anti- chi e consolidati», il ricorrente non aveva neppure tentato di svolgere argomentazioni dirette a giustificare l’eventuale abbandono di tale orientamento (cfr. Art. 360-bis, n. 1, c. P. C. ).

I precedenti

In senso conforme si vedano, ricordate in moti- vazione, Cass. , S. U. , 17 aprile 2012, n. 5992, in Mass. Giust. Civ. , 2012, 505, che ha affermato che «L’interventore adesivo non ha un’autonoma legittimazione ad impugnare (salvo che l’impugnazione sia limitata alle questioni specifica- mente attinenti la qualificazione dell’intervento o la condanna alle spese imposte a suo carico), sicche ́ la sua impugnazione e` inammissibile, laddove la parte coadiuvata non abbia esercitato il proprio diritto di proporre impugnazione ovvero abbia fatto acquiescenza alla decisione ad essa sfavorevole», nonche ́ Cass. , sez. II, 10 marzo 2011, n. 5744, ivi, 2011, 391, e Cass. , sez. II, 16 febbraio 2009, n. 3734, ivi, 2009, 247, per la quale «La parte che svolge intervento adesivo dipendente, ai sensi del comma 2 dell’art. 105 c. P. C. – che si ha quando il terzo sostiene le ragioni di una parte senza proporre nuove domande ed ampliare il tema del contendere – puo` aderire all’impugnazione proposta dalla par- te medesima ma non proporre impugnazione autonoma, la quale deve essere dichiarata inammissibile». Con specifico riferimento al procedi- mento ex art. 28 Stat. Lav. Si veda poi Cass. , sez. Lav. , 13 agosto 1991, n. 8816, in Foro it. , 1992, I, 87 ss. , secondo cui: «L’intervento, nel giudizio di opposizione al decreto di repressione della con- dotta antisindacale ottenuto da un’associazione sindacale esclusa dalle trattative, dell’associazione che alle trattative aveva partecipato, va qualificato adesivo dipendente; pertanto, l’associazione sindacale interveniente non e` autonoma- mente legittimata alla impugnazione della sentenza con la quale e` rigettata l’opposizione del datore di lavoro)».
Il ricorso principale in cassazione proposto da un interveniente adesivo non deve peraltro essere dichiarato inammissibile qualora anche la parte coadiuvata abbia proposto ricorso principale, potendo in tal caso essere preso in esame come «ricorso incidentale adesivo»: cos`ı Cass. , sez. I, 10 agosto 2007, n. 17644, in Mass. Foro it. , 2007, 1360 s.

Sull’inammissibilita` dell’intervento adesivo in appello, ai sensi dell’art. 344 c. P. C. , si veda poi, ricordata in motivazione, Cass. , sez. III, 23 mag- gio 2006, n. 12114, in Mass. Foro it. , 2006, 1030 s. (secondo la quale «L’intervento in appello e` ammissibile soltanto quando l’interventore sia legittimato a proporre opposizione di terzo ai sensi dell’art. 404 c. P. C. , ossia nel caso in cui egli rivendichi, nei confronti di entrambe le parti, la titolarita` di un diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la situazione accertata o costituita dalla sentenza di primo grado, e non anche quando l’intervento stesso sia qualificabile come adesivo, perche ́ volto a sostenere l’impugnazione di una delle parti per porsi al riparo da un pregiudizio mediato dipendente da un rapporto che lega il diritto dell’interventore a quello di una delle parti»), e conforme v. Anche Cass. , sez. Lav. , 5 marzo 2003, n. 3258, in Mass. Giust. Civ. , 2003, 458. Ricordiamo peraltro che la giurisprudenza, pragmaticamente, ammette (e con effetti sananti), l’intervento adesivo in appello (e in cassazione) del litisconsorte necessario pretermesso: cfr. Ad es. Cass. , sez. III, 25 giugno 1997, n. 5674, in Foro it. , 1997, I, 2866 ss. , e Cass. , sez. I, 16 settembre 1995, n. 9781, in Mass. Giust. Civ. , 1995, 1654.

Sempre in tema di intervento adesivo v. Inoltre Cass. , sez. Lav. , 18 aprile 2005, n. 7930, in Lav. Giur. , 2005, 893, secondo la quale «E` inammissibile nel giudizio di Cassazione l’intervento di terzi che non hanno partecipato alle pregresse fasi di merito. (Nella specie la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile l’intervento della societa` incorporante quella intimata, effettuato mediante deposito dell’atto di costituzione all’udienza)»; Cass. , sez. Lav. , 12 maggio 2005, n. 9950, ivi, 1094, per la quale «L’azione ex art. 28, L. N. 300 del 1970 avverso i comportamenti antisindacali e plurioffensivi non comporta il litisconsorzio necessario dei lavoratori licenziati, dei quali sia stata richiesta la reintegrazione, risultando legittimato ad agire solo il sindacato e riconoscendosi al piu` ai lavoratori un interesse all’intervento adesivo dipendente (art. 105, comma 2, c. P. C. ), a sostegno delle ragioni del sindacato, e non gia` un’azione diretta o un intervento autonomo»; Trib. Roma, 18 settembre 2006, ivi, 2007, 424, che ha ritenuto inammissibile l’intervento adesivo di organizzazioni sindacali e dei singoli lavoratori in procedimento introdotto da un’azienda per contrastare pretese contributive dell’Inps relative all’asserita natura subordinata del rapporto di lavoro di alcuni lavoratori.  

Circolare INPS 103 08/09/2014

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Variazione della misura dell’interesse di dilazione e di differimento e delle somme aggiuntive per omesso o ritardato versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Circolare n. 103 – 08/09/2014

OGGETTO: Variazione della misura dell’interesse di dilazione e di differimento e delle somme aggiuntive per omesso o ritardato versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

SOMMARIO: La Banca Centrale Europea con la decisione di politica monetaria del 4 settembre 2014 ha ridotto di 10 punti base il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell’Eurosistema (ex TUR) che, pertanto, con decorrenza dal 10 settembre 2014 è pari allo 0,05%.

Premessa

La Banca Centrale Europea con la decisione di politica monetaria del 4 settembre 2014 ha#idotto di 10 punti base il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell’Eurosistema (ex Tasso Ufficiale di Riferimento) (1) che, a decorrere dal 10 settembre 2014, è pari allo 0,05%.

Tale variazione incide sulla determinazione del tasso di dilazione e di differimento da applicare agli importi dovuti a titolo di contribuzione agli Enti gestori di forme di Previdenza e Assistenza obbligatorie nonché sulla misura delle sanzioni civili di cui all’art. 116, comma 8, lett. A) e b) e comma 10, della legge 23 dicembre 2000, n. 388.

1) Interesse di Dilazione e di Differimento

L’interesse di dilazione per la regolarizzazione rateale dei debiti per contributi e sanzioni civili e l’interesse dovuto in caso di autorizzazione al differimento del termine di versamento dei contributi dovranno essere calcolati al tasso del 6,05% annuo (2).

Tale misura trova applicazione con riferimento alle rateazioni presentate a decorrere dal 10 settembre 2014.

I piani di ammortamento già emessi e notificati in base al tasso precedentemente in vigore non subiranno modificazioni.

Nei casi di autorizzazione al differimento del termine di versamento dei contributi, il nuovo tasso, pari al 6,05%, sarà applicato a partire dalla contribuzione relativa al mese di agosto 2014.

2) Sanzioni Civili

La decisione della Banca Centrale Europea, che ha definito, a decorrere dal 10 settembre 2014, la riduzione del tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali nella misura sopra riportata, comporta la variazione delle sanzioni civili come segue.

Nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, di cui alla lett. A), comma 8, dell’art. 116 della legge 388/2000, la sanzione civile è pari al 5,55% in ragione d’anno (tasso dello 0,05% maggiorato di 5,5 punti) (3).

La medesima misura del 5,55% annuo, trova applicazione anche con riferimento all’’ipotesi di cui alla lett. B), secondo periodo, del predetto art. 116, comma 8 (4).

Resta ferma, in caso di evasione (art. 116, comma 8, lett. B), primo periodo) la misura della sanzione civile, in ragione d’anno, pari al 30 per cento nel limite del 60 per cento dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge.

Con riferimento all’ipotesi disciplinata dal comma 10 dell’art. 116, la sanzione civile sarà dovuta nella stessa misura del 5,55% annuo (5).

3) Sanzioni ridotte in caso di Procedure Concorsuali

Il Consiglio di Amministrazione dell’Istituto, con deliberazione n. 1 dell’8 gennaio2002, ha stabilito che in caso di procedure concorsuali (6) le sanzioni ridotte, nell’ipotesi prevista dall’art. 116, comma 8, lett. A) della già citata legge 388/2000, dovranno essere calcolate nella misura del TUR oggi tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell’Eurosistema.

Nell’ipotesi di evasione di cui all’art. 116, comma 8, lett. B) della medesima legge, la misura delle sanzioni è pari al predetto tasso aumentato di due punti. #l Consiglio di Amministrazione, con la citata deliberazione, ha stabilito, tuttavia, ai sensi dell’art. 1, comma 220, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (7), che il limite massimo della riduzione non può essere inferiore alla misura dell’interesse legale.

