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lunedì 7 Aprile 2025
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CCNL CONFAPI 2025 per Dirigenti e Quadri: Aumenti, tutele, welfare e vantaggi per le PMI

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Il nuovo contratto collettivo nazionale per i Dirigenti e i Quadri Superiori delle Piccole e Medie Imprese aderenti a CONFAPI, siglato da CONFAPI e Federmanager, segna una svolta importante per la categoria. Dopo una lunga attesa, il rinnovo introduce aumenti retributivi significativi, una rivisitazione delle indennità di trasferta, oltre a novità su welfare aziendale, formazione professionale e strumenti di conciliazione vita-lavoro. Il nuovo CCNL ha decorrenza dal 1° gennaio 2024 al 31 dicembre 2027, e si presenta come uno strumento moderno, orientato alle esigenze del mercato del lavoro contemporaneo e alla valorizzazione del capitale umano all’interno delle PMI.

Il rinnovo non è solo una questione di numeri. Tocca temi centrali come la flessibilità, la sostenibilità dei rapporti di lavoro, la tutela dei lavoratori più anziani, e l’importanza crescente della formazione continua. Inoltre, risponde a sfide come il ricambio generazionale, la parità di genere e l’integrazione tra esigenze aziendali e benessere personale dei dirigenti.

Questo articolo ti guiderà, punto per punto, alla scoperta di tutte le novità più importanti contenute nel nuovo CCNL, spiegandoti cosa cambia concretamente per dirigenti e aziende, e come sfruttare al meglio le opportunità offerte dal nuovo contratto.

Il nuovo CCNL 2025-2027

Il 25 marzo 2025, Confapi e Federmanager hanno siglato un accordo strategico per il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del 17 dicembre 2019, che interessa i dirigenti e i quadri superiori delle piccole e medie imprese (PMI) operanti nella produzione di beni e servizi. Si tratta di un rinnovo atteso da tempo, che arriva in un momento cruciale per il mercato del lavoro italiano, attraversato da forti trasformazioni in termini di digitalizzazione, flessibilità operativa e nuove esigenze di work-life balance.

Il nuovo CCNL avrà validità dal 1° gennaio 2025 al 31 dicembre 2027, e rappresenta molto più di una semplice revisione delle condizioni economiche: è una vera e propria riforma contrattuale. L’accordo punta a fornire un quadro normativo aggiornato, che valorizzi il ruolo strategico di dirigenti e quadri superiori all’interno del tessuto produttivo delle PMI italiane, garantendo loro maggiori tutele, ma anche strumenti moderni di sviluppo professionale.

L’obiettivo condiviso dalle parti è quello di mantenere un equilibrio tra le esigenze delle imprese e i diritti dei lavoratori, rafforzando la competitività del sistema produttivo italiano attraverso un contratto che mette al centro la centralità del capitale umano, la sostenibilità dei rapporti di lavoro e la previdenza complementare.

Cosa cambia

Uno dei pilastri fondamentali del nuovo CCNL CONFAPI-Federmanager 2025-2027 è senza dubbio la revisione della parte economica, con aumenti retributivi strutturali e l’adeguamento dei minimi contrattuali mensili per dirigenti e quadri superiori. Questi interventi rispondono alla necessità di aggiornare le retribuzioni al costo della vita e rendere più attrattive le condizioni offerte dalle PMI nei confronti delle figure professionali apicali.

Per quanto riguarda i dirigenti, viene modificato l’articolo 3 del contratto, introducendo minimi retributivi differenziati in base all’età e alla condizione di assunzione. In particolare, per i dirigenti under 43, assunti o promossi durante la vigenza del contratto, il minimo mensile applicabile nei primi tre anni viene ridefinito in funzione della loro esperienza e della situazione lavorativa pregressa. Una misura analoga si applica anche ai dirigenti disoccupati o inoccupati da oltre 6 mesi, con l’obiettivo di favorirne il reinserimento professionale.

Per i quadri superiori, il nuovo minimo contrattuale mensile tiene conto della stessa logica di sostegno all’occupabilità, soprattutto in caso di disoccupazione prolungata. A compensazione del mancato rinnovo nel 2024, è stato inoltre previsto un importo una tantum, pari a 3.000 euro lordi per i dirigenti e 2.000 euro per i quadri superiori, da erogarsi in due tranche, subordinatamente alla presenza in forza al 25 marzo 2025 e al rispetto di requisiti minimi di anzianità e retribuzione annua lorda.

Anche le indennità di trasferta vengono aggiornate: l’importo fisso per le spese non documentabili sale a 100 euro, mentre per i quadri in trasferta tra 12 ore e 2 settimane è previsto un bonus aggiuntivo di 65 euro, a riconoscimento dell’impegno extra richiesto dalle missioni di medio termine.

Welfare, formazione e conciliazione

Il rinnovo del CCNL CONFAPI per Dirigenti e Quadri Superiori segna un passo avanti anche sul fronte del welfare contrattuale, della formazione continua e delle politiche di conciliazione vita-lavoro. In linea con le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro, il nuovo contratto collettivo non si limita a stabilire compensi e indennità, ma introduce strumenti di supporto al benessere personale e professionale delle figure apicali delle PMI.

Tra le principali novità, l’accordo potenzia il sistema di welfare integrativo, facendo leva su strumenti già consolidati come Previndapi, il fondo pensione dedicato ai dirigenti delle PMI, e Fasi, il fondo sanitario integrativo. Viene ribadita la centralità di questi strumenti, con l’intento di incentivare le imprese ad aderire e contribuire in modo più efficace al benessere previdenziale e sanitario dei propri dirigenti e quadri.

In parallelo, cresce l’attenzione verso la formazione manageriale e tecnica, elemento chiave per affrontare le sfide della transizione digitale ed ecologica. L’accordo richiama esplicitamente il ruolo di Fondirigenti, il fondo interprofessionale per la formazione continua dei dirigenti, promuovendone l’utilizzo da parte delle PMI aderenti a Confapi per migliorare le competenze e favorire la crescita interna.

Infine, si rafforza l’attenzione alla qualità della vita lavorativa, con incentivi alla flessibilità oraria, al lavoro agile e alla gestione equilibrata dei carichi di lavoro, specie in contesti ad alta responsabilità. In quest’ottica, il rinnovo si pone anche come uno strumento di attrazione e fidelizzazione dei talenti, in un mercato dove la retention dei profili manageriali è sempre più strategica.

Trattamento economico

Il rinnovo del CCNL CONFAPI per dirigenti e quadri superiori introduce una nuova struttura retributiva basata su minimi contrattuali aggiornati e differenziati in base a età, condizione occupazionale e decorrenza temporale. La revisione tiene conto sia della necessità di adeguare le retribuzioni al costo della vita, sia della volontà di rendere più flessibile l’inserimento di nuove figure manageriali nelle PMI.

Ecco una sintesi dei nuovi minimi contrattuali mensili applicabili dal 2025:

Questa struttura retributiva permette alle PMI di avere una maggiore flessibilità nell’assunzione di dirigenti e quadri, in particolare giovani o con periodi di inattività alle spalle, incentivando allo stesso tempo il ricambio generazionale e il reinserimento lavorativo. Gli aggiornamenti previsti tra 2025 e 2026 dimostrano anche l’intenzione di garantire progressività nella crescita salariale, offrendo stabilità e prospettive di carriera più chiare.

Tutele per malattia, famiglia e previdenza

Oltre agli aumenti economici, il nuovo CCNL CONFAPI-Federmanager introduce importanti garanzie sul piano delle tutele contrattuali e della protezione sociale. In un contesto sempre più attento al benessere complessivo del lavoratore, il contratto si distingue per un approccio umano e inclusivo, con misure che vanno dalla malattia al congedo parentale, fino alla previdenza complementare.

Per quanto riguarda le assenze per malattia, viene fissato un periodo di comporto di 12 mesi, durante i quali il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto. Tale periodo viene elevato a 18 mesi in presenza di patologie oncologiche, riconoscendo la particolare gravità e durata dei percorsi di cura.

In materia di congedo parentale, l’accordo stabilisce una novità molto rilevante: l’integrazione al 100% della retribuzione per il primo mese di congedo parentale indennizzato dall’INPS all’80%. Un segnale forte verso la promozione della genitorialità responsabile e della parità di genere in ambito aziendale. Anche il congedo matrimoniale viene regolamentato: spettano 15 giorni retribuiti, da concordare con l’azienda.

Sul piano della mobilità, si rafforza la tutela per i dirigenti più anziani o con figli disabili: non è possibile disporre trasferimenti nei confronti di dirigenti over 55 o con figli con disabilità riconosciuta. Inoltre, per i dirigenti tra 54 e 63 anni, l’indennità supplementare viene aumentata automaticamente di 3 mesi di preavviso, a tutela della stabilità occupazionale in una fascia d’età delicata.

Infine, sul fronte della previdenza complementare, viene confermata la contribuzione aziendale a Previndapi, pari al 5% della retribuzione globale lorda, fino a un massimo di 190.000 euro annui. Una misura che rafforza la sicurezza previdenziale e il valore del pacchetto retributivo complessivo per dirigenti e quadri.

Previdenza, sanità e formazione

Il rinnovo del CCNL CONFAPI 2025-2027 valorizza in modo concreto i tre pilastri del welfare contrattuale destinato a dirigenti e quadri superiori: Previndapi, Fasi e Fondirigenti. Questi strumenti non sono opzionali, ma costituiscono parte integrante del contratto, con obblighi e vantaggi sia per i lavoratori che per le aziende.

Previndapi è il fondo pensione integrativo dedicato ai dirigenti delle PMI. L’accordo conferma la contribuzione a carico dell’azienda pari al 5% della retribuzione globale annua lorda, fino a un massimo di 190.000 euro. Questo strumento consente ai dirigenti di costruire un secondo pilastro previdenziale, fondamentale per compensare il gap pensionistico generato dalle riforme degli ultimi anni. Per l’impresa, inoltre, si tratta di un costo deducibile fiscalmente, che migliora anche l’immagine aziendale nei confronti del personale dirigente.

Fasi è il fondo di assistenza sanitaria integrativa. Offre rimborsi e coperture per spese sanitarie che il Servizio Sanitario Nazionale non copre o rimborsa solo parzialmente. È obbligatorio per le aziende che applicano il CCNL e rappresenta un elemento chiave nella retention dei profili manageriali, sempre più attenti a benefit non monetari legati al benessere personale.

Fondirigenti, infine, è il fondo interprofessionale per la formazione continua dei dirigenti. Le aziende possono accedere a piani formativi finanziati per aggiornare le competenze manageriali, digitali e trasversali dei propri leader. È un’opportunità concreta per migliorare la produttività e l’innovazione interna, con costi praticamente azzerati grazie al finanziamento del fondo.

Questi tre strumenti, integrati nel nuovo CCNL, non solo migliorano la vita lavorativa del dirigente, ma rappresentano un vero vantaggio competitivo per le PMI che vogliono crescere in modo sostenibile.

Vantaggi fiscali

Applicare correttamente il CCNL CONFAPI 2025-2027 non è solo un dovere contrattuale, ma rappresenta anche un’opportunità concreta di risparmio fiscale e ottimizzazione dei costi del lavoro per le PMI. Il nuovo contratto, infatti, è stato costruito tenendo conto delle esigenze economiche delle imprese, introducendo misure che, se ben gestite, possono generare ritorni immediati e benefici a medio-lungo termine.

In primo luogo, le contribuzioni a Previndapi e Fasi, essendo obbligatorie e riconosciute a livello normativo, sono integralmente deducibili dal reddito d’impresa ai fini IRES e IRAP. Questo significa che le aziende che rispettano gli obblighi contrattuali e iscrivono correttamente i dirigenti ai fondi di previdenza e assistenza possono abbattere il carico fiscale senza incidere negativamente sul costo reale del lavoro.

Anche le erogazioni legate al welfare aziendale (come buoni pasto, rimborso spese sanitarie, servizi di conciliazione vita-lavoro o corsi di formazione) godono di regimi fiscali agevolati, se effettuate nel rispetto del quadro normativo vigente (art. 51 del TUIR). Questo consente alle PMI di remunerare in modo più efficiente i propri dirigenti, migliorando il clima aziendale senza aumentare il cuneo fiscale.

Infine, le spese sostenute per la formazione manageriale finanziata tramite Fondirigenti non solo sono deducibili, ma possono essere integralmente rimborsate se correttamente pianificate e rendicontate. Un’opportunità spesso sottovalutata che consente alle PMI di accedere a percorsi di upskilling e reskilling senza pesare sul budget aziendale.

In conclusione, il nuovo CCNL CONFAPI non è solo un contratto, ma uno strumento di politica fiscale e gestionale, capace di offrire alle imprese efficienza, legalità e competitività in un mercato del lavoro in continua trasformazione.

Considerazioni finali

Il rinnovo del CCNL CONFAPI per dirigenti e quadri superiori delle PMI rappresenta molto più di un semplice aggiornamento salariale. È un cambio di passo strategico, che tiene conto delle sfide del mercato del lavoro contemporaneo: flessibilità, sostenibilità, benessere e attrattività dei ruoli apicali. Le novità introdotte rafforzano la capacità delle piccole e medie imprese di competere nella ricerca e nella fidelizzazione dei talenti, offrendo condizioni contrattuali finalmente più moderne e allineate ai valori europei di qualità del lavoro.

Per le imprese, questo rinnovo consente di:

  • Gestire meglio i costi del personale grazie a minimi differenziati per età e condizione occupazionale;

  • Accedere a forme di assunzione agevolate per giovani dirigenti o professionisti temporaneamente inoccupati;

  • Aumentare l’attrattività aziendale, grazie a misure di welfare avanzato, congedi più inclusivi e previdenza complementare potenziata;

  • Evitare contenziosi e sanzioni, grazie alla chiarezza e alla maggiore tutela offerta dai nuovi istituti contrattuali.

Per i lavoratori, invece, il contratto assicura:

  • Maggiori garanzie e tutele familiari (malattia, congedi, mobilità);

  • Aumenti retributivi progressivi e certi, anche per chi si trova in situazioni di reinserimento lavorativo;

  • Valorizzazione della professionalità, con accesso a percorsi formativi e crescita interna.

In sintesi, questo rinnovo è un vero patto di modernizzazione tra impresa e capitale umano, capace di rafforzare la competitività delle PMI italiane, offrendo allo stesso tempo stabilità, sicurezza e prospettiva ai dirigenti e quadri superiori. Un’occasione concreta per crescere insieme, nel rispetto reciproco e con una visione sostenibile del lavoro.

Asili aziendali: parte il progetto “Cresciamo il futuro”

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Negli ultimi anni, la conciliazione tra vita lavorativa e familiare è diventata un tema centrale nel dibattito pubblico e aziendale. Le imprese più innovative lo sanno bene: offrire servizi come gli asili nido aziendali non è solo una misura di welfare, ma un vero e proprio investimento in capitale umano. Il Ministero della Famiglia ha deciso di sostenere attivamente queste iniziative attraverso il nuovo protocollo “Cresciamo il futuro”, una collaborazione concreta tra pubblico e privato per favorire la nascita e la gestione di asili aziendali e privati, con una serie di incentivi economici e fiscali che potrebbero rivoluzionare il panorama dei servizi per l’infanzia in Italia.

Ma quali sono i vantaggi per le imprese? Come possono i datori di lavoro beneficiare di queste agevolazioni? E perché questo progetto potrebbe rappresentare una svolta anche in termini di produttività e fidelizzazione dei dipendenti? Lo scopriamo in questo approfondimento dedicato, dove analizziamo il contenuto del protocollo, i benefici fiscali e le opportunità che si aprono per imprese e lavoratori.

Cresciamo il futuro

Il progetto “Cresciamo il futuro” nasce dalla volontà congiunta del Ministero per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità e delle imprese italiane di promuovere soluzioni strutturali a sostegno dei genitori lavoratori. Il protocollo d’intesa, firmato ufficialmente nel marzo 2024, punta a favorire l’apertura e la gestione di asili nido aziendali e privati in collaborazione con le aziende, con l’obiettivo di incrementare i servizi per l’infanzia e migliorare l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Questo intervento si inserisce in un contesto più ampio di riforme mirate al rilancio della natalità e al potenziamento del welfare aziendale.

Le aziende che partecipano al progetto potranno beneficiare di un accompagnamento tecnico e consulenziale da parte del Ministero e degli enti partner, che supporteranno le imprese nella fase di progettazione, realizzazione e gestione degli asili nido. Ma non solo: sono previste anche agevolazioni fiscali, semplificazioni normative e contributi economici a fondo perduto o a tasso agevolato, per incentivare gli investimenti in queste strutture. Secondo quanto dichiarato dalla Ministra Eugenia Roccella, il protocollo si propone di superare la logica dei bonus una tantum, puntando su interventi stabili e duraturi nel tempo.

Un altro aspetto fondamentale del piano riguarda il coinvolgimento del Terzo Settore e delle associazioni imprenditoriali, che avranno un ruolo attivo nel promuovere la cultura del welfare aziendale, anche attraverso campagne di sensibilizzazione e condivisione di buone pratiche. L’obiettivo è creare un ecosistema virtuoso in cui il benessere dei dipendenti diventa un vantaggio competitivo per le aziende stesse.

Alleanza pubblico-privata

l 3 aprile 2025 è stato ufficialmente siglato un accordo strategico di grande rilevanza nazionale: il protocollo “Cresciamo il futuro”, frutto della collaborazione tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e un gruppo selezionato di aziende italiane di primo piano. L’intesa ha un obiettivo ambizioso e strutturale: creare la più grande rete nazionale di asili nido aziendali e privati, pensata per accogliere i figli dei dipendenti delle imprese aderenti, con un modello replicabile in tutto il Paese.