Pertanto “qualora il tasso del TUR scenda al di sotto del tasso degli interessi legali, la riduzione massima sarà pari al tasso legale, mentre la minima sarà pari all’interesse legale maggiorato di due punti”.

Tenuto conto che per effetto della decisione della Banca Centrale Europea in trattazione, a decorrere dal 10 settembre 2014, il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali (ex TUR) è inferiore all’interesse legale in vigore dal 1° gennaio 2014 (8), dalla medesima data la riduzione opererà sulla base di tali ultime misure.

Si rammenta, infine, che la riduzione delle sanzioni, che resta subordinata alla condizione preliminare dell’avvenuto integrale pagamento dei contributi e delle spese, si cristallizza alla data in cui l’Autorità Giudiziaria dichiara aperta la procedura concorsuale mentre, ai sensi dell’art. 55 del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), per il periodo di svolgimento della procedura sono dovuti gli interessi legali.

Il Direttore Generale

Nori

Note:

(1) Il Decreto 26 settembre 2005 del Ministero dell’Economia e delle Finanze ha disposto che il Tasso Ufficiale di Riferimento deve essere sostituito con il Tasso applicato alle operazioni di rifinanziamento principale dell’Eurosistema fissato periodicamente dal Consiglio direttivo della Banca Centrale Europea.

(2) Le norme che regolano la misura degli interessi di dilazione e differimento sono:

D. L. 29 luglio 1981, n. 402, convertito, con modificazioni, nella legge 26 settembre 1981, n. 537 art. 13, comma 1, “L’interesse di differimento e di dilazione per la regolarizzazione rateale dei debiti per i contributi ed accessori di legge dovuti dai datori di lavoro agli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatoria è pari al tasso degli interessi attivi previsti dagli accordi interbancari per i casi di più favorevole trattamento, maggiorato di cinque punti, e sarà determinato con decreto del Ministro del tesoro di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale con effetto dalla data di emanazione del decreto stesso”.

D. L. 14 giugno 1996, n. 318, convertito nella legge n. 402 del 29 luglio 1996, art. 3, comma 4, “A decorrere dal 1° luglio 1996, è determinata in sei punti la maggiorazione di cui all’art. 13, primo comma, del decreto-legge 29 luglio 1981, n. 402, convertito, con modificazioni, nella legge 26 settembre 1981, n. 537 e successive modificazioni e integrazioni”.

(3) Art. 116, comma 8, legge 23 dicembre 2000, n. 388: omissis.

a) nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie, al pagamento di una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile non può essere superiore al 40 per cento dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge.

(4) Art. 116, comma 8, legge 23 dicembre 2000, n. 388:#) omissis. Qualora la denuncia della situazione debitoria sia effettuata spontaneamente prima di contestazioni o richieste da parte degli enti impositori e comunque entro dodici mesi dal termine stabilito per il pagamento dei contributi o premi e semprechè il versamento dei contributi o premi sia effettuato entro trenta giorni dalla denuncia stessa, i soggetti sono tenuti al pagamento di una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile non può essere superiore al 40 per cento dell’importo dei contributi o premi, non corrisposti entro la scadenza di legge.

(5) Art. 116, comma 10, legge 23 dicembre 2000, n. 388:

Nei casi di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi derivanti da oggettive incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali o amministrativi sulla ricorrenza dell’obbligo contributivo, successivamente riconosciuto in sede giudiziale o amministrativa, semprechè il versamento dei contributi o premi sia effettuato entro il termine fissato dagli enti impositori, si applica una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile non può essere superiore al 40 per cento dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge.

(6) Circolare n. 88 del 9 maggio 2002, punto 5.

(7) Legge 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 220:

Nelle ipotesi di procedure concorsuali, in caso di pagamento integrale dei contributi e spese, la somma aggiuntiva può essere ridotta ad un tasso annuo non inferiore a quello degli interessi legali, secondo criteri stabiliti dagli enti impositori.

(8) Circolare n. 2 del 10 gennaio 2014.

Orario di lavoro: violazioni da parte del datore

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La Corte costituzionale ha pronunciato la seguente sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/Ce e 2000/ 34/Ce concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), promosso dal Tribunale di Brescia, nel procedimento vertente tra F. D. Ed altra e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione provinciale del lavoro di Brescia, con ordinanza del 21 marzo 2012, iscritta al n. 170 del registro ordinanze.

Orario di lavoro: violazioni da parte del datore

Corte costituzionale, sentenza 21 maggio 2014 (depositata il 4 giugno 2014), n. 153 – Pres. Silvestri – Red. Mazzella

Organizzazione dell’orario di lavoro – Regime sanzionatorio per violazione da parte del datore di lavoro di divieti relativi alla durata

massima dell’orario di lavoro, del limite massimo di lavoro straordinario, del limite minimo di riposo giornaliero e del limite minimo

di riposo settimanale – Violazione dei principi e criteri direttivi contenuti nell’art. 2, comma 1, lett. C) – Eccesso di delega – Illegittimita`

costituzionale.

E’ costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 76 Cost. L’art. 18-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66

(nel testo introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213) i quali prevedono, rispettivamente,

che la violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, comma 2, 3 e 4, e 10, comma 1, del decreto sia punita con la sanzione amministrativa da 130 a 780 euro per ogni lavoratore o ogni periodo (comma 3), e che la violazione delle disposizioni di cui agli articoli 7, comma 1, e 9, comma 1, del decreto sia punita con la sanzione amministrativa da 105 a 630 euro (comma 4) – ossia sanzioni piu`

elevate di quelle previste in precedenza dall’art. 9 del R. D. L. 15 marzo 1923, n. 692, e dall’art. 27 della legge 22 febbraio 1934, n.

370. Infatti l’art. 2, comma 1, lettera c), della legge delega 1º marzo 2002, n. 39, prevedeva come criterio direttivo che, nel passaggio dal precedente al nuovo regime, in ogni caso «saranno previste sanzioni identiche a quelle eventualmente gia` comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensivita` rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi».

La Corte costituzionale ha pronunciato la seguente sentenza nel giudizio di legittimita` costituzionale dell’art. 18-bis, commi 3 e 4, del

decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/Ce e 2000/ 34/Ce concernenti taluni aspetti dell’organizzazione

dell’orario di lavoro), promosso dal Tribunale di Brescia, nel procedimento vertente tra F. D. Ed altra e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione provinciale del lavoro di Brescia, con ordinanza del 21 marzo 2012, iscritta al n. 170 del registro ordinanze

2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visti l’atto di costituzione di Airest Spa (gia` Airest Srl), nonche´ l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 15 aprile 2014 il Giudice relatore Sergio Mattarella; uditi l’avvocato Andrea Bortoluzzi per l’Airest Spa (gia` Airest Srl) e l’avvocato dello Stato Filippo Bucalo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. — Nel corso di un giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione emessa dalla Direzione provinciale del lavoro per l’irrogazione

di sanzioni amministrative in materia di lavoro, il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza

del 21 marzo 2012 ha sollevato, in riferimento all’articolo 76 della Costituzione, questione di legittimita` costituzionale dell’art. 18-

bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/Ce e 2000/34/Ce concernenti taluni

aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro).

1. 1. — Il giudice remittente precisa, in punto di fatto, che l’ordinanza ingiunzione oggetto di opposizione e` stata emessa per le seguenti

violazioni: art. 4, commi 2, 3 e 4, del D. Lgs. N. 66 del 2003, per superamento della durata massima dell’orario di lavoro settimanale;

art. 5, comma 3, del medesimo decreto, per svolgimento di lavoro straordinario oltre il limite di 250 ore annuali; art. 7, comma 1, del

medesimo decreto, per mancata fruizione del riposo giornaliero di undici ore ogni ventiquattro nel periodo dal 1º ottobre 2007 al

26 aprile 2008; art. 9, comma 1, del medesimo decreto, per mancata concessione del riposo settimanale di almeno ventiquattro ore

nel medesimo periodo appena riportato.

Rileva poi il Tribunale che la parte privata ricorrente ha eccepito l’illegittimita` costituzionale del regime sanzionatorio applicabile nella

specie, e che l’accoglimento della questione determinerebbe l’applicazione di un regime «diverso e migliore», in base alla normativa

in precedenza vigente. In particolare, per le violazioni degli artt. 7 e 9 del D. Lgs. N. 66 del 2003, se si applicasse nella specie l’art. 9 del regio decreto-legge 15 marzo 1923, n. 692 (Limitazione dell’orario di lavoro per gli operai ed impiegati delle aziende industriali o commerciali di qualunque natura), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 1925, n. 473 la sanzione sarebbe compresa tra 25 e 154 euro ovvero, qualora si tratti di piu` di cinque lavoratori, tra i 154 e i 1. 032 euro; la disciplina introdotta nel 2003, invece, individua limiti compresi tra euro 104 ed euro 630 per ciascun lavoratore e non piu` per singola violazione, mentre la violazione dell’art. 4 del D. Lgs. N. 66 del 2003 prevede una sanzione oscillante tra 130 e 780 euro per ogni lavoratore e per ciascun periodo.

1. 2. — Tanto premesso, il giudice a quo osserva che il D. Lgs. N. 66 del 2003 e` stato emanato sulla base della delega contenuta nella legge 1º marzo 2002, n. 39 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunita` europee. Legge comunitaria 2001), la quale prevedeva, fra l’altro, nel suo art. 2, comma 1, lettera c), il criterio direttivo per cui le sanzioni amministrative dovevano essere regolate secondo la previsione per cui in ogni caso «saranno previste sanzioni identiche a quelle eventualmente gia` comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensivita` rispetto alle infrazioni alle

disposizioni dei decreti legislativi». Sulla base di simile previsione, il remittente pone a confronto le regole previste in materia di orario di lavoro nella disciplina previgente e quelle contenute nel D. Lgs. N. 66 del 2003, allo scopo di verificare se si possa parlare di violazioni «omogenee e di pari offensivita` », pervenendo alla conclusione affermativa. Ed infatti, la regolazione dell’orario di lavoro di cui all’art. 4 del decreto n. 66 del 2003 trova un’evidente rispondenza alle previsioni di cui agli artt. 1 e 5 del R. D. L. N. 692 del 1923 (orario di lavoro massimo di otto ore, pari a quarantotto ore settimanali, con non piu` di due ore al giorno di straordinario); queste ultime norme prevedevano un regime dell’orario di lavoro la cui violazione implicava l’irrogazione delle sanzioni di cui all’art. 9 del R. D. L. N. 692 del 1923. Allo stesso modo, l’art. 4 del decreto n. 66 del 2003 «non si differenzia dalla disciplina previgente se non limitatamente al computo complessivo inderogabile settimanale», per cui la violazione del medesimo dovrebbe comportare l’applicazione della sanzione di cui al menzionato art. 9 del R. D. L. Menzionato.

Considerazioni analoghe possono essere svolte – secondo il Tribunale – a proposito della disciplina sul riposo giornaliero di cui all’art. 7 del D. Lgs. N. 66 del 2003, nonche´ per quella del riposo settimanale di cui all’art. 9 del medesimo decreto. Rimanendo ferma, rispetto alla regolazione precedente, la regola del riposo settimanale di ventiquattro ore, si aggiungono modeste differenze rispetto alla disciplina contenuta nella legge 22 febbraio 1934, n. 370 (Riposo domenicale e settimanale).

La conclusione cui perviene il Tribunale di Brescia e` nel senso che, pure in assenza di una «perfetta identita`» tra le fattispecie di

cui al decreto n. 66 del 2003 e quelle di cui alle leggi previgenti sopra richiamate, «sotto il profilo della omogeneita` si tratta di discipline

regolanti entrambe il rispetto di minimi irrinunciabili nel rapporto tra tempo lavorativo e riposo». Analogamente, sotto il profilo delle

sanzioni, la disciplina vigente e quella pregressa sono animate dal medesimo fine, che e` quello di «salvaguardare le condizioni del

singolo lavoratore, senza che possa farsi derivare una diversa conclusione in relazione al differenziato regime della disciplina previgente nel caso di violazioni relative ad un numero di lavoratori superiori ai cinque». Sicche ´, secondo il Tribunale, l’unicita` della materia e la semplice differenziata modulazione dei sistemi di conteggio dei limiti massimi consentono di ritenere che la nuova disciplina

sia omogenea rispetto alla precedente.

Cio` comporta la necessita` della rimessione alla Corte costituzionale, attesa la violazione dell’art. 76 della Costituzione.

2. —Nel giudizio si e` costituita la parte privata Airest s. P. A. , ricorrente avverso l’ordinanza ingiunzione, chiedendo l’accoglimento della

prospettata questione.

2. 1. — La parte, dopo aver ricordato le circostanze di fatto del giudizio a quo e le violazioni contestate degli artt. 4, 5, 7 e 9 del

D. Lgs. N. 66 del 2003, osserva che il provvedimento di ingiunzione prevedeva una sanzione complessiva pari ad euro 23. 610, sanzione

pagata con riserva di ripetizione. Cio` premesso, la parte provvede ad una ricostruzione del quadro normativo nel quale si inserisce l’odierna questione. Con la citata legge n. 39 del 2002 e` stata concessa una delega dal Parlamento al Governo per l’attuazione

di direttive comunitarie, tra le quali quelle in materia di orario di lavoro; l’art. 2, comma 1, lettera c), della legge ha previsto come criterio direttivo quello per cui le sanzioni amministrative dovevano essere identiche a quelle comminate dalle leggi vigenti per le violazioni omogenee e di pari offensivita`. In attuazione della delega, gli artt. 4, 7 e 9, comma 1, del D. Lgs. N. 66 del 2003, regolando la materia dell’orario di lavoro e dei riposi giornalieri e settimanali, nella loro originaria formulazione non prevedevano specifiche sanzioni per la violazione di dette norme; ed anche le direzioni provinciali del lavoro avevano inteso tale silenzio come indice del fatto che dovessero continuare a trovare applicazione le sanzioni previste per precetti di analogo contenuto nella legislazione previgente.

In particolare, per la violazione delle regole sul riposo giornaliero si applicava la sanzione di cui all’art. 9 del R. D. L. N. 692 del 1923; per la violazione della disciplina del riposo settimanale si applicava la sanzione dell’art. 27 della legge n. 370 del 1934; per la violazione della disciplina sull’orario di lavoro settimanale si applicava l’art. 9 del R. D. L. N. 692 del 1923. La situazione, pero`, e` radicalmente mutata con l’entrata in vigore del decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in materia di apparato sanzionatorio dell’orario di lavoro), il quale, introducendo l’art. 18-bis del D. Lgs. N. 66 del 2003, ha fissato

specifiche sanzioni per la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 4, commi 2, 3 e 4, 7, comma 1, e 9, comma 1, del decreto stesso; sanzioni molto piu` elevate rispetto a quelle previste dalle citate leggi precedenti, le quali sono rimaste applicabili, al massimo, per le violazioni compiute fino al 31 agosto 2004 e non oltre. La legittimita` costituzionale di tale modifica legislativa costituisce l’oggetto del presente giudizio.

2. 2. — Secondo la parte costituita, la rilevanza della presente questione e` palese. Il giudizio a quo, infatti, verte soltanto sull’ammontare delle sanzioni dovute; e l’eventuale declaratoria di illegittimita` costituzionale determinerebbe o il venire meno di ogni sanzione per le violazioni contestate nel giudizio in corso, oppure l’applicazione delle piu` lievi sanzioni di cui alla normativa pregressa.

2. 3. —La parte privata passa quindi all’esame della non manifesta infondatezza della questione. Il criterio direttivo di cui al citato art. 2 della legge delega dovrebbe far comprendere che il legislatore, nel momento in cui si e` richiamato alle sanzioni previste dalle leggi vigenti, non poteva che intendere le leggi vigenti al momento della sua entrata in vigore. Com’e` stato confermato anche da numerosi interpreti, l’espressione «in ogni caso» usata dal legislatore delegante deve essere interpretata nel senso di non ammettere deroghe, imponendo l’attuazione del principio anche se «essa avesse comportato la previsione di una sanzione amministrativa di importo non compreso tra euro 103 ed euro 103. 291», in cio` superando il diverso criterio direttivo contenuto nella medesima disposizione della legge delega.

In altre parole, in presenza di violazioni «omogenee e di pari offensivita`», il criterio fissato nella delega sarebbe, secondo la parte, quello per cui non potrebbe essere prevista l’irrogazione di sanzioni diverse da quelle gia` previste in precedenza. Da tanto consegue

che non sarebbe possibile «negare l’omogeneita` e la pari offensivita` delle violazioni di norme, che immutate nel principio e nella

struttura, prevedano limiti quantitativi diversi al cui superamento consegue la sanzione oppure ipotesi derogatorie diverse».

Premessa questa ricostruzione, la societa` costituita passa a confrontare le norme sanzionatorie contenute nel D. Lgs. N. 66 del 2003 con quelle previste nel sistema previgente e, sulla base di richiami giurisprudenziali e di dottrina, perviene alle seguenti conclusioni:

1) che la disposizione dell’art. 9, comma 1, del D. Lgs. N. 66 del 2003 in tema di riposo settimanale ha in sostanza riprodotto l’art. 1, comma 1, della legge n. 370 del 1934, pur senza negare che vi sono alcune diversita` lessicali le quali non mutano la sostanza del precetto, tanto che le direzioni provinciali del lavoro avevano applicato sempre l’art. 27 della legge n. 370 del 1934 fino all’entrata in vigore del D. Lgs. N. 213 del 2004; 2) che l’art. 7 del D. Lgs. N. 66 del 2003 «ha di fatto riproposto un principio omogeneo a quello deducibile, nel vigore del sistema previgente, dal combinato disposto degli artt. 1 e 5 del R. D. L. N. 692 del 1923»; 3) che l’art. 4 del D. Lgs. N. 66 del 2003 in tema di durata media dell’orario di lavoro ha pure riproposto un principio deducibile, nel vigore del sistema previgente, dal combinato disposto degli artt. 1 e 5 del R. D. L. N. 692 del 1923. La parte privata, pertanto, conclude nel senso che le sanzioni amministrative introdotte dall’art. 18-bis del D. Lgs. N. 66 del 2003 sono di misura ben superiore rispetto a quelle esistenti nel pregresso sistema, con cio` determinando l’evidente violazione della disposizione contenuta nella legge delega e, quindi, dell’art. 76 Cost.