Questa iniziativa nasce per dare risposta concreta a una delle esigenze più sentite da parte dei lavoratori italiani: conciliarsi tra carriera e famiglia. Gli asili aziendali, infatti, rappresentano una leva strategica per migliorare la qualità della vita dei dipendenti, ridurre l’assenteismo e aumentare la produttività interna. Il progetto, dunque, non è solo una misura di welfare, ma una politica economica intelligente che può rafforzare la competitività aziendale attraverso la cura del capitale umano.

Per il Ministero, il valore dell’accordo va oltre il piano occupazionale: si tratta di una misura strutturale per contrastare il declino demografico che sta interessando in modo preoccupante l’Italia. Sostenere le famiglie nel periodo più delicato – quello dell’infanzia – significa incentivare la natalità e rendere il nostro Paese più attrattivo per chi desidera mettere radici e costruire un futuro. È anche un segnale politico chiaro: investire sull’infanzia non è più un costo, ma una priorità nazionale.

Una rete digitale e capillare per l’infanzia

Uno degli elementi più innovativi del protocollo “Cresciamo il futuro” è la creazione di un sistema diffuso di asili nido sull’intero territorio nazionale. La rete comprenderà non solo strutture gestite direttamente dalle aziende, ma anche asili nido privati che vorranno aderire volontariamente all’iniziativa. L’obiettivo è rendere il servizio capillare e accessibile a tutti i dipendenti delle imprese coinvolte, indipendentemente dalla loro sede di lavoro.

A garantire l’efficienza e l’organizzazione della rete sarà una piattaforma digitale centralizzata, che fungerà da punto di accesso unico per i genitori. Attraverso questa piattaforma, i lavoratori potranno visualizzare gli asili disponibili, selezionare quelli più vicini o funzionali rispetto al proprio domicilio o luogo di lavoro, e gestire in modo semplice le iscrizioni e le comunicazioni con le strutture. Questo approccio smart favorisce la trasparenza, riduce i tempi burocratici e valorizza l’utilizzo delle tecnologie digitali al servizio del welfare aziendale.

Il progetto partirà con una fase di sperimentazione nel 2025, coinvolgendo diverse realtà territoriali per testare l’efficacia del modello e ottimizzare la gestione. L’implementazione su scala nazionale è prevista entro il 2026, trasformando questa iniziativa in un vero cambio di paradigma per il welfare italiano.

Ad oggi hanno aderito al protocollo importanti realtà industriali e finanziarie come A2A, Engineering, Eni, FiberCop, Fincantieri, Intesa Sanpaolo, ITA Airways, Leonardo, Open Fiber e Towers Watson Italia: aziende che complessivamente contano oltre 250.000 dipendenti in Italia. Una massa critica significativa, che testimonia l’interesse del settore privato verso un modello di sviluppo aziendale attento al benessere familiare e sociale.

Qualità certificata e vantaggi

Uno dei pilastri fondamentali del progetto “Cresciamo il futuro” è la garanzia della qualità dei servizi educativi offerti dagli asili nido che entreranno a far parte della rete. Non si tratta solo di aumentare la quantità delle strutture, ma di garantire uno standard elevato e omogeneo su tutto il territorio nazionale. A tal fine, verranno definiti parametri qualitativi stringenti, e introdotti sistemi di monitoraggio e verifica periodica per assicurare il rispetto dei requisiti previsti.

La cabina di regia del progetto, incaricata di supervisionare lo sviluppo della rete e il rispetto degli standard, sarà composta sia da rappresentanti delle imprese fondatrici che da esperti del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Questa governance mista punta a garantire un equilibrio tra le esigenze operative delle aziende e la tutela dei diritti educativi dei bambini e delle famiglie.

I vantaggi per i genitori lavoratori sono evidenti: poter contare su una rete capillare e di qualità di asili nido significa ridurre lo stress legato alla gestione quotidiana dei figli, favorire la conciliazione tra lavoro e vita privata, e migliorare la qualità complessiva della propria esperienza professionale e familiare. Questo supporto risulta particolarmente cruciale per le donne lavoratrici, spesso ancora oggi penalizzate nella carriera a causa dei carichi di cura.

Anche per le aziende l’impatto è positivo e misurabile. Secondo studi recenti, offrire servizi di welfare come gli asili aziendali contribuisce ad aumentare la soddisfazione dei dipendenti, ridurre il turnover, attrarre talenti qualificati e migliorare la produttività, grazie a un ambiente di lavoro più sereno e inclusivo. In questo senso, “Cresciamo il futuro” si inserisce in un contesto più ampio di politiche orientate alla parità di genere, al benessere sociale e alla responsabilità d’impresa, in linea con le strategie nazionali ed europee.

Esempi concreti

Prima ancora del protocollo “Cresciamo il futuro”, alcune aziende italiane avevano già scelto di attivare asili nido interni o convenzionati, ottenendo risultati molto positivi sia in termini di benessere dei dipendenti che di performance aziendali. Un esempio emblematico è Luxottica, che da anni offre ai propri collaboratori un nido aziendale in provincia di Belluno, operativo 12 mesi l’anno e con orari flessibili. Questo servizio ha permesso di aumentare la partecipazione femminile al lavoro e ridurre sensibilmente il tasso di turnover post-maternità.

Un altro caso di successo è quello di Ferrero, che nel suo polo produttivo di Alba ha istituito un asilo nido con un progetto educativo innovativo, integrato con il territorio e accessibile anche ad alcune famiglie esterne all’azienda. Il risultato? Un aumento della soddisfazione dei dipendenti e un rafforzamento del legame tra l’impresa e la comunità locale.

In ambito bancario, Intesa Sanpaolo – una delle firmatarie del protocollo – ha sperimentato negli anni passati soluzioni miste tra asili convenzionati e voucher per l’infanzia, favorendo il rientro al lavoro dopo il congedo parentale e incentivando la permanenza in azienda delle giovani professioniste.

Questi casi dimostrano che l’asilo aziendale non è solo un beneficio “etico”, ma anche uno strumento strategico di gestione del personale, capace di generare ritorni economici indiretti: riduzione dell’assenteismo, maggiore fidelizzazione, branding aziendale e clima organizzativo positivo.

Come le Regioni potranno integrare “Cresciamo il futuro”

Una delle caratteristiche più interessanti del progetto “Cresciamo il futuro” è la sua flessibilità territoriale, che lo rende potenzialmente integrabile con le politiche regionali già in atto a sostegno dell’infanzia e della conciliazione vita-lavoro. Le differenze tra Nord, Centro e Sud Italia in termini di disponibilità di asili nido pubblici e privati sono notevoli: basti pensare che, secondo i dati ISTAT, alcune regioni del Centro-Nord superano il 35% di copertura dei servizi per l’infanzia, mentre in alcune aree del Sud la percentuale non arriva nemmeno al 10%.

Il progetto, proprio per questo, potrà rappresentare un potente strumento di riequilibrio sociale e territoriale. Le Regioni con livelli di copertura inferiori, come la Calabria, la Sicilia o la Campania, potrebbero trarre grande beneficio da una rete privata-aziendale che aumenti l’offerta complessiva di servizi. In questi contesti, il coinvolgimento del Terzo Settore e delle cooperative sociali locali sarà cruciale per assicurare la sostenibilità e la personalizzazione del modello.

Allo stesso tempo, regioni più avanzate sul piano del welfare – come Emilia-Romagna, Toscana o Trentino-Alto Adige – potranno integrare questa rete con i propri programmi già attivi, creando sinergie virtuose tra pubblico e privato, e massimizzando l’impatto economico e sociale.

Inoltre, la piattaforma digitale prevista dal protocollo potrà raccogliere e condividere dati geolocalizzati e buone pratiche regionali, favorendo l’emulazione tra territori e l’adattamento del modello alle specificità locali. Questo approccio è in linea con le direttive europee su welfare integrato e sviluppo locale, e potrà rappresentare una svolta anche per i fondi regionali europei destinati ai servizi educativi (FSE+ e PNRR).

Considerazioni finali

Il progetto “Cresciamo il futuro” non rappresenta soltanto un’iniziativa di responsabilità sociale, ma anche una grande opportunità strategica per le imprese italiane, in particolare in ottica di vantaggi fiscali e reputazionali. Le aziende che investono in welfare aziendale – come previsto anche dall’articolo 51 del TUIR – possono beneficiare di deduzioni e detassazioni sui costi sostenuti per servizi destinati ai dipendenti, compresi quelli per l’istruzione e la cura dell’infanzia. In tal senso, l’adesione alla rete di asili aziendali potrà rappresentare un’occasione concreta di risparmio fiscale, oltre che un investimento nel capitale umano.

Inoltre, la struttura messa in campo dal Ministero offre strumenti operativi e consulenziali per supportare le imprese nel percorso di attivazione e gestione degli asili, rendendo il progetto accessibile non solo ai grandi gruppi ma anche a realtà più piccole, eventualmente attraverso forme di consorzio o partnership locali. Questo potrebbe favorire la diffusione del modello anche tra le PMI, che rappresentano l’ossatura produttiva del nostro Paese.

Dal punto di vista sociale, il potenziale di “Cresciamo il futuro” è significativo: un sistema nazionale di asili nido integrato, di qualità e con accesso facilitato, contribuisce a rimuovere ostacoli strutturali alla natalità e alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, due sfide storiche per l’Italia. A livello macroeconomico, si tratta di un intervento che guarda al futuro, valorizzando l’infanzia come bene comune e leva di sviluppo sostenibile.

La sperimentazione in corso nel 2025 sarà quindi decisiva per calibrare il modello, ma l’ambizione è chiara: trasformare l’Italia in un Paese dove fare figli e lavorare non siano più due percorsi inconciliabili, ma parti di un’unica visione di crescita condivisa tra pubblico e privato.

Criptovalute e Fisco 2025: Plusvalenze, Franchigia da 2.000 € e Aliquota al 33% dal 2026

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Nel 2024 l’Italia ha finalmente fatto chiarezza sulla tassazione delle plusvalenze da criptovalute, confermando l’esistenza di una franchigia da 2.000 euro che esenta dalla tassazione i piccoli guadagni. Una precisazione fondamentale arrivata con le istruzioni al Modello Redditi PF 2025, che interessa migliaia di contribuenti e investitori digitali. Ma attenzione: il 2025 segna la fine di questo beneficio e dal 2026 l’aliquota salirà al 33%.

In questo articolo analizziamo tutto ciò che c’è da sapere sulla normativa fiscale attuale e futura, con esempi pratici e strategie legali per ottimizzare la propria dichiarazione. Se investi in criptovalute, non puoi permetterti di ignorare queste novità.

Criptovalute e fisco 2024

Il 2024 si apre con una novità significativa per tutti i contribuenti che operano nel mondo delle criptovalute. Con l’aggiornamento delle istruzioni al Modello Redditi PF 2025, l’Agenzia delle Entrate chiarisce un punto fondamentale: la soglia dei 2.000 euro sulle plusvalenze da cripto attività non è un limite oltre cui scatta l’imposta, bensì una vera e propria franchigia. In altre parole, l’imposta sostitutiva del 26% si applicherà solo sulla parte eccedente i 2.000 euro di plusvalenze, rendendo questa disposizione particolarmente vantaggiosa per chi effettua operazioni contenute o occasionali.

Questa precisazione non è banale, poiché elimina i dubbi interpretativi che avevano accompagnato l’introduzione del nuovo regime fiscale sulle cripto attività stabilito dalla Legge di Bilancio 2023, in vigore dal 1° gennaio 2023. La norma, infatti, aveva già stabilito che i guadagni ottenuti da operazioni in valute virtuali sarebbero stati soggetti a un regime fiscale simile a quello delle rendite finanziarie. Tuttavia, l’esatta natura della soglia dei 2.000 euro era stata oggetto di discussione: franchigia o limite oltre il quale tassare tutto?

Ora, con l’interpretazione fornita nelle istruzioni del Modello Redditi PF 2025, si chiarisce definitivamente che i primi 2.000 euro sono esenti da tassazione, anche se superati. Questo cambiamento può incidere in modo sostanziale sulla pianificazione fiscale dei piccoli investitori e dei trader occasionali.

Normativa fiscale

Il 2023 ha segnato l’ingresso ufficiale delle cripto-attività all’interno del sistema fiscale italiano, con una normativa che ha posto ordine – almeno in parte – al trattamento tributario di asset digitali come le criptovalute.

La base giuridica di riferimento è l’articolo 67, comma 1, lettera c-sexies del TUIR, che definisce come redditi diversi, soggetti a imposta sostitutiva del 26%, “le plusvalenze e gli altri proventi realizzati mediante rimborso o cessione a titolo oneroso, permuta o detenzione di cripto-attività, comunque denominate, non inferiori complessivamente a 2.000 euro nel periodo d’imposta”.

Questa disposizione ha introdotto un concetto nuovo per il fisco italiano, quello delle cripto-attività, termine che include non solo le criptovalute più note come Bitcoin o Ethereum, ma anche tutti gli asset digitali basati su tecnologia blockchain, token compresi.

Tuttavia, fin da subito si è generato un dibattito interpretativo sulla corretta applicazione della soglia dei 2.000 euro: si tratta di una franchigia o di una soglia oltre la quale si tassano tutte le plusvalenze?

Il primo chiarimento ufficiale è arrivato con la circolare 30/E del 27 ottobre 2023, in cui, a pagina 47, l’Agenzia delle Entrate definiva la soglia come “una franchigia minima pari a euro 2.000”. Il problema è che nel testo si parlava contemporaneamente sia di “soglia” che di “franchigia”, lasciando spazio a incertezze interpretative.

La distinzione è sostanziale: con una franchigia, si tassa solo la parte che eccede i 2.000 euro; con una soglia, si tasserebbe l’intero importo qualora superasse anche di poco la cifra indicata.

Va sottolineato che questa incertezza riguarda soltanto gli anni fiscali 2023 e 2024, poiché la Legge di Bilancio 2025 (L. 207/2024) ha previsto l’eliminazione della soglia di non imponibilità a partire dal 1° gennaio 2025.

Inoltre, è stato stabilito che dal 2026 l’aliquota dell’imposta sostitutiva salirà dal 26% al 33%, rendendo ancora più importante pianificare per tempo le proprie strategie fiscali.

Franchigia o soglia?

Uno degli aspetti più dibattuti nel primo anno di applicazione della nuova normativa sulle cripto-attività è stato il significato esatto della soglia dei 2.000 euro prevista dall’art. 67 del TUIR. A un primo sguardo, potrebbe sembrare una semplice questione terminologica, ma la distinzione tra soglia e franchigia comporta conseguenze fiscali molto diverse.

Vediamo la differenza con un esempio. Se i 2.000 euro rappresentassero una soglia, come nel caso delle minusvalenze su titoli azionari o dei redditi da lavoro autonomo occasionale, il superamento anche di un solo euro farebbe scattare la tassazione su tutto l’importo. Quindi, con una plusvalenza di 2.100 euro, il contribuente pagherebbe il 26% sull’intero importo, ovvero 546 euro.

Nel caso invece di franchigia, come confermato ora dalle istruzioni al Modello Redditi PF 2025, l’imposta del 26% si applica solo sulla parte eccedente i 2.000 euro. Utilizzando lo stesso esempio, su una plusvalenza di 2.100 euro, il contribuente verserà il 26% soltanto sui 100 euro eccedenti, ovvero 26 euro. È evidente come il riconoscimento della franchigia sia molto più vantaggioso, soprattutto per i piccoli risparmiatori e per chi opera nel mercato cripto in maniera saltuaria.

Questa differenza è tanto più rilevante se si considera la natura estremamente volatile e frammentata degli investimenti in criptovalute: molti utenti effettuano decine di micro-operazioni durante l’anno, e sapere che solo gli utili superiori ai 2.000 euro saranno tassati aiuta a gestire meglio il portafoglio e a pianificare la propria dichiarazione dei redditi.

Modello Redditi PF 2025

La svolta interpretativa è arrivata con la pubblicazione delle istruzioni al Modello Redditi Persone Fisiche 2025, che si riferiscono ai redditi percepiti nel 2024. È proprio qui che l’Agenzia delle Entrate, in maniera inequivocabile, ha definito la natura di franchigia dell’importo di 2.000 euro applicabile alle plusvalenze derivanti da cripto-attività.

Nel documento, disponibile sul sito dell’Agenzia, si legge chiaramente che l’imposta sostitutiva del 26% deve essere calcolata solo sulla parte di plusvalenza che eccede la franchigia di 2.000 euro, maturata nel corso dell’anno. Questo significa che anche se un contribuente realizza 2.500 euro di guadagni da cripto, dovrà versare l’imposta solo sui 500 euro eccedenti, cioè 130 euro.

Tale precisazione era attesa con impazienza da contribuenti, professionisti e operatori del settore crypto, poiché risolve finalmente l’ambiguità lasciata dalla circolare 30/E del 2023.

Ma cosa comporta questo nella pratica? Significa che il contribuente dovrà calcolare l’ammontare complessivo delle plusvalenze nel quadro RT del modello, e solo se il totale supera i 2.000 euro, dichiarare e versare l’imposta sull’eccedenza.

Inoltre, sempre nelle istruzioni, viene precisato che la franchigia è annuale e si applica per contribuente, e non per singola operazione. Questo elemento rafforza il principio secondo cui il legislatore ha voluto agevolare i piccoli investitori, riducendo gli oneri fiscali e semplificando la gestione degli obblighi dichiarativi.

Come dichiarare le plusvalenze da cripto-attività

Una volta compresa la natura della franchigia, il passo successivo per il contribuente è sapere come compilare correttamente la dichiarazione dei redditi. Le plusvalenze da cripto-attività devono essere riportate nel quadro RT del Modello Redditi PF 2025, nello specifico alla Sezione II-C, creata appositamente per i redditi diversi di natura finanziaria realizzati da persone fisiche non imprenditori.