3. — Nel giudizio e` intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata.

3. 1. — L’inammissibilita` deriverebbe dal fatto che l’ordinanza di rimessione non consente di apprezzare la rilevanza della questione, poiche´ il Tribunale non indica analiticamente le sanzioni comminate nella specie, ne´ quelle che sarebbero applicabili in caso di declaratoria di illegittimita` costituzionale.

3. 2. — Nel merito, la questione sarebbe comunque priva di fondamento.

Osserva l’Avvocatura dello Stato che il tema centrale dell’odierno giudizio consiste nello stabilire l’esatta portata della nozione di «omogeneita`» delle violazioni cui si riporta la norma di delega. Soltanto ove tale requisito fosse dimostrato, infatti, si potrebbe prefigurare una fondatezza della prospettata questione.

Ma tale omogeneita` non sussiste, secondo la parte intervenuta.

L’ordinamento italiano, infatti, dovendo dare attuazione alle direttive dell’Unione europea, non ha scelto di modificare o integrare le disposizioni precedenti, quanto di procedere all’integrale riscrittura della disciplina dell’orario di lavoro. Nel sistema attuale, essa prevede la fissazione di un orario medio complessivo settimanale, comprensivo del lavoro straordinario, pari a quarantotto ore; un periodo minimo di riposo giornaliero di undici ore ogni ventiquattro e un periodo di riposo settimanale pari a ventiquattro ore ogni sette giorni.

La durata massima della settimana lavorativa, pero` , viene demandata alla contrattazione collettiva. Nel sistema precedente, invece, gli artt. 1 e 5 del R. D. L. N. 692 del 1923 fissavano la durata massima del lavoro ordinario, di quello straordinario e della settimana lavorativa.

La previsione di una durata media complessiva della settimana lavorativa, da rispettare sull’arco temporale di riferimento di quattro mesi, consente la concentrazione del lavoro in periodi di tempo ridotti, mentre il R. D. L. N. 692 del 1923 non conteneva analoghe disposizioni.

Sotto questo profilo sarebbe evidente il carattere fortemente innovativo dell’odierno sistema, sia in ordine all’orario settimanale che a quello giornaliero. Quanto al lavoro giornaliero, il limite delle undici ore ogni ventiquattro non esisteva nel sistema pregresso; ed anche per il riposo settimanale l’art. 9 del D. Lgs. N. 66 del 2003 innova rispetto alla disciplina di cui alla legge n. 370 del 1934.

In conclusione – secondo l’Avvocatura dello Stato – la nuova disciplina si fonda su presupposti totalmente diversi da quelli del passato, sicche´ la mancanza di omogeneita` esclude la possibilita` di violazione del precetto contenuto nella legge delega.

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento all’articolo 76 della Costituzione, questione di legittimita` costituzionale dell’art. 18-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/Ce e 2000/34/Ce concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro). Tali disposizioni – le quali prevedono, rispettivamente, che la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 4, commi 2, 3 e 4, e 10, comma 1, del decreto stesso sia punita con la sanzione amministrativa da 130 a 780 euro per ogni lavoratore e per ciascun periodo (comma 3), e che la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 7, comma 1, e 9, comma 1, del decreto stesso sia punita con la sanzione amministrativa da 105 a 630 euro (comma 4) – si porrebbero in contrasto con l’art. 2, comma 1, lettera c), della legge delega 1º marzo 2002, n. 39 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunita` europee. Legge comunitaria 2001), il quale ha previsto come criterio direttivo in materia di sanzioni amministrative che, nel passaggio dal precedente al nuovo regime, in ogni caso «saranno previste sanzioni identiche a quelle eventualmente gia` comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensivita` rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi». E poiche´ – secondo la ricostruzione operata dal Tribunale – le precedenti disposizioni in materia prevedevano l’irrogazione di sanzioni piu` miti, cio` si tradurrebbe nella conseguente illegittimita` costituzionale per violazione della legge delega.

2. —Va innanzitutto rigettata l’eccezione preliminare sollevata dall’Avvocatura dello Stato secondo la quale la questione sarebbe inammissibile perche´ l’ordinanza di rimessione non avrebbe dato conto in modo adeguato della rilevanza della medesima. L’eccezione non e` fondata, perche´ il Tribunale di Bresciaha illustrato sia la fattispecie concreta posta al suo esame sia le sanzioni amministrative che sono state irrogate sulla base delle censurate disposizioni, indicando anche quali erano – secondo la sua prospettazione – le sanzioni che si sarebbero dovute applicare in base al sistema previgente, il che comporta che sia da ritenere dimostrata in modo sufficiente la rilevanza dell’odierna questione di legittimita` costituzionale.

3. — Ai fini del corretto inquadramento della questione e` opportuna una breve premessa di carattere ricostruttivo.

Il decreto legislativo n. 66 del 2003 ha dato attuazione, anche se con notevole ritardo, a due direttive comunitarie, n. 93/104/Ce e n. 2000/34/Ce in materia di organizzazione dell’orario di lavoro. In sede di emanazione del decreto si decise, per ragioni che non interessano nella sede odierna, di non intervenire sul regime sanzionatorio relativo alle violazioni in materia di orario di lavoro. Di tanto costituisce specchio evidente la previsione dell’art. 19, comma 2, del D. Lgs. N. 66 del 2003 che, nella sua versione originaria, prevedeva l’abrogazione, dalla data di entrata in vigore, di tutte le disposizioni legislative e regolamentari in materia, «salve le disposizioni espressamente richiamate e le disposizioni aventi carattere sanzionatorio»; il che prova che il legislatore delegato era ben consapevole della necessita` di mantenere in vita le sanzioni amministrative previgenti.

Un ulteriore e successivo intervento, rappresentato dal decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in materia di apparato sanzionatorio dell’orario di lavoro), avvalendosi dello strumento della delega correttiva – prevista, nel caso specifico,dall’art. 1, comma 4, della legge delega n. 39 del 2002 – aggiunse nel corpo del D. Lgs. N. 66 del 2003, oltre ad altre modifiche, anche il nuovo art. 18-bis, oggetto del presente giudizio.

La materia, peraltro, non ha trovato una propria stabile sistemazione con l’introduzione dell’art. 18-bis oggi censurato, perche´ successivamente il legislatore e` intervenuto piu` volte proprio su tale articolo, che e` stato oggetto di ulteriori modifiche contenute prima nell’art. 41 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita`, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133. Successivamente, nell’art. 7 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonche´ misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro).

Da ultimo, nell’art. 14, comma 1, lettera c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145 (Interventi urgenti di avvio del piano «Destinazione Italia», per il contenimento delle tariffe elettriche e del gas, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonche´ misure per la realizzazione di opere pubbliche ed Expo 2015), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n. 9.

E’ necessario precisare che, avendo il giudice a quo chiarito che le sanzioni amministrative inflitte nel giudizio davanti a lui pendente riguardano il periodo di tempo che va dall’ottobre 2007 al giugno 2008, lo scrutinio della Corte sara` limitato, in conformita` al principio della domanda, al testo originario dell’art. 18-bis, che e` quello cui si riferisce il Tribunale di Brescia, senza riguardare in alcun modo il testo risultante dalle modifiche successive di detta norma.

4. — Lo scrutinio della Corte, quindi, riguarda la prospettata violazione dei principi della legge delega derivante dalla previsione di

sanzioni amministrative piu` elevate rispetto a quelle di cui al sistema previgente; in particolare, la Corte e` chiamata a stabilire se le sanzioni introdotte dalla norma impugnata possano o meno considerarsi diverse – e, in questo caso, maggiori – rispetto «a quelle eventualmente gia` comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensivita`». La sussistenza del carattere della omogeneita` costituisce, evidentemente, un aspetto decisivo, perche´ il riconoscimento dell’eventuale non omogeneita` delle nuove sanzioni rispetto alle precedenti escluderebbe in radice la sussistenza di una violazione della legge delega; e proprio su questo punto, infatti, si e` concentrata la linea difensiva dell’Avvocatura dello Stato. Una volta verificata l’esistenza di tale elemento, si dovra` procedere al confronto delle sanzioni.

4. 1. — E` appena il caso di rammentare – trattandosi di una questione di legittimita` costituzionale prospettata esclusivamente in termini di violazione della delega legislativa – che costituisce giurisprudenza pacifica di questa Corte il principio secondo cui, ove sia necessario verificare la conformita` della norma delegata alla norma delegante, e` richiesto lo svolgimento di un duplice processo ermeneutico, condotto in parallelo: l’uno, concernente la norma che determina l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega; l’altro, relativo alla norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi. Nel determinare il contenuto della delega si deve tenere conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega e i relativi principi e criteri direttivi, nonche´ delle finalita` che la ispirano, che costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma anche gli strumenti per l’interpretazione della loro portata. Deve, altresı`, considerarsi che la delega legislativa non esclude ogni discrezionalita` del legislatore delegato; questa puo` essere piu` o meno ampia, in relazione al grado di specificita` dei criteri fissati nella legge delega. Pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali margini di discrezionalita`, occorre individuare la ratio della delega per verificare se la norma delegata sia stata con questa coerente (fra le altre, sentenze n. 272 del 2012 e n. 184 del 2013).

In riferimento, poi, ai cosiddetti decreti legislativi integrativi e correttivi, questa Corte, nel riconoscerne l’ammissibilita` da un punto di vista costituzionale, ha tuttavia precisato che cio` che conta e` «che si intervenga solo in funzione di correzione o integrazione delle norme delegate gia` emanate, e non gia` in funzione di un esercizio tardivo, per la prima volta, della delega «principale»; e che si rispettino pienamente i medesimi principi e criteri direttivi gia` imposti per l’esercizio della medesima delega «principale»» (sentenza n. 206 del 2001). Il che significa, nel caso di specie, che il medesimo criterio direttivo sopra richiamato, ancorche´ dettato per l’esercizio della delega principale, deve ovviamente valere anche in sede di emanazione del decreto integrativo e correttivo, ossia quello che contiene la norma oggi in esame.

5. — E` necessario, quindi, procedere al confronto, in relazione alle sanzioni amministrative in concreto erogate nel giudizio a quo, tra le previsioni dei censurati commi 3 e 4 dell’art. 18-bis del D. Lgs. N. 66 del 2003 e le sanzioni di cui al sistema precedente.

5. 1. — Come correttamente risulta dall’ordinanza di rimessione, il sistema sanzionatorio relativo alle violazioni in tema di orario di lavoro e di riposo domenicale e festivo era contenuto, fino all’entrata in vigore della norma oggi in esame, in una normativa molto risalente nel tempo, ossia il regio decreto-legge 15 marzo 1923, n. 692 (Limitazioni dell’orario di lavoro per gli operai ed impiegati delle aziende industriali o commerciali di qualunque natura), e la legge 22 febbraio 1934, n. 370 (Riposo domenicale e settimanale).

In particolare, gli artt. 1 e 5 del R. D. L. N. 692 del 1923 prevedevano una durata massima della normale giornata di lavoro pari ad otto ore al giorno per 48 ore settimanali di lavoro effettivo, con possibilita` di incremento, a titolo di lavoro straordinario, per non piu` di due ore al giorno per dodici ore settimanali. La relativa sanzione era contenuta nel successivo art. 9 il quale – nel testo risultante dalle modifiche di cui all’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758 (Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro) – prevedeva una sanzione amministrativa da lire cinquantamila a lire trecentomila (ossia da 25 a 155 euro), con incremento qualora essa si riferisse a piu` di cinque lavoratori ovvero si fosse verificata nel corso dell’anno solare per piu` di cinquanta giorni. In materia di riposo settimanale, l’art. 1 della legge n. 370 del 1934 prevedeva l’obbligo di un riposo di 24 ore consecutive per ogni settimana, di regola fissato per la domenica (art. 3); le relative sanzioni erano contenute nel successivo art. 27, secondo cui la contravvenzione a tale previsione era punita con la sanzione amministrativa da lire cinquantamila a lire trecentomila, suscettibile di aumento qualora la stessa fosse riferita a piu` di cinque lavoratori. Tali disposizioni, com’e` evidente, rispondevano ad una realta` economica e lavorativa assai piu` semplice di quella odierna, ma tuttavia dimostrano come fin da allora la legge fosse attenta a questo profilo, ritenendo che la violazione della disciplina in tema di orario di lavoro fosse un indice di sfruttamento dei lavoratori, da punire con il necessario rigore.

5. 2. — Rispetto a tale risalente normativa, il D. Lgs. N. 66 del 2003 introduce alcune significative modifiche.

Ai fini che interessano l’odierna questione, e` da porre in evidenza, ad esempio, che l’art. 3, nel prevedere un orario normale di 40 ore settimanali, consente ai contratti collettivi di stabilire una durata minore; l’art. 4, nell’attribuire ai contratti collettivi il potere di stabilire la durata massi ma settimanale dell’orario di lavoro, dispone che la durata media non possa superare, per ogni periodo di sette giorni, le 48 ore, comprese quelle dello straordinario; e il successivo comma 3 stabilisce che la durata media vada calcolata con riferimento ad un periodo non superiore a quattro mesi.

Quanto al lavoro straordinario, l’art. 5 del D. Lgs. N. 66 del 2003, pur rimandando ai contratti collettivi la regolamentazione delle relative prestazioni, fissa un massimo di 250 ore annuali. In relazione, infine, al riposo giornaliero e settimanale, l’art. 7 determina il riposo giornaliero in undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore, mentre l’art. 9 dispone che il lavoratore ha diritto ogni sette giorni a un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica.

Per cio` che riguarda, invece, il sistema delle sanzioni, il comma 3 dell’art. 18-bis oggi censurato stabilisce la sanzione amministrativa da 130 a 780 euro, per ogni lavoratore e per ciascun periodo di violazione, per le violazioni di cui agli artt. 4, commi 2, 3 e 4, e 10, comma 1, del decreto (fra i quali rientra la disciplina sull’orario di lavoro); mentre il comma 4 dell’art. 18-bis oggi censurato stabilisce la sanzione amministrativa da 105 a 630 euro per le violazioni di cui agli artt. 7, comma 1, e 9, comma 1, del medesimo decreto, ossia le norme che regolano il riposo giornaliero e settimanale.

6. — La questione e` fondata.

Dalla ricostruzione operata fin qui risulta in modo evidente che il sistema delineato dal D. Lgs. N. 66 del 2003, pur in parte diverso da quello passato, presenta una definizione dei limiti di lavoro e delle relative violazioni omogenea rispetto a quella precedente.

Il fatto, ad esempio, che gli artt. 1 e 5 del R. D. L. N. 692 del 1923 non contenessero una norma esplicita sulla durata dell’orario di lavoro settimanale, ma solo la previsione di un orario giornaliero normale e straordinario, dava conto anche, sia pure indirettamente, dell’orario settimanale; si puo` riconoscere che, prima dell’entrata in vigore dell’art. 7 del D. Lgs. N. 66 del 2003, non c’era una norma esplicita sul riposo giornaliero, ma e` altrettanto vero che lo stesso derivava (per sottrazione) dalla durata della giornata togliendo le ore massime di lavoro. Sembra innegabile, in altre parole, che, nonostante le indubbie diversita`, vi sia una sostanziale coincidenza nella logica di fondo che anima i due diversi sistemi: entrambi sanzionano l’eccesso di lavoro e lo sfruttamento del lavoratore che ne consegue, ponendo limiti all’orario di lavoro giornaliero e settimanale ed imponendo periodi di necessario riposo. Ed e` appena il caso di rilevare che, nel lungo tempo che separa la legislazione degli anni venti e trenta dello scorso secolo dall’intervento del legislatore del 2003, si colloca anche l’entrata in vigore della Costituzione, il cui art. 36 demanda alla legge ordinaria il compito di stabilire la durata massima della giornata lavorativa e riconosce al lavoratore il diritto al riposo settimanale ed alle ferie annuali retribuite.

Ai fini, quindi, del rispetto dei criteri fissati nella legge delega, deve affermarsi che le sanzioni amministrative previste dal R. D. L. N. 692 del 1923 e dalla legge n. 370 del 1934 corrispondono a violazioni da ritenere omogenee rispetto a quelle regolate dal D. Lgs. N. 66 del 2003 e che, pertanto, la normativa sanzionatoria oggi in esame era tenuta al rispetto della previsione della delega nel senso della necessaria identita` rispetto alle sanzioni precedenti; le quali, come si e` gia` detto, erano state ritoccate al rialzo dal D. Lgs. N. 758 del 1994.

Risulta in modo evidente, invece, proprio sulla base del confronto sopra compiuto, che le sanzioni amministrative di cui all’art. 18-bis del D. Lgs. N. 66 del 2003 sono piu` alte di quelle irrogate nel sistema precedente; e, trattandosi di un’operazione di puro confronto aritmetico, non sussistono dubbi interpretativi.

Ne discende la fondatezza della questione di legittimita` costituzionale, perche´ effettivamente sussiste la violazione del criterio direttivo contenuto nell’art. 2, comma 1, lettera c), della legge di delega n. 39 del 2002, sicche´ se ne impongono l’accoglimento e la conseguente declaratoria di illegittimita` costituzionale delle censurate disposizioni, per violazione dell’art. 76 Cost.

E` appena il caso di rilevare, d’altronde, che le conclusioni cui la Corte giunge trovano ulteriore conforto dalla consultazione degli atti parlamentari, dai quali si evince che il legislatore delegato ha riformato il sistema sanzionatorio nella erronea convinzione di poter intervenire liberamente per l’assenza di norme sanzionatorie precedenti (in particolare, la seduta del 28 aprile 2004 della undicesima Commissione della Camera dei deputati).