All’interno di questa sezione, il contribuente dovrà indicare:

  • l’ammontare complessivo delle plusvalenze realizzate nel corso del 2024;

  • le eventuali minusvalenze riportabili da anni precedenti (o compensate nello stesso anno);

  • l’imposta sostitutiva del 26%, da applicare solo alla parte di plusvalenze che eccede i 2.000 euro.

È importante ricordare che non va indicata la franchigia nei righi, ma deve essere tenuta presente nel calcolo manuale dell’imposta. Il contribuente dovrà quindi sottrarre i primi 2.000 euro di guadagno e versare il 26% sulla parte restante. Non esistono, infatti, automatismi nel software ministeriale che applichino direttamente questa franchigia.

In caso di operazioni in perdita, o se le plusvalenze non raggiungono i 2.000 euro, non è obbligatorio compilare il quadro RT, ma potrebbe comunque essere utile farlo per poter utilizzare eventuali minusvalenze negli anni successivi. In ogni caso, è fondamentale conservare la documentazione relativa a ogni operazione eseguita: estratti conto degli exchange, cronologia delle transazioni, calcolo delle plusvalenze, e ogni elemento utile a dimostrare la correttezza dei dati inseriti.

Novità dal 2025

Con l’approvazione della Legge di Bilancio 2025 (Legge n. 207/2024), il legislatore ha tracciato un nuovo percorso per la fiscalità delle cripto-attività, confermando che il 2024 è stato l’ultimo anno in cui si applica la franchigia di 2.000 euro sulle plusvalenze. La disposizione contenuta nei commi 23, 24 e 25 dell’art. 1 stabilisce infatti che, a partire dal periodo d’imposta 2025 (quindi dal Modello Redditi 2026), la soglia di non imponibilità sarà eliminata: anche le plusvalenze inferiori ai 2.000 euro saranno pienamente tassate.

Ma non è tutto: dal 1° gennaio 2026, entra in vigore anche un’altra novità rilevante, ovvero l’aumento dell’aliquota dell’imposta sostitutiva dal 26% al 33%. Questo significa che i redditi da cripto-attività realizzati nel 2026 saranno soggetti a una tassazione più pesante, al pari di altre tipologie di rendite finanziarie ad alta redditività.

Il 2025, dunque, si presenta come un anno di transizione importante: le plusvalenze realizzate nel 2024 beneficiano ancora della franchigia da 2.000 euro, ma dal 2025 si cambia regime. Per questo motivo, è fondamentale che i contribuenti che hanno generato guadagni da cripto nel 2024 verifichino attentamente i propri dati e compilino correttamente il quadro RT del Modello Redditi PF 2025. Allo stesso tempo, chi opera attivamente in criptovalute dovrà pianificare in modo strategico il proprio 2025, tenendo conto dell’impatto fiscale pieno (senza franchigia) e dell’imminente aumento dell’aliquota.

Strategie fiscali

Con la scomparsa della franchigia da 2.000 euro nel 2025 e l’aumento dell’aliquota al 33% previsto per il 2026, diventa fondamentale ragionare in termini di ottimizzazione fiscale legale. I contribuenti che operano con cripto-attività hanno oggi diverse leve a disposizione per ridurre l’impatto fiscale, nel pieno rispetto della normativa.

Una delle prime strategie è quella della compensazione delle minusvalenze, previste dall’art. 68 del TUIR: se nel 2024 o negli anni precedenti si sono registrate perdite su investimenti in cripto, queste possono essere utilizzate per abbattere le plusvalenze future, purché siano state regolarmente dichiarate. In questo senso, anche chi non ha superato la franchigia nel 2024 potrebbe aver avuto interesse a compilare il quadro RT, per “mettere a bilancio” minusvalenze utili per il 2025.

Un altro strumento interessante, ancora valido per l’anno in corso, è la rivalutazione delle cripto-attività possedute al 1° gennaio 2024, ai sensi dell’art. 1, comma 133 della Legge di Bilancio 2023. Questa operazione consente di versare un’imposta sostitutiva del 14% sul valore risultante da una perizia asseverata, fissando così un valore fiscale più alto, utile per ridurre l’eventuale plusvalenza in caso di futura vendita. Anche se il termine ordinario per questa rivalutazione è scaduto, non si esclude che possa essere riaperta una finestra nel corso del 2025 (come già accaduto in passato per altri strumenti finanziari).

Infine, è bene ricordare che nel 2025 tutte le plusvalenze saranno tassate, anche quelle inferiori ai 2.000 euro, quindi è consigliabile tenere traccia puntuale e precisa di ogni operazione, usando software specializzati o rivolgendosi a un professionista. La gestione del portafoglio crypto dovrebbe tenere conto non solo dell’andamento di mercato, ma anche dell’impatto fiscale delle vendite, dei tempi e dei valori.

Considerazioni finali

Il 2024 ha rappresentato un anno di passaggio decisivo per la fiscalità delle cripto-attività in Italia: la conferma della franchigia da 2.000 euro ha fornito una tutela concreta per i piccoli investitori, permettendo a molti di loro di evitare completamente la tassazione sulle plusvalenze. Tuttavia, con il 2025 si apre un nuovo capitolo: la franchigia è stata eliminata e, a partire dal 2026, l’aliquota salirà al 33%, modificando radicalmente le prospettive fiscali per chi opera, anche in modo occasionale, nel settore delle criptovalute.

Per affrontare questo cambiamento in modo consapevole, è fondamentale adottare buone pratiche di gestione fiscale, come il monitoraggio costante delle operazioni, l’uso di software per il calcolo delle plusvalenze e la valutazione di strumenti come la compensazione delle minusvalenze o la rivalutazione dei valori di carico. In un contesto normativo in rapida evoluzione, l’assistenza di un commercialista esperto in fiscalità digitale diventa non solo utile, ma strategica per evitare errori, sanzioni o pagamenti eccessivi.

Il consiglio finale è semplice: non aspettare il 2026 per “fare i conti con il fisco”. Il 2025, pur senza franchigia, offre ancora la possibilità di pianificare e mettere in ordine la propria posizione fiscale. Il momento giusto per agire è adesso.

Auto aziendali 2024-2025: tasse, fringe benefit e novità fiscali

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Choosing a car at dealership. Thoughtful grey hair man in formalwear leaning at the car and looking away

Nel 2024, le auto aziendali restano uno degli strumenti più discussi e strategici nella gestione fiscale delle imprese e dei professionisti. Non si tratta solo di un benefit o di una comodità, ma di una vera leva economica e fiscale, capace di incidere sensibilmente sul bilancio annuale di un’azienda. Con l’evoluzione normativa degli ultimi anni, molti imprenditori si aspettavano novità nel trattamento fiscale delle auto aziendali. Tuttavia, come sottolineato da Assonime nella sua circolare n. 1/2024, tutto resta invariato rispetto alle regole precedenti, almeno per ora.

Questo articolo vuole fare chiarezza su cosa è detraibile, cosa è deducibile, in che misura e quali opportunità fiscali può ancora offrire il parco auto aziendale. Lo faremo tenendo conto delle regole attuali, dei riferimenti normativi, delle posizioni ufficiali (come quella di Assonime) e, soprattutto, di una prospettiva concreta: come sfruttare al meglio le agevolazioni consentite dalla legge per risparmiare sulle tasse in modo legale.

Se hai un’azienda o sei un libero professionista con partita IVA, questo articolo ti sarà utile per evitare errori e massimizzare il vantaggio fiscale dei tuoi veicoli aziendali. Vedremo insieme anche alcune sentenze recenti e chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate, per evitare dubbi interpretativi che potrebbero costarti caro in fase di controllo.

Nuova tassazione dal 2025

Nel corso dell’esame parlamentare per la conversione del Decreto Bollette, la Commissione Bilancio della Camera ha respinto un emendamento che avrebbe introdotto una norma transitoria a favore delle auto aziendali. L’intento dell’emendamento era quello di tutelare i veicoli ordinati e concessi in uso promiscuo ai dipendenti entro il 31 dicembre 2024 dalla nuova e più sfavorevole tassazione prevista dalla Legge di Bilancio 2024, che entrerà in vigore a partire dal 1° gennaio 2025. Tuttavia, la proposta è stata bocciata per “estraneità di materia”, impedendo quindi di inserirla nel testo di conversione del decreto.

Questa bocciatura ha generato una forte preoccupazione tra le imprese, in particolare nel comparto automotive e tra i fleet manager, poiché apre al rischio che la nuova normativa venga applicata anche ai contratti già sottoscritti nel 2024, con evidenti effetti penalizzanti per chi ha fatto scelte basate su regole precedenti. In questo contesto si inserisce l’intervento chiarificatore di Assonime, che nella Circolare n. 1/2024 ha confermato la corretta interpretazione non retroattiva della norma. Secondo l’associazione, infatti, la nuova disciplina fiscale delle auto aziendali, in particolare quelle non elettriche, non potrà applicarsi ai veicoli concessi entro la fine del 2024.

La circolare sostiene quindi le richieste avanzate dal settore per una maggiore certezza del diritto, sottolineando che la normativa – per come formulata – non ha effetti retroattivi. Un punto fermo importante per evitare distorsioni nel trattamento fiscale e per garantire una continuità amministrativa e contrattuale.

La nuova norma dell’art. 51 TUIR

La Legge di Bilancio 2025 (Legge n. 234/2024) ha introdotto una profonda revisione della tassazione applicabile all’uso promiscuo delle auto aziendali concesse ai dipendenti, con l’obiettivo dichiarato di favorire la transizione ecologica e premiare le scelte aziendali più sostenibili. La modifica riguarda l’articolo 51, comma 4, del TUIR (DPR n. 917/1986), che disciplina il calcolo del fringe benefit derivante dalla disponibilità privata dei veicoli aziendali.

A partire dal 1° gennaio 2025, la base imponibile per la determinazione del reddito da lavoro dipendente sarà pari al 50% dell’importo calcolato su una percorrenza convenzionale di 15.000 km annui, secondo i costi chilometrici indicati nelle tabelle ACI. Tale importo sarà al netto di eventuali trattenute a carico del dipendente, e rappresenterà la quota da assoggettare a tassazione come reddito in natura.

La norma introduce però un regime agevolato per i veicoli a basse emissioni:

  • per i veicoli esclusivamente elettrici a batteria, la base imponibile sarà ridotta al 10%;

  • per i veicoli ibridi plug-in, la base imponibile sarà del 20%.

Queste nuove regole saranno applicabili solo ai contratti stipulati dal 1° gennaio 2025 in poi, escludendo quindi (come precisato anche da Assonime) tutte le assegnazioni già in essere entro il 2024.

Il messaggio è chiaro: il legislatore intende scoraggiare l’uso di veicoli inquinanti come fringe benefit e premiare la scelta di veicoli green, offrendo un trattamento fiscale molto più favorevole per chi adotta l’elettrico o l’ibrido.

Disparità e incertezza normativa

L’emendamento respinto nel corso dell’iter di conversione del DL Bollette non era casuale: nasceva da una problematica concreta sollevata da imprese e associazioni di settore. In particolare, viene segnalata un’evidente disparità di trattamento tra i contribuenti. Secondo le regole approvate, le nuove agevolazioni fiscali per i veicoli elettrici e ibridi (riduzione della base imponibile al 10% o al 20%) non saranno applicabili ai veicoli assegnati ai dipendenti nel 2024, anche se ordinati l’anno precedente, generando un effetto penalizzante per chi aveva pianificato per tempo la transizione verso una flotta più green.

La modifica proposta in Parlamento mirava a introdurre una deroga temporanea, estendendo le agevolazioni anche alle assegnazioni effettuate fino al 30 giugno 2025, ma purtroppo non è stata approvata. L’associazione Aniasa, che rappresenta le principali società di noleggio a lungo termine, ha espresso profonda preoccupazione per la rigidità della norma, sottolineando come questa incertezza abbia già avuto effetti negativi tangibili sul mercato: una flessione di circa 70.000 immatricolazioni e una perdita stimata di 2,5 miliardi di euro di PIL.

Resta però una speranza. Potrebbe ancora esserci spazio per introdurre la clausola di salvaguardia all’interno del decreto d’urgenza fiscale, già annunciato dal Governo per intervenire sulla correzione degli acconti IRPEF. Questo provvedimento dovrebbe arrivare dopo la pubblicazione del Documento di economia e finanza (DEF), quindi dopo il 10 aprile 2025.

Regole 2024 confermate da Assonime

Con la pubblicazione della circolare n. 7/2025, Assonime ha fatto chiarezza su un punto critico per aziende e professionisti: quale disciplina fiscale si applicherà alle auto aziendali concesse in uso promiscuo entro il 31 dicembre 2024, alla luce della riformulazione dell’art. 51 TUIR operata dalla Legge di Bilancio 2025.

Secondo Assonime, le vecchie regole continuano ad applicarsi pienamente, almeno per tutte le situazioni perfezionate entro il 2024. Si evita così l’applicazione del “valore normale” (criterio ordinario previsto dall’art. 9 del TUIR) e si mantiene il sistema forfettario basato sulle tabelle ACI, che determina il fringe benefit sulla base di una percorrenza convenzionale annua di 15.000 km e dei relativi costi chilometrici.

La circolare sottolinea anche una differenza rilevante rispetto al passato: a differenza della riforma del 2020, stavolta non è stata prevista alcuna norma transitoria specifica. Questo silenzio normativo, unito alla riscrittura dell’articolo 51, avrebbe potuto generare confusione e costi amministrativi elevati, ma viene bilanciato da un elemento chiave: la relazione tecnica allegata alla legge di Bilancio 2025 quantifica gli effetti finanziari solo per le auto immatricolate e assegnate dal 2025. Di conseguenza, tutte le situazioni precedenti dovrebbero rientrare nella disciplina precedente, ovvero quella dell’art. 51, comma 4, lettera a) del TUIR, in vigore fino al 31 dicembre 2024.

Assonime elenca quindi i casi concreti in cui la normativa 2024 continuerà ad applicarsi:

  • auto immatricolate, concesse e con contratto firmato tra il 1° luglio 2020 e il 31 dicembre 2024;

  • auto immatricolate entro il 2024 ma concesse con contratto dal 2025;

  • auto immatricolate dal 2025, ma assegnate in base a un contratto firmato entro il 2024.

Infine, la circolare richiama il principio del legittimo affidamento del contribuente: cambiare retroattivamente le regole avrebbe conseguenze gravi sulla certezza del diritto e costituirebbe una violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento fiscale.

Regole ancora in vigore

Nel 2024, le regole fiscali per la deducibilità e la detraibilità IVA delle auto aziendali rimangono invariate rispetto agli anni precedenti. A confermarlo è anche Assonime nella sua circolare, che ribadisce l’applicazione dell’attuale disciplina fino al 31 dicembre 2024, senza modifiche sostanziali, in attesa dell’entrata in vigore delle nuove regole previste dalla legge di Bilancio 2025.

Vediamo nel dettaglio le principali disposizioni valide oggi:

Deducibilità dal reddito d’impresa e professionale:

  • Veicoli a uso esclusivamente aziendale (dimostrabile): deducibilità 100% dei costi (acquisto, leasing, carburante, manutenzione, assicurazione).

  • Uso promiscuo ai dipendenti (fringe benefit): deducibilità 70% dei costi, purché l’auto sia concessa in uso personale per almeno 183 giorni l’anno.

  • Veicoli a uso non esclusivo (generico o amministrativo): deducibilità limitata al 20%, su un costo massimo fiscalmente riconosciuto di € 18.075,99.

Detraibilità IVA:

  • In base all’art. 19-bis1 del DPR 633/72, si può detrarre l’IVA in misura:

    • 100% se il veicolo è destinato esclusivamente all’attività aziendale;

    • 40% in caso di uso promiscuo o non esclusivo (la regola generale);

    • 0% se l’auto è usata esclusivamente per fini privati.

Queste percentuali si applicano anche per le auto in leasing, a noleggio o in acquisto diretto. È bene ricordare che per fruire delle agevolazioni è fondamentale conservare documentazione adeguata, soprattutto per giustificare l’uso esclusivo o promiscuo in caso di controlli da parte dell’Agenzia delle Entrate.

In sintesi, anche nel 2024, se gestite correttamente, le auto aziendali possono rappresentare una significativa leva di risparmio fiscale, specie in presenza di fringe benefit ben strutturati o in caso di utilizzo operativo documentato.

Strategie fiscali lecite e ottimizzazione

Le auto aziendali non sono solo un costo, ma possono diventare uno strumento di pianificazione fiscale efficace, a patto che vengano gestite in modo corretto e nel rispetto della normativa vigente. Anche nel 2024, nonostante la stabilità del quadro normativo, ci sono diverse strategie che imprese e professionisti possono adottare per massimizzare la deducibilità e la detraibilità.

1. Fringe benefit strutturati correttamente

Concedere l’auto aziendale in uso promiscuo al dipendente per almeno 183 giorni l’anno consente una deducibilità del 70% dei costi. È importante redigere un contratto scritto che ne attesti la concessione e determinare il fringe benefit secondo le tabelle ACI. Questo meccanismo consente all’azienda di dedurre costi maggiori rispetto a un’auto usata genericamente.

2. Valutare leasing e noleggio a lungo termine

Molto spesso, il noleggio a lungo termine risulta più vantaggioso dell’acquisto, soprattutto in termini di cash flow e recupero IVA. In caso di uso aziendale esclusivo, è possibile detrarre l’IVA al 100% e dedurre il 100% del canone.

3. Documentazione puntuale per l’uso esclusivo

Nel caso in cui un’auto venga usata esclusivamente per scopi aziendali (ad esempio da agenti o tecnici), è essenziale documentare l’utilizzo tramite fogli di marcia, localizzatori GPS o registro viaggi, così da poter dimostrare l’uso esclusivo in caso di verifica fiscale.