7. — Alla luce di quanto gia` osservato incidentalmente al precedente punto 3, l’accoglimento dell’odierna questione si limita al petitum richiesto e non esplica alcuna efficacia sulle successive modifiche legislative relative alla medesima disposizione oggi in esame.

P. Q. M. La Corte costituzionale dichiara l’illegittimita` costituzionale dell’art. 18-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/Ce e 2000/34/Ce concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), nel testo introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in materia di apparato sanzionatorio dell’orario di lavoro).

Nota

La sentenza va segnalata per la ricaduta dei suoi effetti, piu` che per l’interesse giuridico: infatti le decisioni che sanzionano un difetto di delega (di evidenza «solare», quale quello che la Corte rileva, come essa stessa osserva, «con un’operazione di puro confronto aritmetico») oltre a commentarsi da sole, lasciano anche aperta al legislatore la via di un reinserimento della norma nel sistema attraverso la legge ordinaria.

La sentenza in rassegna ricostruisce il previgente regime normativo dei poteri datoriali relativi all’orario di lavoro, lo pone a confronto con l’intervento di cui alla normativa delegata e conclude rilevando la sostanziale omogeneita` dei due sistemi, cronologicamente distanti, ma entrambi volti a sanzionare l’eccesso di lavoro e lo sfruttamento del lavoratore che ne consegue, attraverso limiti all’orario di lavoro giornaliero e settimanale e l’imposizione di periodi di necessario riposo (1). E` evidente che la chiave di volta del criterio direttivo di cui alla legge delega era proprio l’omogeneita` delle violazioni, di talche´, una volta verificata la sostanziale analogia di contenuto delle previsioni normative e quindi il continuum tra le stesse (significativa sul punto e` la notazione della parte privata per cui la disposizione dell’art. 9, comma 1, del decreto n. 66 in tema di riposo settimanale ha in sostanza riprodotto l’art. 1, comma 1, della legge n. 370/1934, tanto che le direzioni provinciali del lavoro avevano applicato sempre l’art. 27 della legge n. 370/1934 fino all’entrata in vigore del D. Lgs. N. 213/2004) ne conseguiva automaticamente l’obbligo per il legislatore delegato di assicurare la pari offensivita` delle sanzioni.

Del resto che il legislatore stesso fosse convinto di avere mano libera per l’assenza di un previgente (ed, invece, esistente) apparato normativo al quale rapportarsi, risulta dimostrato dallo specifico richiamo ai lavori parlamentari contenuto nella sentenza.

Nota: (1) In dottrina vedasi: P. Rausei, Le sanzioni in materia di orario di lavoro, in Dir. Prat. Lav. , 2003, 1646-1654; P. Rausei, Dinamiche ispettive e profili sanzionatori sui tempi di lavoro, in Dir. Prat. Lav. 2006, 1357-1376; M. G. Mattarolo, Modifiche alla disciplina dell’orario nel Collegato lavoro 2010, in Lav. Giur. , 2011, 1, 49-56.

Circolare INPS n.78, 17/06/2014

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Sgravio contributivo, sulle erogazioni previste dai contratti collettivi di secondo livello, disciplinato dalle leggi n. 92/2012 e n. 247/2007. Prime indicazioni per l’anno 2013. Criteri di ammissione al beneficio. L’apertura della procedura per l’invio delle domande sarà comunicata con separato messaggio.

Circolare INPS n. 78, 17/06/2014

OGGETTO: Decreto Interministeriale 14 febbraio 2014. Sgravio contributivo per l’incentivazione della contrattazione di secondo livello per l’anno 2013.

SOMMARIO: Sgravio contributivo, sulle erogazioni previste dai contratti collettivi di secondo livello, disciplinato dalle leggi n. 92/2012 e n. 247/2007. Prime indicazioni per l’anno 2013. Criteri di ammissione al beneficio. L’apertura della procedura per l’invio delle domande sarà comunicata con separato messaggio.

Premessa.

Con l’articolo 4, comma 28, della legge 28 giugno 2012, n. 92, il legislatore – a far tempo dal 2012 – ha apportato modifiche alla regolamentazione dello sgravio contributivo in favore della contrattazione di secondo livello, al fine di stabilizzare l’incentivo e razionalizzare il plafond a disposizione, attraverso una più puntuale allocazione delle risorse.  Va evidenziato che, con riferimento all’anno 2013, sulla materia sono – altresì -intervenuti la legge di stabilità 2013, il DL 31 agosto 2013, n. 102 e, più recentemente, il Decreto interministeriale 14 febbraio 2014.

In particolare:

l’articolo 1, c. 249 della legge n. 228/12, per finanziare il ripristino delle ricongiunzioni gratuite nei termini stabiliti dalla medesima norma, ha ridotto il budget originario (650 milioni di euro), di 43 milioni per il 2014 e per importi più consistenti negli anni futuri;

il DL 31 agosto 2013, n. 102, all’articolo 10, c. 2, modificando l’impianto normativo precedente, ha stabilito che le risorse del Fondo per incentivare la contrattazione di secondo livello decorrenti dall’anno 2014, come rideterminate ai sensi di quanto disposto dalla legge di stabilità 2013 (vedi sopra), si riferiscono allo sgravio contributivo da riconoscere con riferimento alle quote di retribuzione corrisposte nell’anno precedente. Inoltre, il medesimo comma ha previsto che, a decorrere dall’anno in corso, il decreto attuativo – utile a disciplinare il riconoscimento dei benefici contributivi relativi alle quote di retribuzione corrisposte nell’anno precedente – sia emanato entro il mese di febbraio;il Decreto interministeriale 14 febbraio 2014 (all. N. 1) ha dettato le regole per la pratica fruizione dell’incentivo.

Anche per il 2013 il beneficio può trovare applicazione in relazione a quanto previsto da contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti.

Con la presente circolare si forniscono le prime indicazioni sulla materia e sulle modalità che i datori di lavoro dovranno seguire per richiedere lo sgravio riferito agli importi corrisposti nell’anno 2013 (1 gennaio-31 dicembre).

1. Contenuto del provvedimento.

L’art. 1 del decreto ripartisce la dotazione finanziaria a disposizione per il finanziamento dello sgravio contributivo per l’incentivazione della contrattazione di secondo livello del 2013 (607 milioni di euro).  Dette risorse sono assegnante nella misura del 62,5 per cento alla contrattazione aziendale e del 37,5 per cento a quella territoriale. In caso di mancato utilizzo dell’intera percentuale attribuita a ciascuna delle predette tipologie contrattuali, il decreto stabilisce che la quota residua sia assegnata all’altra tipologia.

2. Oggetto del beneficio.

Per l’anno 2013, il DM stabilisce che lo sgravio contributivo sugli importi previsti dalla contrattazione collettiva aziendale, territoriale, ovvero di secondo livello (come in premessa chiarito), possa essere concesso entro il limite del 2,25% della retribuzione contrattuale annua di ciascun lavoratore.

Il provvedimento ministeriale prevede che – in relazione al monitoraggio delle domande e delle risorse finanziarie impegnate – il citato tetto del 2,25% possa essere rideterminato – in sede di conferenza dei servizi tra le Amministrazioni interessate indetta ai sensi dell’articolo 14 della legge n. 241 del 1990 e successive modificazioni e integrazioni – fermo restando il tetto massimo della retribuzione contrattuale, stabilito dal comma 67 dell’articolo 1 della legge n. 247/2007, nella misura del 5%.

3. Retribuzione contrattuale.

Per la determinazione del limite entro il quale è possibile fruire dello sgravio contributivo, assume rilevanza la retribuzione “contrattuale”.  A tale riguardo, si richiama quanto già precisato sul punto con riferimento agli anni precedenti.

4. Misura dello sgravio.

Nei limiti del tetto della retribuzione del lavoratore come sopra individuato, la norma prevede la concessione di uno sgravio contributivo così articolato:

– entro il limite massimo di 25 punti dell’aliquota a carico del datore di lavoro, al netto delle riduzioni contributive per assunzioni agevolate, delle eventuali misure compensative spettanti e – in agricoltura – al netto delle agevolazioni per territori montani e svantaggiati;

– totale sulla quota del lavoratore.

5. Condizioni di accesso.

Per accedere allo sgravio contributivo, i contratti collettivi aziendali e territoriali, ovvero di secondo livello devono presentare le seguenti caratteristiche:

– essere sottoscritti dai datori di lavoro e depositati (ove già non lo fossero stati), a cura dei medesimi o delle associazioni a cui aderiscono, presso le Direzioni territoriali del Lavoro, entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto interministeriale in oggetto;

– prevedere erogazioni correlate ad incrementi di produttività, qualità, redditività, innovazione ed efficienza organizzativa, oltre che collegate ai risultati riferiti all’andamento economico o agli utili della impresa o a ogni altro elemento rilevante ai fini del miglioramento della competitività aziendale.