4. Valutare auto a basse emissioni

In previsione delle agevolazioni 2025, può essere vantaggioso pianificare il rinnovo del parco auto con veicoli elettrici o ibridi plug-in, per beneficiare in futuro delle nuove soglie agevolate (10% o 20% di base imponibile). Inoltre, molte regioni e Comuni offrono incentivi cumulabili.

In sintesi, la gestione strategica del parco auto aziendale può generare risparmi fiscali notevoli, purché si adottino comportamenti documentabili, pianificati e conformi alla normativa.

Considerazioni finali

l tema delle auto aziendali e della loro fiscalità resta fortemente al centro del dibattito politico ed economico, anche alla luce degli effetti macroeconomici negativi che l’incertezza normativa sta già causando. Come segnalato da Aniasa, la flessione nelle immatricolazioni e il rallentamento delle assegnazioni dei veicoli in uso promiscuo rischiano di frenare l’intera filiera automotive, con un impatto diretto su occupazione e PIL.

Il rifiuto della norma transitoria, che avrebbe introdotto una clausola di salvaguardia per i contratti stipulati entro il 2024, ha lasciato un vuoto normativo che potrebbe però essere colmato nel decreto fiscale atteso dopo il DEF, quindi nella seconda metà di aprile 2025. Questo decreto, già annunciato come necessario per correggere gli acconti IRPEF, potrebbe contenere anche misure correttive sulle auto aziendali, compresa la tanto attesa deroga che eviterebbe una discriminazione tra contribuenti basata solo sulla data formale di assegnazione o immatricolazione.

Nel frattempo, imprese e professionisti devono muoversi con cautela ma con consapevolezza, affidandosi a professionisti aggiornati e a una pianificazione fiscale strategica. Il 2024 resta un anno di “stabilità apparente”, ma con potenziali evoluzioni alle porte. Comprendere ora le regole e adattarsi in modo proattivo potrà fare la differenza, soprattutto in vista delle opportunità fiscali connesse alla mobilità sostenibile che entreranno in vigore dal 2025.

In definitiva, la gestione delle auto aziendali non è solo una questione di benefit: è un tassello importante della pianificazione economico-fiscale, e resta uno degli strumenti più efficaci per ottimizzare i costi in modo pienamente legale.

ATECO 2025: tutto quello che devi sapere sul nuovo codice attività in vigore dal 1° gennaio

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Dal 1° gennaio 2025 è entrata ufficialmente in vigore ATECO 2025, la nuova classificazione delle attività economiche che sostituisce la precedente versione del 2007. Un cambiamento atteso da anni, pensato per fotografare in modo più preciso l’evoluzione dell’economia italiana ed europea, soprattutto nei settori emergenti come il digitale, la green economy e l’innovazione tecnologica.

La novità più rilevante? I codici verranno aggiornati automaticamente in Camera di Commercio, senza necessità di azione da parte dell’impresa. In visura saranno riportati sia il nuovo codice che quello precedente, garantendo trasparenza e continuità.

Scopri in questo articolo tutto quello che c’è da sapere su ATECO 2025: cosa cambia, perché è stato introdotto, quali vantaggi fiscali porta e come verificarlo correttamente per la tua attività.

ATECO 2025

Dal 1° gennaio 2025 è ufficialmente entrata in vigore ATECO 2025, la nuova classificazione delle attività economiche adottata per allineare il sistema italiano agli standard europei ed internazionali. Si tratta di una revisione profonda e necessaria, frutto di un lungo processo di aggiornamento che tiene conto dei cambiamenti strutturali dell’economia, delle tecnologie emergenti e dei nuovi modelli organizzativi delle imprese. L’effettiva adozione operativa di questa nuova versione è iniziata il 1° aprile 2025, con implicazioni significative per professionisti, imprese, start-up e pubblica amministrazione.

Il nuovo sistema introduce una descrizione più accurata e dettagliata delle attività economiche, in particolare di quelle legate all’innovazione digitale, alla sostenibilità ambientale e alla trasformazione dei settori produttivi. L’obiettivo è offrire una rappresentazione più fedele delle dinamiche economiche moderne, facilitando così la raccolta statistica, l’elaborazione di politiche pubbliche più efficaci e una gestione più precisa delle comunicazioni tra imprese e Pubblica Amministrazione.

Importante sottolineare che l’aggiornamento dei codici ATECO sarà automatico: le Camere di Commercio provvederanno a modificare la classificazione in visura camerale senza la necessità di intervento diretto da parte del contribuente. In visura, tuttavia, sarà possibile consultare sia il nuovo codice ATECO 2025 che quello precedente, garantendo così continuità informativa e trasparenza. Un passaggio che rappresenta una svolta nel rapporto tra imprese e istituzioni, semplificando anche le operazioni di aggiornamento per i professionisti del settore fiscale e contabile.

Perché nasce ATECO 2025

La revisione della classificazione ATECO nasce dall’esigenza di fotografare con maggiore precisione un’economia in continua trasformazione. L’ultima versione di riferimento, ATECO 2007, non era più in grado di rappresentare correttamente l’evoluzione del tessuto produttivo, in particolare nei settori emergenti legati all’innovazione digitale, alla green economy e ai servizi ad alto valore aggiunto. Negli ultimi anni, si sono affermate nuove figure professionali, modelli di business ibridi e settori completamente inediti che rendevano la vecchia classificazione obsoleta e poco funzionale, sia dal punto di vista statistico che fiscale.

ATECO 2025 è il risultato dell’adeguamento della classificazione nazionale a quella europea NACE Rev. 2.1 e a quella internazionale ISIC Rev. 5. Questo allineamento consente una migliore comparabilità dei dati economici a livello europeo e globale, favorendo politiche economiche più coerenti e mirate, ma anche semplificando la vita delle imprese che operano a livello internazionale. Un ulteriore obiettivo è quello di facilitare la digitalizzazione delle procedure amministrative e fiscali, attraverso codici più aderenti alla realtà operativa delle imprese.

La nuova classificazione risponde, inoltre, alla necessità di intercettare fenomeni economici e sociali come il lavoro digitale, l’economia circolare, le nuove energie, i servizi basati su piattaforme online e le attività legate al benessere e alla cura della persona. Tutti ambiti che, fino ad oggi, venivano inquadrati in modo approssimativo o non venivano affatto considerati nel sistema ATECO.

Cosa cambia

L’introduzione di ATECO 2025 comporta alcune novità importanti dal punto di vista pratico e operativo. La prima buona notizia è che l’aggiornamento dei codici ATECO avverrà in modo automatico: non sarà necessario presentare istanze o comunicazioni da parte dei titolari di partita IVA. Saranno infatti le Camere di Commercio, in coordinamento con l’ISTAT, ad aggiornare la classificazione d’ufficio all’interno delle visure camerali.

In visura sarà possibile visualizzare sia il nuovo codice ATECO 2025 sia quello precedente (2007), così da garantire la tracciabilità storica e semplificare ogni confronto con la documentazione pregressa, anche ai fini fiscali o statistici. Questo è un aspetto particolarmente rilevante per consulenti fiscali, commercialisti e studi professionali che dovranno continuare a gestire documenti basati su entrambe le classificazioni per un certo periodo.

Un altro aspetto fondamentale è che ATECO 2025 riconosce molte nuove attività economiche che prima non erano correttamente codificate o che venivano aggregate in categorie generiche. Tra queste, troviamo attività come i servizi di influencer marketing, i creator di contenuti digitali, le piattaforme per la consegna di beni e servizi, le attività legate alla sostenibilità ambientale, il trattamento dei rifiuti elettronici e molto altro. Questo permetterà una maggiore precisione nella gestione fiscale, una più corretta assegnazione dei contributi, e anche l’accesso più mirato a bandi e incentivi.

Vantaggi fiscali ed economici

Uno dei principali vantaggi dell’adozione di ATECO 2025 è la possibilità per imprese e professionisti di accedere con maggiore precisione a incentivi, agevolazioni fiscali e contributi pubblici. La nuova classificazione permette infatti di identificare con chiarezza le attività economiche, evitando ambiguità interpretative che in passato potevano generare esclusioni o difficoltà nell’ottenimento di fondi, bandi o crediti d’imposta.

Grazie a una codifica più dettagliata e coerente con la realtà economica, ATECO 2025 agevola la definizione di misure fiscali mirate, come il riconoscimento di specifici bonus per settori strategici (ad esempio, green economy, innovazione tecnologica, economia digitale). Le Pubbliche Amministrazioni potranno così erogare risorse economiche in maniera più efficiente, riducendo al minimo il rischio di errori o contestazioni.

Per le nuove attività, avere un codice ATECO più “centrato” rispetto al business effettivo significa poter accedere fin da subito a tutte le opportunità riservate al proprio settore: bandi regionali, agevolazioni per start-up innovative, contributi a fondo perduto, sgravi previdenziali, credito d’imposta per investimenti e formazione 4.0.

Anche per chi già opera, la riclassificazione automatica potrebbe sbloccare nuove possibilità di accesso a misure che, sotto la vecchia codifica, non risultavano compatibili. È dunque fondamentale che imprese e consulenti verifichino attentamente l’esito dell’aggiornamento automatico, per valutare eventuali opportunità da cogliere.

Implicazioni contabili e fiscali

Con l’entrata in vigore di ATECO 2025, anche la gestione fiscale e contabile delle attività dovrà adattarsi alla nuova codificazione. Sebbene l’aggiornamento dei codici in visura camerale sia automatico, resta fondamentale che le imprese, i commercialisti e i consulenti del lavoro verifichino l’esattezza del nuovo codice assegnato, per evitare problemi nei rapporti con l’Agenzia delle Entrate, l’INPS o altri enti pubblici.

Molte agevolazioni fiscali, adempimenti contributivi, regimi forfettari e obblighi dichiarativi si basano proprio sul codice ATECO. Un errore o una mancata corrispondenza tra l’attività effettiva e il codice assegnato potrebbe comportare rischi fiscali, esclusioni da benefici o contestazioni in sede di controllo. Per questo motivo è consigliabile che ogni azienda, con il supporto del proprio commercialista, effettui un controllo incrociato tra la descrizione dell’attività esercitata e la nuova codifica.

Per i professionisti, sarà fondamentale aggiornare i software gestionali, le banche dati e i modelli precompilati utilizzati per dichiarazioni, pratiche camerali, DURC e domande di contributo. Alcuni enti potrebbero continuare a utilizzare temporaneamente il vecchio codice ATECO 2007 per motivi di compatibilità, per cui sarà necessario gestire una fase transitoria con doppia codifica.

Infine, anche per chi desidera aprire una nuova attività nel 2025, sarà essenziale utilizzare i nuovi codici fin da subito: questo garantirà una corretta iscrizione, una classificazione precisa ai fini statistici e l’accesso immediato a eventuali vantaggi previsti per il proprio settore.

ATECO 2025 nei settori emergenti

Con ATECO 2025 entrano ufficialmente nel sistema classificatorio italiano molte attività che fino ad oggi erano difficilmente inquadrabili o classificate in modo troppo generico. È il caso, ad esempio, degli influencer, dei content creator, degli sviluppatori di app e videogiochi, ma anche di chi si occupa di energia rinnovabile, consulenza ambientale o servizi digitali avanzati.

Prima, un professionista che si occupava di marketing digitale, per esempio, poteva essere costretto a scegliere un codice generico come “attività di consulenza aziendale” o “altri servizi di informazione”. Ora, invece, esistono codici ATECO specifici per attività legate ai social media, all’e-commerce, alla cybersecurity e alle tecnologie green. Questo non solo offre una rappresentazione più fedele dell’attività svolta, ma consente anche l’accesso a incentivi dedicati a settori innovativi.

Un altro caso emblematico riguarda le start-up innovative: con ATECO 2007 molte non riuscivano a inquadrare correttamente la propria attività, con il rischio di perdere i benefici fiscali previsti dalla normativa specifica. Con la nuova classificazione, invece, è più semplice dimostrare la coerenza tra l’oggetto sociale e l’attività dichiarata, riducendo tempi e incertezze nella fase di valutazione da parte degli enti pubblici.

Anche per attività più tradizionali, come l’agricoltura 4.0, l’artigianato digitale o la logistica sostenibile, ATECO 2025 rappresenta una svolta organizzativa e fiscale, utile per intercettare fondi europei e nazionali destinati alla transizione digitale ed ecologica.

Procedura e strumenti utili

L’accesso al nuovo codice ATECO 2025 è completamente automatizzato per tutte le imprese già attive. Dal 1° aprile 2025, le Camere di Commercio stanno procedendo all’aggiornamento d’ufficio delle classificazioni presenti nelle visure camerali. Questo significa che non è necessario inviare alcuna comunicazione o fare domande specifiche: il sistema camerale si occupa autonomamente della conversione dal codice ATECO 2007 a quello 2025, secondo una mappatura ufficiale fornita dall’ISTAT.

Per verificare il nuovo codice assegnato, è sufficiente:

  1. Accedere al portale del Registro delle Imprese (www.registroimprese.it) tramite SPID, CNS o CIE.

  2. Scaricare la visura camerale aggiornata della propria impresa.

  3. Verificare la sezione relativa all’attività economica: troverai indicati sia il codice ATECO 2025 che quello precedente (2007).

Nel caso in cui l’attività esercitata non sia coerente con il codice assegnato automaticamente, è possibile presentare una pratica di variazione tramite ComUnica (la comunicazione unica al Registro delle Imprese) o tramite il proprio commercialista. Questo vale anche per attività molto recenti o non ancora correttamente classificate.

Per chi apre una nuova partita IVA nel 2025, la scelta del codice ATECO deve essere fatta direttamente tra quelli della nuova classificazione 2025, consultabili sul sito ufficiale ISTAT o presso il portale Ateco.infocamere.it. È sempre consigliato farsi assistere da un professionista per evitare errori che potrebbero avere conseguenze fiscali o amministrative.

Risorse ufficiali

Per chi desidera approfondire la classificazione aggiornata e consultare nel dettaglio le descrizioni delle attività economiche incluse in ATECO 2025, è disponibile una serie di risorse ufficiali e gratuite. Lo strumento più completo e aggiornato è sicuramente il sito dell’ISTAT, in collaborazione con Unioncamere e Infocamere, dove è possibile visualizzare l’elenco completo dei codici, le relative descrizioni e le corrispondenze tra le versioni 2007 e 2025.

Il portale ufficiale messo a disposizione per la consultazione è raggiungibile al seguente link:

Nuovo codice ATECO 2025

All’interno di questa pagina è possibile:

  • Cercare un’attività economica per parola chiave;

  • Navigare per sezione, divisione e categoria;

  • Visualizzare le corrispondenze con la precedente classificazione ATECO 2007;

  • Scaricare i file in formato Excel o PDF per uso professionale.

Questa risorsa è particolarmente utile per:

  • Imprese in fase di apertura o variazione della propria attività;

  • Studi professionali e commercialisti che devono aggiornare le banche dati dei clienti;

  • Operatori interessati ad accedere a bandi, incentivi o contributi legati a specifiche categorie economiche.

È consigliabile effettuare una verifica preventiva del codice corretto prima di qualsiasi pratica ufficiale, per evitare errori che potrebbero rallentare l’iter burocratico o influenzare negativamente la fiscalità d’impresa.

Considerazioni finali

L’introduzione di ATECO 2025 rappresenta molto più di un semplice aggiornamento tecnico: si tratta di un cambiamento strutturale che rispecchia l’evoluzione dell’economia reale, offrendo alle imprese italiane uno strumento più preciso, moderno e utile per dialogare con la Pubblica Amministrazione, accedere a incentivi e gestire in modo più efficiente la propria posizione fiscale.

Grazie alla nuova classificazione, viene finalmente riconosciuta la diversificazione e l’innovazione che caratterizza il mercato attuale: dai servizi digitali alle attività green, dall’artigianato tecnologico ai nuovi modelli di business online. Le imprese potranno essere classificate meglio, sostenute con più efficacia e valorizzate anche in chiave strategica, soprattutto nell’ottica dell’accesso ai fondi europei del PNRR e alle agevolazioni previste nei prossimi anni.

È però fondamentale che ciascuna azienda, con il supporto del proprio commercialista o consulente fiscale, verifichi l’esattezza del codice assegnato e sfrutti le opportunità derivanti dalla nuova codifica, anche in ottica di ottimizzazione fiscale e pianificazione strategica.

ATECO 2025 è, in definitiva, una chiave di lettura moderna dell’economia italiana, pensata per rendere più trasparente, efficiente e digitale il rapporto tra imprese e istituzioni. Non coglierne i benefici significherebbe perdere un’occasione concreta per crescere e innovare in modo consapevole e sostenibile.

Conferimento partecipazioni in holding: le regole in vigore dal 2025 con il nuovo comma 2-bis dell’art. 177 TUIR

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top-quality service guarantee and ISO certification and standardization idea emblazoned on the shoulders of a businessman

Il conferimento di partecipazioni in società holding rappresenta da anni una strategia chiave per l’ottimizzazione fiscale, la pianificazione patrimoniale e la protezione del patrimonio. Tuttavia, dal 31 dicembre 2024, con l’introduzione del nuovo comma 2-bis all’art. 177 del TUIR, questo strumento subirà una modifica cruciale che impatta soprattutto le partecipazioni qualificate.

Queste nuove disposizioni mirano a contrastare un uso distorto dell’operazione di conferimento di partecipazioni, utilizzata da alcuni contribuenti per ottenere benefici fiscali in modo “artificioso”, soprattutto in caso di plusvalenze latenti. Le nuove regole mirano dunque a rafforzare la coerenza del regime di neutralità fiscale, evitando abusi e pianificazioni aggressive, soprattutto in ambito di operazioni “intercompany” o tra soggetti collegati.

In questo articolo analizzeremo nel dettaglio il funzionamento del conferimento di partecipazioni in una holdingsecondo il regime ordinario previsto dall’art. 177 del TUIR, soffermandoci poi sulle novità introdotte dal nuovo comma 2-bis, entrato in vigore dal 31 dicembre 2024. Approfondiremo come cambia il regime di neutralità fiscale, quali sono le implicazioni pratiche e fiscali sia per chi conferisce le partecipazioni sia per le società conferitarie, e infine illustreremo le strategie legali più efficaci per risparmiare sulle tasse, anche nel nuovo contesto normativo. Un approfondimento pensato per imprenditori, professionisti e famiglie che utilizzano le holding come strumento di pianificazione patrimoniale e societaria.

Il regime ordinario

Il conferimento di partecipazioni è un’operazione fiscalmente neutrale quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 177, comma 2 del TUIR. In sostanza, questa norma consente a una persona fisica o giuridica di trasferire le proprie partecipazioni (in genere in società operative) a una società conferitaria (spesso una holding), ottenendo in cambio quote o azioni della stessa, senza realizzare immediatamente la plusvalenza latente.

La logica della neutralità fiscale risiede nel fatto che l’operazione di conferimento non comporta una dismissione effettiva dell’investimento, ma una semplice riorganizzazione societaria. È però fondamentale che, al termine dell’operazione, la società conferitaria ottenga o integri il controllo della società le cui partecipazioni sono oggetto del conferimento, ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1 del Codice Civile.

In questo scenario, il conferente riceve quote della nuova società (holding), assumendo come valore fiscalmente riconosciuto delle partecipazioni ricevute, quello delle partecipazioni conferite, con conseguente rinvio dell’imposizione fiscale al momento della futura cessione. È quindi un vantaggio potente per chi vuole pianificare il passaggio generazionale o semplificare una struttura societaria.

Tuttavia, proprio per via di questo beneficio, negli ultimi anni si è assistito a un uso sempre più “strategico” di tale meccanismo, tanto da spingere il legislatore a introdurre paletti e controlli con il nuovo comma 2-bis.

Nuovo comma 2-bis

La riforma dell’art. 177 del TUIR, con l’introduzione del comma 2-bis, nasce da una precisa esigenza del legislatore: contrastare l’utilizzo elusivo o artificioso del conferimento di partecipazioni in regime di neutralità fiscale. In particolare, il nuovo testo si propone di bloccare quei conferimenti “fittizi” in cui la finalità non è una vera riorganizzazione aziendale, ma soltanto il differimento del carico fiscale su plusvalenze potenzialmente molto elevate.

Molti soggetti, infatti, sfruttavano il meccanismo del conferimento per trasferire partecipazioni con plusvalenze latenti a una holding di comodo (spesso appena costituita), ottenendo in cambio partecipazioni di pari valore nominale. La cessione successiva delle partecipazioni da parte della holding – magari a breve distanza di tempo – permetteva di realizzare plusvalenze tassate in misura ridotta o addirittura differite per anni.

Queste operazioni, pur formalmente corrette, risultavano prive di una reale sostanza economica. Secondo l’Agenzia delle Entrate e la giurisprudenza, rientravano nell’ambito delle operazioni elusive o abusive, come definite dall’art. 10-bis della Legge 212/2000 (Statuto del Contribuente).

Il nuovo comma 2-bis è quindi pensato per restringere l’applicazione del regime di neutralità, imponendo che – in determinati casi – le partecipazioni ricevute dalla holding assumano un valore fiscalmente riconosciuto pari al valore normale delle partecipazioni conferite, e non al loro costo storico. Questo determina un impatto fiscale immediato sul conferente.

Cosa prevede

Il nuovo comma 2-bis dell’articolo 177 del TUIR, introdotto dall’art. 1, comma 64, della Legge di Bilancio 2023, entrato in vigore il 31 dicembre 2024 e rappresenta una svolta nell’applicazione del regime di neutralità fiscale per i conferimenti di partecipazioni qualificate.

La norma stabilisce che, nei casi in cui il conferimento abbia ad oggetto partecipazioni che attribuiscono il controllo, il regime di realizzo controllato (e quindi il differimento d’imposta) non si applica se:

  • la società conferitaria è una holding non operativa, ossia priva di una reale attività economica;

  • la società conferitaria non detiene una partecipazione preesistente nella società conferita;

  • oppure se le modalità dell’operazione indicano una prevalente finalità elusiva.

In queste situazioni, le partecipazioni ricevute dalla holding a fronte del conferimento assumeranno un valore fiscalmente riconosciuto pari al valore normale (valore di mercato) delle partecipazioni conferite, e non più il valore fiscalmente riconosciuto in capo al conferente. Questo comporta l’emersione immediata della plusvalenza, con tassazione in capo al soggetto che conferisce.

Una particolarità importante: non si tratta di una norma che vieta tali operazioni, ma che revoca il beneficio della neutralità se l’operazione risulta priva di sostanza economica o finalizzata principalmente a differire la tassazione. Il legislatore punta quindi sulla coerenza tra forma e sostanza, per evitare che la creazione di holding fittizie diventi un canale per aggirare l’imposizione.

Casi pratici

Con l’introduzione del comma 2-bis, le operazioni di conferimento dovranno essere attentamente valutate, poiché in presenza di certe condizioni verrà meno il vantaggio fiscale del regime di realizzo controllato. I casi più a rischio riguardano i conferimenti in holding neocostituite o “vuote”, prive cioè di reale sostanza economica.

Esempio pratico: un imprenditore detiene una partecipazione qualificata in una società operativa con un valore di mercato di 5 milioni di euro e un costo fiscale di 500.000 euro. Decide di costituire una nuova holding e conferire la partecipazione. In assenza del nuovo comma 2-bis, l’operazione sarebbe stata fiscalmente neutra. Ma dal 31.12.2024, se la holding è “vuota” e l’operazione non ha finalità economiche genuine, il Fisco potrebbe disapplicare la neutralità e considerare la plusvalenza di 4,5 milioni immediatamente tassabile.

In pratica, la holding riceverà la partecipazione a un valore normale (5 milioni), ma per il conferente ciò genera una plusvalenza imponibile al momento del conferimento. L’aliquota applicabile sarà quella sulle plusvalenze per persone fisiche o società, a seconda del soggetto.

Questo cambia radicalmente la convenienza fiscale di molte operazioni. Inoltre, sarà necessario documentare con attenzione le motivazioni economiche dell’operazione per evitare contestazioni in sede di controllo. La sostanza economica torna al centro dell’analisi, come già previsto dalla disciplina antiabuso.

Quando resta valida la neutralità fiscale

Nonostante l’introduzione del comma 2-bis, il conferimento di partecipazioni in una holding potrà ancora beneficiare del regime di realizzo controllato, ma solo se vengono rispettate determinate condizioni sostanziali. Il legislatore, infatti, non ha abolito il principio di neutralità, ma ha voluto limitarne l’uso ai soli casi in cui vi sia una effettiva riorganizzazione aziendale.

Perché la neutralità fiscale si applichi, devono essere rispettati i requisiti ordinari già previsti dal comma 2 dell’art. 177 TUIR, ovvero:

  • Il conferente deve trasferire alla holding partecipazioni che attribuiscono o integrano il controllo;

  • La società conferitaria (holding) deve ricevere tale controllo in via diretta;

  • L’operazione deve essere sorretta da valide ragioni economiche e non deve apparire come puramente strumentale al rinvio della tassazione.

Ma ora, con il comma 2-bis, diventa cruciale che la holding abbia sostanza economica, ovvero una struttura minima operativa, come:

  • un organico (anche ridotto),

  • un patrimonio separato,

  • una gestione autonoma,

  • attività economiche effettive (ad es. gestione di partecipazioni, incassi di dividendi, investimenti, operazioni finanziarie, ecc.).

La presenza di partecipazioni pregresse nella stessa società conferita da parte della holding è un elemento che può rafforzare la non elusività dell’operazione.

In sostanza, più la holding è “vera” e non costruita ad hoc per il conferimento, più è probabile che il regime agevolato venga riconosciuto.

Holding di famiglia e passaggio generazionale

Le holding di famiglia sono da anni uno strumento chiave nella pianificazione del passaggio generazionale: permettono di concentrare il controllo delle partecipazioni in una struttura unitaria, semplificare la gestione, evitare frammentazioni e agevolare la successione. Il conferimento delle partecipazioni nella holding consente spesso di rimandare l’imposizione fiscale grazie alla neutralità del realizzo controllato.

Tuttavia, con il nuovo comma 2-bis dell’art. 177 TUIR, anche queste operazioni familiari rischiano di perdere la neutralità fiscale se non strutturate con attenzione.

Se la holding è costituita ex novo, senza attività precedente, senza sostanza o senza una pregressa partecipazione nella società conferita, l’Agenzia delle Entrate potrebbe considerare l’operazione elusiva.

È quindi fondamentale che, nella pianificazione familiare, si tenga conto dei nuovi paletti normativi:

  • La holding deve esercitare un’attività effettiva, come la gestione delle partecipazioni o di beni immobili;

  • Devono esserci ragioni economiche documentabili, come la volontà di concentrare il controllo o proteggere il patrimonio familiare;

  • È utile predisporre un business plan o una relazione tecnica che illustri le finalità della holding, da esibire in caso di controlli.

L’obiettivo rimane perseguibile, ma con maggiore rigore documentale e sostanziale. Un’operazione fatta bene, con fondamento economico e struttura adeguata, continuerà a godere del vantaggio fiscale. Tuttavia, le soluzioni “di facciata”, costruite solo per il risparmio d’imposta, saranno penalizzate.

Come risparmiare legalmente

Nonostante i nuovi limiti imposti dal comma 2-bis, risparmiare legalmente sulle tasse tramite il conferimento di partecipazioni in holding resta possibile, a patto che l’operazione sia progettata correttamente e basata su presupposti economici solidi.

Ecco alcune strategie legittime che permettono di continuare a sfruttare i benefici fiscali:

  1. Costituire una holding con sostanza: una holding operativa, con struttura organizzativa minima, un bilancio, attività gestionali o investimenti dimostrabili, difficilmente sarà considerata elusiva. Anche un piccolo storico operativo può fare la differenza.

  2. Intestare le partecipazioni alla holding gradualmente: se la holding possiede già una partecipazione nella società target, il successivo conferimento può apparire più coerente e meno artificioso.

  3. Integrare strumenti di pianificazione successoria: inserire la holding in un disegno più ampio di passaggio generazionale, magari affiancandola a un patto di famiglia o a un trust, aiuta a motivare l’operazione sotto il profilo della sostanza.

  4. Redigere una documentazione a supporto: una relazione che esponga le finalità economiche, patrimoniali e familiari dell’operazione può essere un elemento difensivo molto utile in caso di accertamento.

  5. Valutare soluzioni alternative: in alcuni casi, può essere più conveniente vendere direttamente le partecipazioni alla holding, anche a prezzo di mercato, e reinvestire i proventi. Oppure considerare un conferimento non in regime di realizzo controllato, ma con tassazione ordinaria, se ciò consente un uso più efficiente delle perdite pregresse o della PEX (participation exemption).

In sintesi, l’era delle holding “fantasma” è finita, ma la pianificazione fiscale intelligente è tutt’altro che morta: va solo resa più robusta, trasparente e coerente con la realtà economica.

Il ruolo dell’Agenzia delle Entrate

Con l’introduzione del comma 2-bis all’art. 177 del TUIR, l’Agenzia delle Entrate assume un ruolo ancora più centrale nel valutare la validità fiscale dei conferimenti di partecipazioni, in particolare quando coinvolgono holding neocostituite o “sospette”.

Non essendo la norma di tipo antielusivo in senso stretto, l’Amministrazione non dovrà più avviare una complessa procedura ex art. 10-bis della Legge 212/2000 per disconoscere l’operazione: potrà applicare direttamente la regola del valore normale, qualora rilevi che il conferimento ha finalità elusive o manchi di sostanza economica.

Questo cambia l’approccio anche in ottica difensiva: sarà il contribuente a dover dimostrare la coerenza economica dell’operazione, la struttura della holding, il progetto imprenditoriale o patrimoniale alla base del conferimento. In assenza di tali elementi, il rischio è di vedersi disconosciuto il regime di realizzo controllato e subire l’imposizione immediata della plusvalenza.

Cosa può fare l’Agenzia delle Entrate in caso di operazione considerata “non genuina”:

  • Ricalcolo del valore fiscalmente riconosciuto delle partecipazioni ricevute dalla holding;

  • Tassazione immediata della plusvalenza latente in capo al soggetto conferente;

  • Eventuale applicazione di sanzioni per infedele dichiarazione, se si ritiene che il contribuente abbia agito senza diligenza.

È quindi fondamentale dotarsi, fin dall’inizio, di una documentazione solida e coerente (relazioni tecniche, bilanci, organigrammi, contratti, verbali, ecc.), per prevenire contestazioni o per difendersi efficacemente in sede di accertamento o contenzioso.

Prima e dopo il 31 dicembre 2024

Per comprendere appieno l’impatto della riforma, è utile confrontare la disciplina prima e dopo l’entrata in vigore del nuovo comma 2-bis dell’art. 177 TUIR. In passato, il conferimento di partecipazioni qualificate a favore di una holding che otteneva il controllo della società conferita beneficiava sempre della neutralità fiscale, a prescindere dalla sostanza economica dell’operazione.

FINO AL 30/12/2024:

  • Il conferente poteva trasferire partecipazioni con elevate plusvalenze latenti in una holding (anche appena costituita) e ottenere quote della stessa;

  • Il valore fiscale delle nuove partecipazioni era pari al costo storico delle partecipazioni conferite;

  • L’imposizione sulla plusvalenza era differita alla futura cessione delle nuove quote;

  • Nessuna verifica specifica sull’operatività o sostanza della holding.

DAL 31/12/2024:

  • La neutralità fiscale non si applica se la holding è priva di sostanza, non ha partecipazioni preesistenti o se l’operazione è priva di motivazioni economiche concrete;

  • Le partecipazioni ricevute dalla holding assumono il valore normale (di mercato), generando immediatamente plusvalenze tassabili per il conferente;

  • La sostanza economica della holding e le ragioni dell’operazione diventano requisiti fondamentali;

  • Aumenta il rischio di accertamento e rettifica da parte del Fisco.

In sintesi, il nuovo comma 2-bis impone un cambio di paradigma: il focus si sposta dalla forma alla sostanza, premiando chi costruisce operazioni coerenti, strutturate e trasparenti. Le strutture opache o meramente strumentali non solo perderanno i vantaggi fiscali, ma potranno anche esporsi a sanzioni.

Considerazioni finali

Dal 31 dicembre 2024, il nuovo comma 2-bis dell’art. 177 del TUIR è pienamente operativo. Le regole sui conferimenti di partecipazioni in regime di neutralità fiscale sono cambiate radicalmente: oggi, la sostanza economica dell’operazione è un requisito imprescindibile. Le operazioni prive di reale contenuto imprenditoriale, economico o gestionale non godono più del beneficio del realizzo controllato, con tassazione della plusvalenza sin dal momento del conferimento.

Chi sta valutando oggi un’operazione di conferimento in una holding – specie se neocostituita o inattiva – deve tenere conto di queste nuove restrizioni operative e fiscali. I margini di manovra si sono ridotti, ma la pianificazione fiscale rimane possibile e legittima, a patto che venga strutturata correttamente.

Il conferimento di partecipazioni non è più un automatismo fiscale, ma un’operazione da costruire con consapevolezza, visione e rigore. Chi saprà dimostrare la bontà del progetto imprenditoriale o familiare potrà ancora godere dei benefici della neutralità fiscale, nel pieno rispetto delle nuove regole.

Pignoramento casa con figlio minore: cosa dice la legge, sentenze e come difendersi

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Il pignoramento di un immobile è sempre una questione delicata, ma lo diventa ancor di più quando si tratta dell’abitazione in cui risiede un figlio minore. Cosa succede in questi casi? La legge tutela i minori? È possibile bloccare il pignoramento di una casa se in essa abita un bambino? Sono domande che molti genitori si pongono, spesso in un momento di forte difficoltà economica.

In questo articolo analizzeremo cosa dice la legge italiana, come funziona il pignoramento immobiliare, quali sono i limiti imposti dalla giurisprudenza quando è coinvolto un minore, e soprattutto quali strumenti legali ha a disposizione chi si trova in questa situazione.

Cos’è

Il pignoramento immobiliare è una procedura esecutiva disciplinata dal Codice di Procedura Civile italiano (artt. 555 e seguenti) e rappresenta uno degli strumenti che i creditori possono utilizzare per recuperare i propri crediti. In pratica, se un debitore non adempie volontariamente al pagamento di quanto dovuto, il creditore può attivare un procedimento che porta alla vendita forzata dei beni immobili intestati al debitore, con successiva distribuzione del ricavato tra i creditori.

La procedura inizia con un atto di precetto, con cui il creditore intima al debitore di pagare entro 10 giorni. Se il pagamento non avviene, si può procedere con il pignoramento vero e proprio, notificando un atto che colpisce uno o più beni immobili. A questo punto il bene pignorato viene iscritto nei registri immobiliari, ed è successivamente messo all’asta tramite il tribunale.

Nel corso della procedura, il debitore può tentare di opporsi o di trovare un accordo per la sospensione della vendita, ma in assenza di soluzioni alternative l’immobile viene venduto, spesso a un prezzo inferiore rispetto al valore di mercato.

In linea generale, non esistono limiti assoluti al pignoramento della prima casa, salvo che essa non sia l’unico immobile posseduto e non sia oggetto di ipoteca da parte di Agenzia delle Entrate Riscossione: in quel caso, la legge (art. 76 del DPR 602/1973) impone specifici limiti. Tuttavia, la presenza di un figlio minore residente nell’immobile introduce variabili importanti che la giurisprudenza ha affrontato con maggiore sensibilità negli ultimi anni.