Nel caso di contratti territoriali, qualora non risulti possibile la rilevazione di indicatori a livello aziendale, i criteri di erogazione da assumere saranno legati agli andamenti delle imprese del settore sul territorio.

Con riferimento alle imprese di somministrazione di lavoro di cui al D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, ai fini dell’accesso allo sgravio, dovrà farsi riferimento alla contrattazione di secondo livello sottoscritta dall’impresa utilizzatrice o dalle organizzazioni cui essa aderisce.

La fruizione dell’incentivo rimane, inoltre, subordinata al rispetto delle condizioni previste dall’articolo 1, comma 1175 della legge n. 296/2006 in materia di regolarità contributiva e di rispetto della parte economica degli accordi e contratti collettivi.

In caso di indebita fruizione del beneficio, i datori di lavoro – fatta salva l’eventuale responsabilità penale ove il fatto costituisca reato – sono tenuti al versamento dei contributi dovuti nonché al pagamento delle sanzioni civili previste dalle vigenti disposizioni.

6. Esclusioni.

Come può evincersi dall’impianto legislativo, per l’accesso al beneficio rimane vincolante il deposito – presso la Direzione territoriale del lavoro competente – degli accordi sottoscritti dai datori di lavoro.  Ne consegue che, in assenza, non sarà possibile l’ammissione allo sgravio contributivo.

Sono, altresì, escluse dal beneficio in trattazione le pubbliche amministrazioni di cui al D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, con riferimento ai dipendenti pubblici per i quali la contrattazione collettiva nazionale è demandata all’ARAN.

Lo sgravio, inoltre, non compete per le aziende che hanno corrisposto ai dipendenti – nell’anno solare di riferimento – trattamenti economici e normativi non conformi a quanto previsto dall’articolo 1, comma 1, del decreto legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389.

7. Modalità di richiesta dello sgravio.

Le modalità di accesso al beneficio sono indicate nell’art. 3 del decreto.

Le aziende – anche per il tramite degli intermediari autorizzati – dovranno inoltrare, esclusivamente in via telematica, apposita domanda all’INPS, anche per i lavoratori iscritti all’INPGI, nonché, ovviamente, per quelli iscritti alla gestioni ex INPDAP ed ex ENPALS.

La domanda deve contenere:

i dati identificativi dell’azienda (per le aziende agricole la matricola è rappresentata dal codice azienda);

la tipologia di contratto (aziendale o territoriale) e data di sottoscrizione dello stesso;

la data di avvenuto deposito del contratto di cui alla lett. B) presso la Direzione Territoriale del Lavoro competente;

l’indicazione dell’Ente previdenziale al quale sono versati i contributi pensionistici;

ogni altra indicazione che potrà essere richiesta dall’Istituto.

La procedura provvederà ad assegnare a tutte le istanze inviate un numero di protocollo informatico.

In previsione del rilascio sul sito internet dell’Istituto www. Inps. It della procedura per l’invio delle domande di sgravio – sia con acquisizione on-line delle singole domande, che tramite flussi contenenti molteplici istanze- con apposito messaggio verrà portata a conoscenza la documentazione a supporto della composizione dei flussi XML e saranno rese note giorno e ora a partire da cui sarà possibile la trasmissione telematica delle istanze, che terrà conto delle previsioni di cui all’articolo 3 del Decreto interministeriale 14 febbraio 2014, in termini di semplificazione della compilazione delle domande di accesso. A tal fine, la procedura renderà possibile l’utilizzo dei dati già presenti nei flussi UniEmens.

8. Ammissione allo sgravio.

Il Decreto interministeriale, nello stabilire che l’ammissione al beneficio riguarderà tutte le domande trasmesse entro il periodo indicato dall’Istituto, affida allo stesso la definizione delle relative modalità.

A tal fine si precisa che, entro i 60 giorni successivi alla data fissata quale termine unico per l’invio delle istanze, si provvederà all’ammissione delle aziende allo sgravio contributivo, dandone tempestiva comunicazione alle stesse e agli intermediari autorizzati.

Nell’ipotesi in cui le risorse disponibili non consentissero la concessione dello sgravio nelle misure indicate nelle richieste aziendali, ferma restando l’ammissione di tutte le domande trasmesse nei termini, l’Istituto provvederà alla riduzione degli importi in percentuale pari al rapporto tra la quota globalmente eccedente e il tetto di spesa annualmente stabilito, fermo restando quanto affermato al punto 1.

Tale eventuale ridefinizione delle somme sarà comunicata ai richiedenti in sede di ammissione all’incentivo.

Come già precisato, la concreta fruizione del beneficio resta, inoltre, subordinata alla verifica, da parte dell’Istituto, del possesso dei requisiti di regolarità contributiva che saranno accertati secondo la prassi nota.

9. Soggetti abilitati alla trasmissione delle domande di ammissione allo sgravio contrattuale di secondo livello.

La trasmissione telematica delle domande di ammissione allo sgravio contrattuale di secondo livello è consentita alle categorie indicate nella circolare n. 28/2011 e nei messaggi successivi, cui, quindi, si rimanda anche con riferimento alle modalità di accesso al servizio on-line.

MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI DECRETO 14 febbraio 2014 (GU n. 123 del 29-5-2014) Determinazione, per l’anno 2014, della misura massima percentuale della retribuzione di secondo livello oggetto dello sgravio contributivo previsto dall’articolo 1, commi 67 e 68, della legge n. 247/2007. IL MINISTRO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI di concerto con IL MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE Visto l’art. 1, comma 67, secondo periodo, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, che istituisce, nello stato di previsione del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, un Fondo per il finanziamento di sgravi contributivi per incentivare la contrattazione di secondo livello, con dotazione finanziaria pari a 650 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008-2010; Visto il terzo periodo del predetto comma 67, come modificato dall’art. 4, comma 28, della legge 28 giugno 2012 n. 92, che prevede la concessione, nel limite delle risorse del predetto Fondo, a domanda delle imprese, di uno sgravio contributivo, nella misura e secondo la ripartizione di cui alle lettere a), b) e c) del medesimo comma 67, relativo alla quota di retribuzione imponibile di cui all’art. 12, terzo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153, costituita dalle erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali e territoriali, ovvero di secondo livello, delle quali siano incerti la corresponsione o l’ammontare e la cui struttura sia correlata dal contratto collettivo medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità e altri elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento economico dell’impresa e dei suoi risultati; Visto il comma 68 del citato art. 1 della legge n. 247 del 2007, che demanda ad un decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, le modalità di attuazione del precedente comma 67 anche con riferimento all’individuazione dei criteri sulla base dei quali debba essere concessa, nel rigoroso rispetto dei limiti finanziari previsti, l’ammissione al predetto beneficio contributivo, e con particolare riguardo al monitoraggio dell’attuazione, al controllo del flusso di erogazioni e al rispetto dei tetti di spesa; Visto l’art. 22, comma 6, della legge 12 novembre 2011, n. 183, il quale prevede, tra l’altro, che, al fine di armonizzare il quadro normativo in tema di incentivi contributivi alla contrattazione aziendale e in tema di sostegno alla contrattazione collettività di prossimità, lo sgravio contributivo è riconosciuto in relazione a quanto previsto da contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti; Visto l’art. 4, comma 28, della citata legge 28 giugno 2012 n. 92, il quale nel modificare il secondo, il terzo ed il quarto periodo del citato art. 1, comma 68, della legge n. 247 del 2007, prevede che, a decorrere dall’anno 2012, lo sgravio dei Allegato n. 1 contributi dovuti dal lavoratore e dal datore di lavoro è concesso a valere sulle risorse, pari a 650 milioni di euro annui, già presenti nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, relative al Fondo per il finanziamento di sgravi contributivi per incentivare la contrattazione di secondo livello; Visti l’art. 15 della legge 12 novembre 2011, n. 183 e la Direttiva n. 14/2011 del Ministro della pubblica amministrazione e della semplificazione; Visto il «Protocollo su previdenza, lavoro e competitività per l’equità e la crescita sostenibili» del 23 luglio 2007 che, nella parte relativa all’incentivazione della contrattazione di secondo livello, indica criteri di ripartizione delle risorse finanziarie tra contrattazione aziendale e contrattazione territoriale; Visti i decreti ministeriali 7 maggio 2008, 17 dicembre 2009, 3 agosto 2011 e 24 gennaio 2012 e 27 dicembre 2012 che hanno disciplinato, rispettivamente, la concessione dello sgravio con riferimento agli anni 2008, 2009, 2010, 2011 e 2012; Visto l’accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali, sottoscritto presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 22 gennaio 2009, che, al punto 9, prevede che vengano incrementate, rese strutturali, certe e facilmente accessibili, tutte le misure volte ad incentivare, in termini di riduzione di tasse e contributi, la contrattazione di secondo livello; Considerata l’opportunità di avvalersi dei criteri appena citati; Ravvisata l’esigenza che, ai fini dell’ammissione al beneficio contributivo di cui all’art. 1, comma 67, della menzionata legge n. 247 del 2007, come modificato dall’art. 4, comma 28, della citata legge n. 92 del 2012, i contratti territoriali debbano determinare criteri di misurazione e valutazione economica della produttività, della qualità, della redditività, dell’innovazione e dell’efficienza organizzativa, sulla base di indicatori assunti a livello territoriale con riferimento alla specificità di tutte le imprese del settore; Considerato che, fermi restando i vigenti criteri assunti dai contratti aziendali o territoriali come indicatori dell’andamento economico delle imprese e dei suoi risultati, occorre pervenire all’elaborazione di nuovi omogenei criteri di riferimento in materia riconducibili, nella sostanza, agli obiettivi definiti nel menzionato protocollo del 23 luglio 2007; Visti l’art. 1, commi 249 e 254, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, l’art. 4, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 maggio 2013, n. 54, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2013, n. 85, la lettera c), l’art. 15, comma 3, del decreto-legge 31 agosto 2013, 102, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 ottobre 2013, n. 124, per effetto dei quali, per l’anno di competenza 2013, lo stanziamento in misura pari a 650 milioni di euro è stato interamente destinato ad altre finalità; Visto il citato art. 1, comma 249, della legge n. 228 del 2012, che, per l’anno 2014, ha ridotto di 43 milioni di euro il Fondo di cui all’art. 1, comma 68, della menzionata legge n. 247 del 2007; Visto l’art. 10, comma 2, del citato decreto-legge n. 102 del 2013, il quale prevede che, a decorrere dall’anno 2014, lo sgravio contributivo sulla contrattazione di secondo livello si applica con riferimento alle quote di retribuzione corrisposte nell’anno precedente; Vista la nota dell’INPS n. 1334/2014 con la quale l’Istituto, sulla base dei dati contabili in suo possesso, ha comunicato che, relativamente all’anno 2012, le risorse finanziarie destinate allo sgravio in questione si sono rivelate congrue; Visto l’art. 27 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1955, n. 797, che individua i redditi da lavoro dipendente soggetti a contribuzione previdenziale ed assistenziale; Visto l’art. 1 del decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, che individua la retribuzione minima da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale; Visto l’art. 1, comma 1175, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, che subordina la concessione dei benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale al possesso, da parte del datore di lavoro, del documento unico di regolarità contributiva, fermi restando gli altri obblighi di legge ed il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonchè di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; Visto il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni; Decreta Art. 1 Ripartizione del finanziamento degli sgravi contributivi 1. Le risorse per il finanziamento degli sgravi contributivi per incentivare la contrattazione di secondo livello, di cui all’art. 1, comma 68, della legge 24 dicembre 2007, n. 247, come rideterminate dall’art. 10, comma 2, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 ottobre 2013, n. 124, sono ripartite nella misura del 62,5 per cento per la contrattazione aziendale e del 37,5 per cento per la contrattazione territoriale. Fermo restando il limite complessivo annuo di 607 milioni di euro, in caso di mancato utilizzo dell’intera percentuale attribuita a ciascuna delle predette tipologie di contrattazione la percentuale residua è attribuita all’altra tipologia. Art. 2 Ambito di applicazione 1. Con riferimento alle somme corrisposte nell’anno 2013, sulla retribuzione imponibile di cui all’art. 27 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1955, n. 797, e successive modificazioni, è concesso, con effetto dal 1° gennaio 2014, ai datori di lavoro, nel rispetto dei limiti finanziari annui previsti a carico del Fondo di cui all’art. 1 e secondo la procedura di cui agli articoli 3 e 4, uno sgravio contributivo sulla quota costituita dalle erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali e territoriali, ovvero di secondo livello, nella misura del 2,25 per cento della retribuzione contrattuale percepita e conformemente a quanto previsto dalla ripartizione di cui all’art. 1, comma67, lettere b) e c), della legge 24 dicembre 2007, n. 247. 2. Entro il 30 ottobre dell’anno 2014, sulla base dei risultati del monitoraggio effettuato dall’INPS, con apposita conferenza dei servizi tra le amministrazioni interessate, indetta ai sensi dell’art. 14 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modifiche ed integrazioni, può essere rideterminata, per l’anno 2014, la misura del limite massimo della retribuzione contrattuale percepita di cui al comma 1, fermo restando quanto stabilito dall’art. 1, comma 67, della legge 24 dicembre 2007, n. 247. 3. Ai fini della fruizione dello sgravio contributivo di cui al comma 1, i contratti collettivi aziendali o territoriali, ovvero di secondo livello, devono:

a) essere sottoscritti dai datori di lavoro e depositati, qualora il deposito non sia già avvenuto, a cura dei medesimi datori di lavoro o dalle associazioni a cui aderiscono, presso la Direzione provinciale del lavoro entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto; b) prevedere erogazioni correlate ad incrementi di produttività, qualità, redditività, innovazione ed efficienza organizzativa, oltre che collegate ai risultati riferiti all’andamento economico o agli utili della impresa o a ogni altro elemento rilevante ai fini del miglioramento della competitività aziendale. 4. Nel caso di contratti territoriali, qualora non risulti possibile la rilevazione di indicatori a livello aziendale, sono ammessi i criteri di erogazione legati agli andamenti delle imprese del settore sul territorio. 5. Lo sgravio contributivo di cui al comma 1 non è concesso quando risulti che ai dipendenti siano stati attribuiti, nell’anno solare di riferimento, trattamenti economici e normativi non conformi a quanto previsto dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389. 6. La concessione dello sgravio contributivo di cui al comma 1 è subordinata al rispetto delle condizioni di cui all’art. 1, comma 1175, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. 7. I datori di lavoro che hanno indebitamente beneficiato dello sgravio contributivo di cui al comma 1 sono tenuti al versamento dei contributi dovuti nonché al pagamento delle sanzioni civili previste dalle vigenti disposizioni di legge in materia. Resta salva l’eventuale responsabilità penale ove il fatto costituisca reato. 8. Sono escluse dall’applicazione dello sgravio di cui al comma 1 le pubbliche amministrazioni di cui al decreto legislativo 30 marzo2001, n. 165, e successive modificazioni, rappresentate negozialmente dall’ARAN in sede di contrattazione collettiva relativa ai comparti del pubblico impiego. 9. Per le imprese di somministrazione lavoro di cui al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, si fa riferimento, ai fini del beneficio dello sgravio di cui al comma 1, alla contrattazione di secondo livello sottoscritta dall’impresa utilizzatrice o dalle organizzazioni cui essa aderisce. Art. 3 Procedure 1. Ai fini dell’ammissione allo sgravio di cui all’art. 2, comma 1, i datori di lavoro, anche per il tramite dei soggetti di cui all’art. 1, commi 1 e 4, della legge 11 gennaio 1979, n. 12, inoltrano, a decorrere dalla data di pubblicazione del presente decreto ed esclusivamente in via telematica, apposita domanda all’INPS, anche con riferimento ai lavoratori iscritti ad altri enti previdenziali, secondo le indicazioni fornite dall’Istituto medesimo. 2. La domanda di cui al comma 1 deve contenere: a) i dati identificativi dell’azienda; b) la data di sottoscrizione del contratto aziendale, territoriale, ovvero di secondo livello; c) la data di avvenuto deposito del contratto di cui alla lettera b) presso la competente Direzione territoriale del lavoro; d) l’indicazione dell’Ente previdenziale al quale sono versati i contributi pensionistici; e) ogni altra indicazione che potrà essere richiesta dall’Istituto di Previdenza. 3. Ai fini della determinazione del limite massimo di cui all’art. 2, comma 1, la retribuzione contrattuale da prendere a riferimento è quella disciplinata dall’art. 1, comma 1, della legge n. 389 del 1989, comprensiva delle erogazioni di cui all’art. 2, comma 1, del presente decreto, con riferimento alle componenti imponibili di cui all’art. 27 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1955, n. 797, e successive modificazioni. Art. 4 Modalità di ammissione 1. L’ammissione allo sgravio di cui all’art. 2, comma 1, avviene a decorrere dal sessantesimo giorno successivo a quello fissato dall’INPS quale termine unico per la trasmissione delle istanze. 2. A tal fine, l’Istituto attribuisce a ciascuna domanda un numero di protocollo informatico. 3. Ai fini del rispetto del limite di spesa di cui all’art. 1, l’INPS, ferma restando l’ammissione di tutte le domande trasmesse, provvede all’eventuale riduzione delle somme richieste da ciascuna azienda e lavoratore, in misura percentuale pari al rapporto tra la quota complessiva eccedente il predetto limite di spesa e il limite di spesa medesimo, dandone tempestiva comunicazione ai richiedenti. L’INPS provvede altresì a comunicare le risultanze della procedura di cui al presente articolo al Ministero del lavoro e delle politiche sociali ed al Ministero dell’economia e delle finanze. Art. 5 Norme finali 1. Agli oneri derivanti dall’applicazione del presente decreto si provvede a valere sul capitolo 4330 dello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali Centro di responsabilità 08 «Politiche Previdenziali» per un ammontare pari a 607 milioni di euro. Il presente decreto è inviato alla Corte dei conti per la registrazione e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Roma, 14 febbraio 2014 Ufficio di controllo sugli atti del MIUR, MIBAC, Min. Salute e Min. Lavoro, foglio n. 1407

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