La presenza di un figlio minore

Quando nell’immobile oggetto di pignoramento risiede un figlio minore, il caso assume contorni particolarmente delicati, in quanto entrano in gioco principi costituzionali fondamentali, come il diritto all’abitazione (art. 47 Cost.) e la tutela del minore (art. 30 e 31 Cost.). Nonostante ciò, va chiarito che la legge italiana non prevede un divieto assoluto di pignorare un’abitazione solo perché in essa vive un bambino. Tuttavia, la giurisprudenza, e in particolare la Cassazione, ha più volte ribadito la necessità di valutare attentamente la situazione familiare.

In diverse sentenze, i giudici hanno sottolineato che, sebbene l’esecuzione forzata sia un diritto del creditore, essa non può essere esercitata in modo indiscriminato e deve comunque rispettare la dignità e la tutela del nucleo familiare. In particolare, la Cassazione civile, sez. III, sentenza n. 21524/2019, ha stabilito che l’esecuzione deve essere “proporzionata” e che il giudice dell’esecuzione può valutare l’impatto che la vendita forzata può avere sul benessere del minore.

Un altro importante punto è il ruolo del giudice tutelare, che può intervenire nel procedimento per garantire che siano rispettati i diritti del minore, soprattutto nel caso in cui la perdita dell’abitazione possa portare a condizioni di precarietà abitativa o instabilità familiare.

In alcuni casi, su richiesta del debitore o dei servizi sociali, i tribunali hanno sospeso temporaneamente il pignoramento, in attesa di trovare soluzioni alternative che non compromettessero la crescita serena del bambino.

Sentenze della Cassazione

Nel tempo, la giurisprudenza di legittimità si è espressa più volte sul tema del pignoramento di immobili occupati da nuclei familiari con figli minori. Le sentenze più significative non negano il diritto del creditore a procedere, ma introducono elementi di valutazione discrezionale da parte del giudice dell’esecuzione.

Una delle più citate è la sentenza n. 21524 del 20 agosto 2019, con cui la Corte di Cassazione, Sezione III Civile, ha affermato che:

Il giudice dell’esecuzione deve verificare se la vendita forzata comporti conseguenze gravi e sproporzionate per il debitore e per la sua famiglia, in particolare se presenti minori.”

La sentenza richiama il principio della proporzionalità dell’esecuzione, già espresso anche in sede europea, facendo riferimento all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare. In presenza di un minore, il giudice deve tener conto delle condizioni sociali, economiche e personali del debitore, valutando anche la possibilità di posticipare o sospendere l’asta per evitare pregiudizi gravi.

Un’altra pronuncia importante è la sentenza n. 679/2021, che ha sottolineato come, in determinati contesti, la casa familiare in cui risiede un minore non possa essere facilmente assimilata a un “bene disponibile” sul mercato, richiamando anche i doveri di solidarietà familiare e la centralità del minore nell’ordinamento.

Queste decisioni non cancellano il rischio di pignoramento, ma rafforzano la possibilità di chiedere una sospensione o una rimodulazione dell’esecuzione, specie se si dimostra che la perdita dell’immobile avrebbe impatti devastanti sul minore.

Iter pratico

Chi si trova coinvolto in una procedura di pignoramento immobiliare e ha un figlio minore residente nell’abitazione può richiedere al giudice dell’esecuzione una sospensione dell’iter esecutivo. È fondamentale agire tempestivamente, già dopo aver ricevuto l’atto di precetto o al massimo entro l’avvio della procedura esecutiva.

Ecco i principali passaggi operativi:

  1. Verifica della residenza
    È necessario dimostrare che il figlio minore è effettivamente residente nell’immobile e che si tratta della casa familiare principale. Il certificato di residenza, lo stato di famiglia e, se possibile, documentazione scolastica o sanitaria, possono rafforzare la prova.

  2. Ricorso al giudice dell’esecuzione
    Attraverso un avvocato, si può depositare un ricorso presso il tribunale competente, chiedendo la sospensione della procedura di vendita forzata ai sensi dell’art. 624 c.p.c., motivando la richiesta con il rischio concreto di pregiudicare il benessere psicofisico del minore.

  3. Intervento dei servizi sociali
    Una relazione dei servizi sociali comunali può essere decisiva. Questi, su richiesta dell’avvocato o direttamente del tribunale, valutano l’impatto che la perdita dell’abitazione avrebbe sul minore, e possono supportare la richiesta di sospensione o soluzioni alternative.

  4. Richiesta di piano di rientro
    Se il debitore è in grado di proporre un piano di rientro sostenibile del debito, ciò può convincere il giudice a sospendere la procedura per un certo periodo, in attesa di verificare il rispetto degli accordi.

  5. Coinvolgimento del giudice tutelare
    Nei casi più delicati, il giudice tutelare può essere chiamato in causa per vigilare sulla tutela del minore, specie se il pignoramento rischia di causare uno sfratto forzato e una situazione abitativa critica.

Va detto che ogni tribunale può avere prassi leggermente differenti, ma in generale questi strumenti sono riconosciuti e utilizzabili a livello nazionale. La tempestività e una documentazione solida fanno spesso la differenza tra un rigetto e una sospensione della procedura.

Esempi pratici

Caso 1: sospensione dell’asta per tutela del minore

In provincia di Roma, una famiglia composta da due genitori e un bambino di 6 anni riceve un atto di pignoramento relativo alla prima casa, a seguito di un debito bancario non saldato. L’avvocato presenta al tribunale un ricorso urgente, allegando certificati di residenza, una relazione dei servizi sociali e una dichiarazione della scuola frequentata dal minore. Il giudice, valutata la documentazione e il contesto economico precario della famiglia, dispone la sospensione della vendita all’asta per 6 mesi, invitando le parti a valutare un accordo transattivo.

Caso 2: intervento del giudice tutelare

A Napoli, una madre single con un bambino di 9 anni rischia di perdere l’abitazione dopo il pignoramento attivato da una finanziaria. L’avvocato della donna coinvolge il giudice tutelare, che esprime parere negativo allo sfratto esecutivo, in quanto avrebbe causato uno “stravolgimento emotivo e logistico” per il minore, già seguito dai servizi sociali per difficoltà relazionali. Il tribunale dispone un rinvio a data da destinarsi della procedura esecutiva.

Caso 3: rigetto della richiesta di sospensione

A Milano, invece, in un contesto diverso, una coppia con due figli minori non riesce a ottenere la sospensione del pignoramento. Il giudice ritiene che, nonostante la presenza dei minori, non siano state dimostrate condizioni di reale disagio abitativo, anche perché il debitore possedeva un altro immobile non pignorato. Il procedimento d’asta prosegue.

Questi esempi dimostrano che la presenza di figli minori non blocca automaticamente il pignoramento, ma può influire notevolmente sull’esito del giudizio, soprattutto se viene dimostrato che lo sfratto creerebbe una situazione di rischio per il minore.

Pignoramento della prima casa

Nel dibattito sul pignoramento immobiliare, uno dei punti più fraintesi è la presunta “impignorabilità della prima casa”. In realtà, la prima casa può essere pignorata, ma solo a determinate condizioni e a seconda di chi è il creditore. La normativa di riferimento è l’art. 76 del DPR 602/1973, che riguarda esclusivamente l’Agenzia delle Entrate Riscossione.

Secondo questa norma, la prima casa non può essere pignorata se:

  • È l’unico immobile di proprietà del debitore;

  • Non è un bene di lusso (cioè non è accatastata nelle categorie A/1, A/8 o A/9);

  • È adibita ad uso abitativo e vi risiede anagraficamente il debitore.

Queste tutele valgono solo nei confronti dell’Agente della Riscossione (ex Equitalia). Un creditore privato, come una banca o una finanziaria, può invece pignorare la prima casa anche se il debitore ci vive con la propria famiglia. Tuttavia, la presenza di figli minori può influire sull’esito dell’esecuzione, come abbiamo visto, e può diventare elemento di valutazione per il giudice, soprattutto se si configurano situazioni di grave disagio o mancanza di alternative abitative.

È inoltre importante ricordare che il pignoramento non equivale allo sfratto immediato. Anche se l’immobile viene venduto all’asta, il nuovo proprietario dovrà avviare un ulteriore procedimento per ottenere il rilascio dell’immobile, durante il quale possono essere avanzate ulteriori istanze di tutela del minore.

Strategie difensive legali e fiscali

Quando si è proprietari di un immobile e si rischia il pignoramento, ci sono diverse strategie preventive e difensive che si possono attivare, anche tenendo conto della presenza di un figlio minore. L’obiettivo è tutelare l’abitazione, evitare la vendita forzata e, dove possibile, ristrutturare il debito.

1. Trasformare l’immobile in bene impignorabile (con cautela)

È possibile, ad esempio, intestare l’immobile in usufrutto al minore, mantenendo la nuda proprietà ai genitori. Tuttavia, questa operazione deve avvenire prima del sorgere del debito e deve essere giustificata da reali motivazioni familiari (es. donazione per successione anticipata). Altrimenti, rischia di essere considerata revocabile come atto in frode ai creditori (art. 2901 c.c.).

2. Fondo patrimoniale

Se non ancora costituito, è possibile creare un fondo patrimoniale (artt. 167-171 c.c.), destinando l’immobile alla soddisfazione esclusiva dei bisogni della famiglia. Anche in questo caso, funziona solo per debiti contratti successivamente alla sua costituzione e se il creditore non dimostra che il debito era stato contratto per esigenze familiari. La presenza di figli minori rafforza la protezione.

3. Concordato minore o sovraindebitamento

Per i debitori non fallibili (persone fisiche, piccoli imprenditori, partite IVA), la Legge 3/2012 consente di attivare procedure di ristrutturazione del debito. Con un buon piano proposto al tribunale, è possibile bloccare le procedure esecutive, salvare l’immobile e garantire la continuità abitativa per il nucleo familiare.

4. Opposizione all’esecuzione e sospensione giudiziale

Come già visto, si può proporre opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., facendo valere la presenza di minori, il mancato rispetto del principio di proporzionalità, o la possibilità di un danno grave per il bambino. Fondamentale è agire prima della vendita all’asta.

In tutte queste strategie, l’assistenza di un commercialista e di un avvocato esperto in diritto esecutivo e tutela della famiglia è essenziale per evitare errori e per costruire una difesa solida.

Considerazioni finali

Il pignoramento immobiliare rappresenta una delle situazioni più stressanti e complesse per una famiglia, e lo è ancora di più quando nell’abitazione vive un figlio minore. Abbiamo visto che la legge non esclude automaticamente il pignoramento in questi casi, ma impone una serie di valutazioni da parte del giudice, incentrate sul principio della proporzionalità e sulla tutela del minore, garantita sia dalla Costituzione che dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

È fondamentale sapere che esistono strumenti concreti per difendersi, come:

  • la richiesta di sospensione della procedura esecutiva;

  • l’intervento dei servizi sociali;

  • la costituzione di fondi patrimoniali o l’uso di strumenti come il concordato minore.

In ogni caso, il tempismo è decisivo: aspettare che la casa venga messa all’asta senza reagire può rendere ogni azione inutile. Rivolgersi tempestivamente a un commercialista e a un legale specializzato permette di valutare la strada più sicura per tutelare non solo l’immobile, ma soprattutto la serenità e la stabilità dei propri figli.

In un contesto economico sempre più instabile, informarsi e agire in tempo è il primo vero strumento di difesa. La casa non è solo un bene economico: è il cuore della vita familiare, e va difesa con ogni mezzo lecito.

Credito d’imposta ZLS 2025: regole, scadenze e vantaggi fiscali per le imprese del Mezzogiorno

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Nel panorama delle agevolazioni fiscali 2025, il credito d’imposta per gli investimenti nelle Zone Logistiche Semplificate (ZLS) rappresenta una delle misure più interessanti e vantaggiose per le imprese che operano (o intendono operare) nelle regioni del Mezzogiorno. La ZLS è un’area geografica, solitamente situata in prossimità di porti strategici, pensata per attrarre investimenti produttivi attraverso un quadro normativo semplificato e incentivi fiscali di rilievo. Con il Decreto MIMIT del 24 gennaio 2024, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 52 del 2 marzo 2024, sono state stabilite le regole definitive per fruire del credito d’imposta, con importanti novità per il 2025.

Il nuovo credito ZLS si inserisce nel più ampio contesto degli aiuti di Stato a finalità regionale, ed è compatibile con altri incentivi, purché nei limiti previsti dalla normativa europea. Le imprese che vogliono espandere o modernizzare la propria presenza in queste aree potranno beneficiare di agevolazioni fino al 60% del valore dell’investimento. Ma attenzione: la fruizione è vincolata a requisiti stringenti, documentazione precisa e al rispetto delle scadenze previste.

Vediamo in dettaglio chi può accedere al beneficio, quali investimenti sono agevolabili, le modalità di presentazione della domanda e tutte le novità fiscali contenute nella norma.

Credito ZLS 2025

Con la legge di conversione del Decreto-Legge n. 202/2024, il credito d’imposta per le Zone Logistiche Semplificate (ZLS) è stato ufficialmente prorogato, ampliando il periodo di eleggibilità degli investimenti. Le imprese potranno accedere al contributo per le spese in beni strumentali nuovi realizzate dal 1° gennaio 2025 fino al 15 novembre 2025. La misura si applica nel rispetto delle condizioni stabilite dall’articolo 13, comma 1, del Decreto-Legge n. 60/2024, rientrando così nel quadro normativo delle ZLS definite dalla legge n. 205/2017.

Il beneficio è concesso fino a un limite massimo di spesa complessiva di 80 milioni di euro per l’anno 2025.

In pratica, le aziende dovranno presentare due comunicazioni fondamentali all’Agenzia delle Entrate:

  • Prima finestra: dal 22 maggio al 23 giugno 2025, per comunicare l’importo delle spese sostenute e previste;

  • Seconda finestra: dal 20 novembre al 2 dicembre 2025, per aggiornare (a pena di decadenza) le spese effettivamente sostenute entro il 15 novembre.

Le modalità di invio sono stabilite nel Provvedimento n. 153474/2025, che approva modello e istruzioni ufficiali. Il calcolo finale del credito spettante sarà determinato applicando una percentuale, ancora da definire, che scaturirà dal rapporto tra il tetto di spesa (80 milioni) e il totale delle richieste valide. Qualora l’importo complessivo delle richieste sia inferiore al plafond, come accaduto nel 2024, l’agevolazione potrà arrivare fino al 100% del credito richiesto.

Chi può accedere

Il credito d’imposta per investimenti nelle ZLS 2025 è destinato alle imprese che effettuano investimenti in beni strumentali nuovi destinati a strutture produttive situate all’interno delle Zone Logistiche Semplificate, così come delimitate con Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (DPCM). Le ZLS sono attualmente attive in varie regioni del Mezzogiorno: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, e l’obiettivo è quello di rafforzare l’attrattività delle aree portuali e retroportuali tramite la semplificazione amministrativa e incentivi fiscali mirati.

Sono escluse dall’agevolazione:

  • Le imprese in stato di liquidazione o soggette a procedure concorsuali;

  • Le imprese che operano in settori espressamente esclusi dalla normativa sugli aiuti di Stato (es. siderurgia, carbone, trasporto, energia);

  • I soggetti che non risultano in regola con gli obblighi contributivi e fiscali.

È invece ammessa una vasta platea di beneficiari, comprese le imprese di qualsiasi dimensione, a condizione che l’investimento sia destinato ad attività produttive situate nella ZLS. La normativa consente la cumulabilità del credito con altre agevolazioni, ma sempre nel rispetto delle soglie massime di intensità d’aiuto stabilite dalla Carta degli Aiuti a finalità regionale 2022-2027, approvata dalla Commissione Europea.

L’incentivo può rappresentare un’opportunità significativa anche per le startup e PMI innovative, soprattutto nei settori logistici, agroalimentari, green e manifatturieri, che vogliano investire in queste aree strategiche del Sud Italia.

Quali investimenti sono agevolabili

Il credito d’imposta ZLS 2025 si applica agli investimenti in beni strumentali nuovi, acquistati o realizzati direttamente, e destinati a strutture produttive ubicate all’interno delle Zone Logistiche Semplificate. Per essere considerati ammissibili, tali beni devono rientrare nelle categorie previste dall’articolo 13 del DL 60/2024 e devono essere materiali, durevoli e strumentali all’attività dell’impresa.

Rientrano tra gli investimenti agevolabili:

  • Macchinari, impianti e attrezzature destinati a strutture produttive;

  • Opere murarie e immobiliari, ma solo se strettamente funzionali al progetto di investimento;

  • Terreni e fabbricati, a condizione che non superino il 50% del valore complessivo dell’investimento ammesso;

  • Beni acquistati tramite contratto di leasing finanziario, se il contratto prevede il riscatto finale e i beni siano nuovi.

Sono esclusi:

  • I beni con coefficienti di ammortamento inferiori al 6,5%;

  • I veicoli a motore (salvo quelli strettamente indispensabili al ciclo produttivo);

  • I beni usati o già ammortizzati;

  • Gli investimenti in beni meramente sostitutivi, non legati all’espansione o alla ristrutturazione dell’attività produttiva.

Un elemento da sottolineare è che l’agevolazione si applica anche in caso di acquisti “programmati”, cioè spese previste entro il 15 novembre 2025, purché inserite correttamente nella comunicazione iniziale all’Agenzia delle Entrate. In ogni caso, l’impresa dovrà conservare tutta la documentazione (fatture, contratti, collaudi, relazioni tecniche) per eventuali controlli successivi.

Modalità di fruizione e vincoli operativi

Una volta completato l’investimento e inviata correttamente la comunicazione finale all’Agenzia delle Entrate (dal 20 novembre al 2 dicembre 2025), l’impresa può utilizzare il credito d’imposta ZLS esclusivamente in compensazione, tramite modello F24, ai sensi dell’articolo 17 del D.Lgs. 241/1997. L’utilizzo potrà avvenire a partire dal giorno lavorativo successivo alla data di ricezione della comunicazione di riconoscimento del credito da parte dell’Agenzia, che avverrà con un’apposita ricevuta telematica.

Il codice tributo da utilizzare sarà indicato dall’Agenzia delle Entrate nel provvedimento attuativo, come già avvenuto negli anni precedenti.

Il credito:

  • Non concorre alla formazione del reddito né alla base imponibile IRAP;

  • Non è soggetto a tassazione ai fini delle imposte sui redditi;

  • È utilizzabile in più anni, qualora non si riesca a compensare tutto l’importo nel primo anno disponibile.

Attenzione: il credito non può essere ceduto a terzi o trasferito, nemmeno all’interno del gruppo societario, né può essere richiesto a rimborso. È fondamentale inoltre conservare tutta la documentazione giustificativa, pena la revoca dell’agevolazione in caso di controlli.

In caso di utilizzo indebito, l’Agenzia potrà procedere al recupero del credito maggiorato di sanzioni e interessi. Per questo motivo è consigliabile avvalersi di un consulente fiscale o di uno studio commercialista esperto in agevolazioni per predisporre correttamente le comunicazioni e l’intera pratica.

Vantaggi fiscali

Il credito d’imposta per le Zone Logistiche Semplificate non è solo una misura di sostegno temporaneo, ma può diventare un leva strategica di sviluppo e risparmio fiscale per le imprese. Nel 2025, grazie all’ampliamento della finestra temporale e alla possibilità di arrivare fino al 100% del credito richiesto (in caso di plafond non esaurito), le imprese hanno un’occasione concreta per ridurre drasticamente la pressione fiscale legata a investimenti strutturali.

Dal punto di vista fiscale, il vantaggio principale è la detassazione immediata dell’investimento, poiché il credito consente di abbattere imposte e contributi da versare, migliorando la liquidità aziendale.

Inoltre:

  • Il credito non costituisce reddito imponibile, quindi non genera ulteriori imposte;

  • È cumulabile con altre agevolazioni, come il credito d’imposta 4.0, i fondi PNRR e gli incentivi regionali, se nei limiti degli aiuti di Stato;

  • Consente una pianificazione finanziaria più efficace, facilitando l’accesso a finanziamenti bancari per il cofinanziamento degli investimenti.

Ma c’è anche un aspetto strategico: l’insediamento nelle ZLS permette all’impresa di beneficiare di semplificazioni amministrative e autorizzative, oltre che di una localizzazione vantaggiosa dal punto di vista logistico. Le ZLS si trovano infatti in prossimità di porti e infrastrutture strategiche per l’export e l’approvvigionamento.

Infine, investire in queste zone oggi può rafforzare il rating di sostenibilità e competitività dell’impresa, aprendo la porta a ulteriori bandi, collaborazioni pubbliche e private, e opportunità internazionali.

Cumulabilità del credito ZLS con altri incentivi fiscali

Uno degli aspetti più interessanti del credito ZLS è la sua possibilità di essere cumulato con altre agevolazioni fiscali, purché si rispettino le condizioni previste dal quadro normativo europeo in materia di aiuti di Stato. Questo rende la misura particolarmente vantaggiosa per le imprese che vogliono ottimizzare l’impatto fiscale dei propri investimenti attraverso una strategia combinata.

Il credito ZLS può essere cumulato, ad esempio, con:

  • Credito d’imposta per investimenti in beni strumentali 4.0, a patto che non venga superata l’intensità massima di aiuto prevista;

  • Fondo per la crescita sostenibile e incentivi PNRR, purché questi prevedano esplicitamente la compatibilità con altri aiuti;

  • Agevolazioni regionali o provinciali (come bandi per investimenti produttivi), sempre nel rispetto del tetto massimo consentito in base alla Carta degli Aiuti a finalità regionale 2022-2027;

  • Super e iper ammortamento (per beni digitali), nei casi ancora applicabili.

È fondamentale ricordare che, in caso di cumulo, la somma dei benefici non può superare l’intensità massima di aiutostabilita per area geografica e dimensione d’impresa. Ad esempio, per le micro e piccole imprese in alcune zone del Mezzogiorno l’intensità può arrivare fino al 60% dell’investimento, mentre per le grandi imprese si ferma generalmente al 30% o 40%, salvo deroghe specifiche.

Per questo motivo è altamente consigliato predisporre una mappa degli incentivi cumulabili e calcolare l’effettiva intensità prima di avviare l’investimento. Un’analisi preventiva consente di massimizzare il risparmio fiscale e ridurre al minimo il rischio di contestazioni o recuperi d’imposta.

Considerazioni finali

Il credito d’imposta per le Zone Logistiche Semplificate rappresenta una leva fiscale strategica per le imprese che vogliono crescere nel Mezzogiorno, rafforzando la loro competitività attraverso investimenti in innovazione, logistica e produzione. Con la proroga stabilita dalla legge di conversione del DL 202/2024, la misura è stata estesa fino al 15 novembre 2025, offrendo alle aziende un arco temporale sufficientemente ampio per pianificare e realizzare interventi strutturali.

Tuttavia, sfruttare correttamente questa opportunità richiede precisione e pianificazione:

  • Le comunicazioni all’Agenzia delle Entrate devono essere presentate entro le finestre temporali previste (22 maggio–23 giugno e 20 novembre–2 dicembre 2025);

  • Gli investimenti devono essere concretamente realizzati e documentati, non solo previsti;

  • È necessario verificare la compatibilità con altri incentivi per evitare il superamento delle soglie di intensità di aiuto.

Molto spesso, le imprese perdono occasioni importanti per errori formali o mancanza di informazioni aggiornate. Per questo, affidarsi a professionisti esperti in fiscalità d’impresa e in materia di aiuti di Stato può fare la differenza tra ottenere il beneficio o vederselo revocare.

Il credito ZLS, se ben gestito, non è solo uno sconto fiscale, ma uno strumento per modernizzare l’azienda, attrarre capitali e innovare.

Il 2025 sarà un anno decisivo: chi saprà muoversi per tempo potrà trasformare un’agevolazione in una reale occasione di sviluppo.

Rimborsi IVA beni di terzi: quando è possibile e come ottenerlo

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Negli ultimi anni, sempre più contribuenti si sono trovati a dover affrontare problematiche complesse in merito al recupero dell’IVA, soprattutto quando si tratta di beni non intestati direttamente all’impresa, ma utilizzati nell’ambito dell’attività economica. Il tema dei rimborsi IVA per beni di terzi, infatti, tocca una delle questioni più delicate del sistema fiscale: la possibilità di dedurre l’IVA anche quando i beni non risultano formalmente iscritti nel patrimonio dell’impresa, ma vengono comunque utilizzati per la produzione del reddito.

Un chiarimento fondamentale arriva dalla risposta n. 2003/2024 dell’Agenzia delle Entrate, che prende posizione sul concetto di “bene ammortizzabile” nel contesto delle richieste di rimborso IVA ai sensi dell’art. 30, comma 3, lett. c) del DPR 633/1972. Questo intervento dell’Amministrazione Finanziaria si inserisce in un solco interpretativo già delineato da varie sentenze della Corte di Cassazione, e pone un punto fermo su una questione che, fino a poco tempo fa, generava incertezza.

Capire quando è possibile richiedere un rimborso IVA per beni non di proprietà, ma comunque strumentali all’attività d’impresa, è oggi essenziale per evitare errori e, soprattutto, per ottimizzare la gestione fiscale dell’azienda.

In questo articolo analizzeremo in dettaglio le condizioni previste dalla normativa e chiarite dall’Agenzia delle Entrate, offrendo anche una panoramica delle soluzioni concrete per imprese e professionisti.

Rimborso IVA

La questione del rimborso dell’IVA su interventi realizzati su beni non di proprietà del soggetto passivo d’imposta è stata recentemente chiarita dall’Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 20 del 26 marzo 2024. Il documento arriva in risposta a numerosi quesiti posti da operatori economici e consulenti in merito all’applicazione dell’articolo 30, comma 2, lettera c) del D.P.R. n. 633/1972, che disciplina i presupposti per ottenere il rimborso dell’eccedenza IVA detraibile.

Al centro dell’analisi vi è il caso specifico della realizzazione di opere su beni di terzi, un’ipotesi che ha da sempre creato incertezza interpretativa. La situazione riguarda ad esempio un’impresa che realizza migliorie su un immobile in affitto, o che installa impianti su un bene non intestato formalmente alla stessa. In questi casi, sorge la questione se tali costi, pur non generando beni “ammortizzabili” in senso stretto, possano comunque legittimare il rimborso dell’IVA.

L’Agenzia ha chiarito la questione anche alla luce dell’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione – Sezioni Unite Civili – nella sentenza n. 13162, recentemente richiamata nella prassi. Secondo questa interpretazione, la nozione di “beni ammortizzabili”, ai fini del rimborso, deve essere letta in senso estensivo. Ciò significa che anche le spese sostenute per interventi su beni di terzi, se connesse ad attività d’impresa e con destinazione durevole, possono rientrare tra quelle che legittimano il rimborso dell’IVA assolta.

Beni ammortizzabili

Uno degli aspetti più interessanti e innovativi chiariti dalla Risoluzione n. 20/E/2024 riguarda la reinterpretazione del concetto di “bene ammortizzabile”. Secondo la tradizionale impostazione fiscale, un bene è ammortizzabile solo se è di proprietà del soggetto passivo e iscritto nel suo attivo patrimoniale. Tuttavia, l’evoluzione della prassi operativa e delle esigenze del mondo produttivo ha spinto dottrina e giurisprudenza verso una visione funzionale e sostanziale, piuttosto che meramente formale.

L’Agenzia delle Entrate, allineandosi alla posizione delle Sezioni Unite della Cassazione, ha stabilito che rientrano nel concetto di “beni ammortizzabili” anche quei beni che, pur non essendo formalmente iscritti nel bilancio dell’impresa, vengono utilizzati in modo continuativo e duraturo nell’esercizio dell’attività economica. Si pensi, ad esempio, a impianti, attrezzature, o lavori di adeguamento strutturale su immobili presi in locazione: in tutti questi casi, il bene resta formalmente di proprietà altrui, ma produce benefici economici durevoli per l’impresa che lo utilizza.

Questa interpretazione apre la strada a un più ampio accesso al rimborso IVA, in particolare per quei soggetti che operano in settori come l’edilizia, la logistica o la ristorazione, dove è frequente l’investimento su beni di terzi. Il criterio discriminante diventa quindi la finalità strumentale e durevole del bene, non la sua proprietà formale. Un vero e proprio cambio di paradigma che può offrire importanti opportunità di ottimizzazione fiscale.

Requisiti e documentazione

l rimborso dell’IVA assolta per interventi su beni di terzi non è automatico: l’estensione del concetto di “bene ammortizzabile” richiede comunque il rispetto di alcune condizioni fondamentali, sia dal punto di vista sostanziale che documentale. La prima condizione imprescindibile è che il bene – pur non essendo di proprietà – sia effettivamente utilizzato in modo durevole nell’ambito dell’attività economica dell’impresa. In altre parole, dev’essere un bene strumentale, destinato a produrre reddito nel medio-lungo termine.

Dal punto di vista operativo, è essenziale che il contribuente sia in grado di dimostrare l’utilizzo del bene e la sua connessione diretta con l’attività d’impresa. La documentazione giustificativa assume quindi un ruolo centrale: contratti di locazione, comodato d’uso, concessioni o altri atti che giustifichino il possesso del bene, insieme alle fatture relative agli interventi effettuati, devono essere accuratamente conservati.

Inoltre, è raccomandabile inserire il bene (anche se di terzi) tra i cespiti o comunque nei registri interni dell’impresa, accompagnando il tutto con una relazione tecnica che motivi la destinazione funzionale dell’investimento. Solo in presenza di un uso stabile, economicamente significativo e supportato da idonea documentazione, l’Agenzia delle Entrate riconoscerà il diritto al rimborso dell’eccedenza IVA detraibile.

Questo approccio valorizza la sostanza economica rispetto alla forma giuridica, premiando le imprese che, pur operando su beni altrui, investono per sviluppare strutture, impianti e attrezzature durevoli.

La sentenza della Cassazione n. 13162/2024

La sentenza n. 13162 del 14 maggio 2024 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha avuto un ruolo centrale nella definizione della nuova linea interpretativa in materia di rimborsi IVA per beni di terzi. Si tratta di una decisione di particolare autorevolezza, in quanto proveniente dall’organo giurisdizionale più alto in ambito civile e tributario, e dalle Sezioni Unite, quindi con valore orientativo ancora più forte.

Nel caso esaminato, la Corte si è trovata a valutare la legittimità della detrazione e del rimborso IVA relativa a spese sostenute per interventi su un immobile non di proprietà dell’impresa contribuente. La Cassazione ha stabilito in modo netto che il concetto di “beni ammortizzabili” contenuto nell’art. 30, comma 2, lett. c) del DPR 633/1972 non può essere letto in modo restrittivo. Anzi, deve essere inteso come riferito a tutti quei beni che, pur non risultando formalmente iscritti tra i cespiti dell’impresa, rappresentano un investimento durevole funzionale all’attività economica.

Con questa sentenza, la Corte ha superato definitivamente un’interpretazione meramente formale del concetto di ammortizzabilità, valorizzando la reale funzione economica del bene. In pratica, ciò che conta non è chi sia il titolare giuridico del bene, ma se quel bene venga effettivamente utilizzato in modo durevole e produttivo. La pronuncia rappresenta quindi una garanzia importante per tutte le imprese che operano in strutture non proprie, ma che investono per migliorarle o adattarle alle proprie esigenze.

Settori e casi concreti

La possibilità di ottenere il rimborso dell’IVA per opere realizzate su beni di terzi non è un’opportunità limitata a pochi casi eccezionali, ma rappresenta una leva fiscale concreta per moltissimi soggetti operanti in vari settori. In particolare, traggono vantaggio da questa interpretazione le imprese che lavorano in immobili in locazione o in concessione, oppure che utilizzano beni strumentali non intestati formalmente, ma funzionali all’attività economica.

Un esempio classico è quello del settore retail e ristorazione, dove spesso i locali commerciali sono presi in affitto e vengono completamente ristrutturati, arredati e adattati alle esigenze operative del marchio. Le spese per questi interventi, se durevoli e strumentali, possono ora legittimare il rimborso dell’IVA, anche se il bene non è di proprietà. Un altro caso frequente si verifica nel settore logistico e industriale, dove impianti e strutture tecniche vengono installati su capannoni concessi in uso, oppure nell’ambito della sanità privata, in cui strutture mediche operano in immobili non propri, ma realizzano investimenti importanti in attrezzature e allestimenti.

Anche i professionisti e le imprese del terziario avanzato, come gli studi associati o le startup innovative che operano in spazi coworking o in immobili in affitto, possono trovare spazio per beneficiare del rimborso IVA, purché siano rispettate le condizioni di utilizzo durevole e funzionale.

In sintesi, questa apertura interpretativa consente un’ottimizzazione fiscale concreta e pienamente legittima, purché supportata da una gestione documentale corretta e da una pianificazione attenta.

Aspetti pratici e raccomandazioni operative

Chi intende accedere al rimborso dell’IVA per spese sostenute su beni di terzi deve muoversi con attenzione e metodo, per evitare contestazioni e respingimenti da parte dell’Agenzia delle Entrate. La prima cosa da fare è verificare che l’utilizzo del bene sia effettivamente durevole, continuativo e direttamente funzionale all’attività d’impresa. Non è sufficiente un uso occasionale o secondario: serve una relazione strutturale tra l’intervento e l’attività economicasvolta.

Dal punto di vista documentale, è indispensabile conservare:

  • contratti (locazione, comodato, concessione);

  • fatture relative agli interventi effettuati;

  • eventuali relazioni tecniche o perizie che dimostrino l’impatto economico e la strumentalità del bene;

  • registrazioni contabili coerenti, anche se il bene non è formalmente ammortizzabile.

Nel caso di lavori edilizi su immobili altrui, è utile corredare la richiesta con planimetrie, progetti e autorizzazioni urbanistiche, per dimostrare l’investimento e la sua natura durevole.

Infine, la richiesta di rimborso dovrà essere presentata nei termini previsti dall’art. 30 del DPR 633/1972, allegando eventuali dichiarazioni integrative se necessarie. È consigliabile, in caso di situazioni complesse, anticipare eventuali osservazioni dell’Ufficio con una memoria illustrativa ben strutturata, o addirittura valutare una istanza di interpello per consolidare la posizione fiscale dell’impresa.

Una gestione attenta di questi passaggi può fare la differenza tra ottenere un rimborso legittimo o trovarsi coinvolti in una contestazione fiscale.

Vantaggi economici e competitivi

L’estensione della possibilità di rimborso IVA anche a beni non di proprietà, ma utilizzati in modo strumentale, apre scenari molto interessanti in ottica di pianificazione fiscale e gestione finanziaria. In un contesto economico in cui liquidità e ottimizzazione del cash flow sono elementi cruciali per la competitività, poter recuperare l’IVA su investimenti significativi rappresenta un vantaggio concreto.

Il rimborso dell’IVA consente, infatti, un recupero immediato di risorse finanziarie, migliorando la posizione di cassa e riducendo il fabbisogno di capitale circolante. Si tratta di un beneficio che, se ben pianificato, può essere reinvestito in nuove attività produttive, innovazione, o espansione commerciale. Inoltre, permette alle imprese di effettuare scelte più flessibili sull’allocazione delle risorse, senza dover necessariamente acquistare i beni per beneficiare della detraibilità.

Da un punto di vista fiscale, questo approccio consente di allineare l’impostazione contabile con la realtà economica, senza subire penalizzazioni in termini di detrazione o rimborso dell’imposta. Ciò favorisce una maggiore equità fiscaletra imprese che possiedono i beni e imprese che li utilizzano tramite contratti alternativi, ma che affrontano gli stessi costi e generano lo stesso valore economico.

Inoltre, per studi commercialisti, consulenti fiscali e CFO, questa possibilità diventa un argomento strategico da valutare nella consulenza annuale, permettendo di offrire soluzioni proattive e di valore per il cliente.

Criticità e limiti applicativi

Sebbene la Risoluzione 20/E/2024 e la sentenza n. 13162/2024 abbiano introdotto una lettura evoluta e favorevole al contribuente, è fondamentale non trascurare alcune criticità applicative e possibili aree di rischio. Il primo punto critico è la necessità di provare in maniera rigorosa la strumentalità e la durata dell’utilizzo del bene: non basta infatti una semplice dichiarazione d’intenti, ma serve una documentazione completa e coerente.

Inoltre, resta una certa marginalità interpretativa da parte degli Uffici territoriali dell’Agenzia delle Entrate, che potrebbero adottare criteri più stringenti in fase di controllo. In assenza di una disciplina normativa esplicita, e in attesa che questa interpretazione si consolidi anche nella prassi amministrativa, il rischio di contestazioni non può essere escluso, soprattutto in assenza di una gestione contabile trasparente o di contratti poco chiari.

Un altro limite riguarda la durata del possesso del bene: la norma e la prassi richiedono che il bene sia destinato a essere utilizzato per un periodo medio-lungo. Investimenti su beni usati solo temporaneamente o in maniera discontinua potrebbero non soddisfare i requisiti per il rimborso.

Infine, bisogna tener conto dell’implicazione che una richiesta di rimborso comporta in termini di controlli fiscali: ogni rimborso IVA è potenzialmente soggetto a verifica. È quindi essenziale che ogni richiesta sia accompagnata da una analisi preventiva dettagliata e da una relazione tecnica-fiscale in grado di sostenere la posizione adottata.

Esempi pratici

Per capire l’impatto reale del rimborso IVA su beni di terzi, è utile analizzare alcuni esempi concreti, tratti da situazioni tipiche che si verificano nella pratica aziendale e professionale. Prendiamo il caso di una catena di ristorazione che apre nuovi punti vendita in immobili in locazione: per ogni locale, l’impresa investe 100.000 euro in ristrutturazione, impianti, arredi fissi e adeguamento normativo. In condizioni normali, senza il riconoscimento della strumentalità dei beni, l’IVA (22.000 euro) non sarebbe rimborsabile. Con la nuova impostazione, invece, l’impresa può recuperare l’IVA a credito, migliorando sensibilmente il proprio cash flow.

Altro esempio: una società logistica prende in comodato d’uso un capannone e vi installa impianti automatici di movimentazione merci per 250.000 euro. Anche in questo caso, nonostante il capannone non sia di sua proprietà, gli impianti costituiscono investimenti durevoli e funzionali. Se ben documentato, l’intervento consente un rimborso IVA di oltre 55.000 euro.

Infine, immaginiamo uno studio medico privato che opera in un immobile in affitto e vi installa macchinari diagnostici di ultima generazione. I costi sostenuti per l’adeguamento delle strutture (impianti elettrici, climatizzazione, cablaggi) generano un credito IVA che può essere rimborsato, con un beneficio finanziario immediato.

In tutti questi casi, il rimborso IVA rappresenta un vantaggio fiscale legale e concreto, che consente di recuperare liquidità, ridurre il carico fiscale effettivo e reinvestire risorse in nuove attività.

Considerazioni finali

Il chiarimento fornito dalla Risoluzione n. 20/E del 2024, in coerenza con la sentenza n. 13162/2024 delle Sezioni Unite della Cassazione, rappresenta un importante punto di svolta nella gestione dell’IVA per tutte le imprese e i professionisti che investono su beni non di loro proprietà. L’estensione della nozione di “beni ammortizzabili” anche a quelli detenuti in uso, purché impiegati in modo durevole e strumentale all’attività economica, apre nuove e legittime opportunità di rimborso fiscale.

Questa nuova interpretazione consente non solo di alleggerire il carico fiscale, ma anche di migliorare la gestione della liquidità aziendale e potenziare la capacità di investimento, specialmente in settori ad alta intensità di immobilizzazioni materiali su strutture non proprie. Per cogliere al meglio questi benefici, è fondamentale predisporre una documentazione completa, coerente e ben organizzata, capace di dimostrare l’effettivo utilizzo strumentale del bene.

Per i consulenti fiscali, i CFO e i titolari d’impresa, questa rappresenta una leva strategica di pianificazione fiscale, che consente di trasformare costi apparentemente non recuperabili in risorse immediatamente disponibili.

In definitiva, il rimborso IVA per opere su beni di terzi non è solo una possibilità tecnica, ma una vera opportunità fiscale, da conoscere, comprendere e soprattutto applicare correttamente, con il supporto di un commercialista esperto.

Polizze catastrofali PMI: proroga al 31 dicembre 2025

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Il cambiamento climatico non è più un fenomeno lontano o astratto: alluvioni, terremoti, incendi e altri eventi estremi stanno diventando sempre più frequenti e devastanti. Per le piccole e medie imprese italiane (PMI), spesso situate in territori ad alto rischio, questi eventi non rappresentano solo una minaccia per la sicurezza, ma anche un serio problema economico e finanziario. Ed è proprio per rispondere a queste esigenze di tutela che il Governo ha deciso di prorogare l’obbligo di sottoscrizione delle polizze assicurative catastrofali per le imprese, inizialmente previsto per il 31 marzo 2025.

Con il nuovo Decreto-legge approvato il 28 marzo 2025, l’obbligo slitta al 31 dicembre 2025, lasciando più tempo alle aziende per adeguarsi e valutare le coperture assicurative più adatte. Una misura accolta con favore da molte associazioni di categoria, ma che solleva anche interrogativi: cosa succede se non si è in regola entro la nuova scadenza? Quali sono le agevolazioni previste? Come scegliere una polizza davvero efficace?

In questo articolo faremo chiarezza su tutto ciò che riguarda la proroga delle polizze catastrofali: dalla normativa alle opportunità di risparmio fiscale, passando per i consigli su come muoversi per tempo e con intelligenza.

Proroga

La proroga al 31 dicembre 2025 dell’obbligo di sottoscrizione di polizze assicurative contro rischi catastrofali per le PMI è stata ufficializzata con l’approvazione, il 28 marzo 2025, del nuovo Decreto-legge in materia di adempimenti fiscali e misure per la competitività. Questa misura era originariamente prevista dalla Legge di Bilancio 2024, che obbligava tutte le imprese a coprirsi contro eventi catastrofali naturali – in particolare sismi, alluvioni e frane – a partire dal 1° gennaio 2024. Tuttavia, la complessità operativa nell’attuazione della norma, unita alle difficoltà economiche di molte PMI nel reperire coperture assicurative adeguate a prezzi sostenibili, ha reso necessaria una proroga.

Secondo quanto riportato anche dall’ANSA, il Governo ha preso atto delle segnalazioni provenienti dalle associazioni di categoria, tra cui Confindustria, CNA e Confartigianato, che hanno chiesto maggiore tempo per adattarsi alla nuova imposizione. Alcune imprese non erano nemmeno a conoscenza dell’obbligo, mentre altre avevano riscontrato difficoltà nell’accesso a offerte assicurative trasparenti e competitive.

Il nuovo termine – 31 dicembre 2025 – ha quindi una duplice funzione: da un lato, consente al tessuto produttivo italiano di mettersi in regola senza eccessivi oneri, dall’altro lascia spazio a un possibile intervento normativo più strutturato, che potrebbe prevedere anche incentivi o detrazioni fiscali per le imprese che si assicurano.

L’obiettivo finale resta lo stesso: rafforzare la resilienza delle imprese italiane di fronte a eventi naturali sempre più frequenti e distruttivi. Ma il tempo a disposizione non va sprecato.

Chi è obbligato a stipulare la polizza

L’obbligo di stipulare una polizza assicurativa contro i danni catastrofali riguarda tutte le imprese con sede legale o operativa in Italia, indipendentemente dalla forma giuridica o dal settore economico di appartenenza. Non si tratta quindi solo di aziende manifatturiere o agricole situate in aree a rischio, ma anche di imprese di servizi, commerciali o artigiane. L’unico discrimine resta la residenza fiscale nel territorio italiano e il possesso di beni strumentali, fabbricati o infrastrutture potenzialmente esposti a eventi naturali estremi.

Il contratto assicurativo deve coprire obbligatoriamente i danni ai beni aziendali derivanti da calamità naturali quali:

  • Terremoti

  • Alluvioni

  • Frane

  • Inondazioni

  • Altri eventi atmosferici connessi al cambiamento climatico

L’obbligo, tuttavia, riguarda solo la copertura dei danni materiali diretti ai beni aziendali e non include – almeno per ora – la perdita di profitto o l’interruzione di attività. Per questi aspetti, le imprese possono eventualmente valutare garanzie accessorie, ma non sono obbligatorie per legge.

Una novità importante è che la copertura assicurativa deve essere attiva e valida per essere considerata conforme all’obbligo normativo. Non basta quindi firmare una proposta o avviare una trattativa con la compagnia assicurativa: al momento dei controlli, l’impresa deve poter dimostrare l’esistenza di un contratto assicurativo in vigore e idoneo.

Sanzioni

L’obbligo di sottoscrizione di una polizza catastrofale non è solo un suggerimento o una raccomandazione: si tratta di una disposizione vincolante introdotta dal legislatore con l’intento di prevenire danni economici di vasta portata e ridurre la dipendenza dello Stato dagli interventi straordinari post-emergenza. Proprio per questo motivo, le imprese che non si metteranno in regola entro il 31 dicembre 2025 potrebbero subire gravi conseguenze, soprattutto sul piano economico-fiscale.

Ad oggi, il Governo non ha ancora specificato un sistema sanzionatorio diretto (come multe o penalità fiscali) per chi non stipula la polizza. Tuttavia, è previsto che l’assenza della copertura assicurativa possa comportare l’esclusione dalle agevolazioni e dai contributi pubblici, compresi quelli previsti in caso di calamità naturali. In pratica, un’impresa colpita da un evento distruttivo che non risulti assicurata non potrà accedere ai fondi statali per la ricostruzione o al sostegno economico, lasciando il peso dei danni totalmente a proprio carico.

Inoltre, è allo studio un meccanismo premiale, già proposto da alcune forze politiche, che preveda detrazioni fiscali o incentivi per le imprese in regola con l’obbligo. Questo renderebbe ancora più svantaggiosa la scelta di non adeguarsi alla normativa.

Il messaggio è chiaro: non essere assicurati significa esporsi a rischi economici enormi, oltre a perdere ogni possibilità di tutela pubblica. E in un’epoca di eventi naturali sempre più estremi, l’imprevedibilità non può più essere una scusa.

Come scegliere la polizza catastrofale giusta

Con l’obbligo di stipulare una polizza contro i rischi catastrofali entro il 31 dicembre 2025, molte PMI si trovano a navigare un mercato assicurativo complesso, dove le offerte sono numerose ma non sempre trasparenti. Come scegliere, quindi, una polizza efficace, economicamente sostenibile e in linea con i requisiti normativi? Ci sono alcuni aspetti fondamentali da tenere in considerazione.

In primo luogo, è essenziale verificare che la polizza copra espressamente i rischi richiesti dalla normativa, come terremoti, alluvioni e frane. Alcune assicurazioni propongono pacchetti generici contro “eventi atmosferici”, ma non tutti includono danni da terremoto o inondazione, che invece devono essere obbligatoriamente coperti.

In secondo luogo, attenzione a franchigie, scoperti e massimali: sono le clausole che determinano quanto effettivamente verrà rimborsato in caso di sinistro. Una polizza con un premio basso ma con scoperti elevati potrebbe rivelarsi inutile nel momento del bisogno. È bene quindi leggere con attenzione le condizioni contrattuali e farsi consigliare da un intermediario assicurativo esperto o da un consulente di fiducia.

Anche la valutazione del rischio territoriale è un fattore chiave: alcune regioni italiane, come quelle dell’Appennino o le aree costiere, sono maggiormente esposte a eventi sismici o alluvionali, e le polizze in queste zone potrebbero avere costi più elevati. Tuttavia, proprio in queste aree la copertura diventa indispensabile.

Infine, è consigliabile optare per assicurazioni che offrano anche servizi di assistenza post-evento e perizie rapide, per garantire tempi brevi di indennizzo. Un dettaglio che può fare la differenza tra la ripresa e il fallimento.

Vantaggi fiscali

Oltre alla protezione contro danni potenzialmente devastanti, la stipula di una polizza catastrofale può rappresentare anche un’opportunità per ottenere benefici fiscali. Sebbene al momento non siano ancora stati attivati incentivi automatici a livello nazionale, il Governo sta valutando l’introduzione di misure premiali, che potrebbero essere inserite nei prossimi provvedimenti fiscali o nella prossima Legge di Bilancio.

Già oggi, tuttavia, le imprese possono dedurre dal reddito d’impresa i costi sostenuti per le assicurazioni contro i rischi aziendali, compresi quelli per eventi naturali. L’art. 108, comma 1 del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) prevede infatti che le spese relative a polizze assicurative siano deducibili, a condizione che siano inerenti all’attività d’impresa. Questo significa che il premio assicurativo annuo pagato può essere sottratto dal reddito imponibile, contribuendo a ridurre la base su cui si calcolano IRES e IRAP.

Inoltre, alcune Regioni o Camere di Commercio hanno già attivato bandi o contributi per incentivare le imprese a tutelarsi da eventi catastrofali. In determinati territori, è possibile ottenere finanziamenti a fondo perduto o cofinanziamenti per l’acquisto di polizze, soprattutto in aree classificate a rischio elevato.

È quindi importante, oltre a valutare la polizza giusta, anche tenere d’occhio le agevolazioni locali e restare aggiornati sulle eventuali novità legislative nazionali che potrebbero rendere ancora più conveniente l’adempimento dell’obbligo.

Caso pratico

Immaginiamo una piccola impresa artigiana situata in Emilia-Romagna, con un capannone produttivo di 600 m², macchinari per un valore di 300.000 euro e un magazzino merci da 100.000 euro. A maggio 2023, la zona è stata colpita da una devastante alluvione che ha distrutto parte della struttura e reso inutilizzabili sia le attrezzature che la merce stoccata. Il danno totale? Oltre 450.000 euro.

Le imprese che, al momento dell’evento, risultavano coperte da una polizza contro eventi catastrofali hanno ottenuto risarcimenti rapidi e completi dalle compagnie assicurative, riuscendo a riavviare le attività nel giro di pochi mesi. Al contrario, l’impresa artigiana in questione, sprovvista di copertura, ha dovuto attendere mesi per accedere a contributi statali straordinari, peraltro parziali e soggetti a iter burocratici complessi.

Risultato: mentre le aziende assicurate sono tornate pienamente operative nel giro di 3-6 mesi, l’impresa in questione ha dovuto sospendere l’attività per oltre un anno, licenziare parte del personale e contrarre debiti per coprire le spese di ripristino.

Questo caso dimostra chiaramente quanto possa essere rischioso affidarsi esclusivamente agli aiuti pubblici e quanto, invece, una copertura assicurativa adeguata rappresenti un vero e proprio strumento di continuità aziendale. Non solo tutela, quindi, ma anche strategia di sopravvivenza e competitività in un contesto climatico sempre più imprevedibile.

Cultura assicurativa

Nonostante la crescente frequenza degli eventi climatici estremi e le gravi conseguenze economiche che ne derivano, in Italia persiste una scarsa cultura assicurativa, soprattutto tra le piccole e medie imprese. Secondo i dati raccolti da ANIA (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici), solo il 12% delle PMI italiane risulta attualmente coperta da una polizza contro eventi catastrofali, una percentuale nettamente inferiore rispetto alla media europea.

Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, c’è ancora la percezione errata che certi eventi “non capiteranno mai”, oppure che, in caso di disastro, “interverrà lo Stato”. Questa visione fatalista o assistenzialista porta molte aziende a sottovalutare il rischio e a non pianificare alcuna forma di protezione preventiva.

In secondo luogo, manca spesso informazione chiara e accessibile: molte imprese non conoscono le opzioni disponibili sul mercato, non sanno a chi rivolgersi, oppure temono di incorrere in costi troppo elevati. A ciò si aggiunge una certa diffidenza verso le compagnie assicurative, legata a esperienze negative pregresse o a una percezione di poca trasparenza nei contratti.

La proroga al 2025 rappresenta quindi non solo una finestra operativa, ma anche un’opportunità per rafforzare la consapevolezza del rischio e diffondere una cultura della prevenzione. Serve uno sforzo coordinato tra istituzioni, associazioni di categoria e professionisti per informare e accompagnare le imprese verso scelte consapevoli e responsabili.

Considerazioni finali

La proroga al 31 dicembre 2025 rappresenta una grande occasione per le imprese italiane, ma è anche un ultimo avviso. Non è più il tempo dell’attesa o dell’improvvisazione: gli eventi catastrofali sono ormai una certezza nel nostro Paese, e ogni azienda – piccola o grande che sia – deve dotarsi degli strumenti giusti per proteggersi.

Stipulare una polizza contro i rischi naturali non è solo un obbligo normativo, ma un atto di responsabilità verso i propri dipendenti, clienti e fornitori. È una misura che permette di garantire continuità operativa, salvaguardare il patrimonio aziendale e accedere a eventuali agevolazioni fiscali o contributi futuri.

Le PMI devono cogliere questi mesi come un’opportunità per:

  • Analizzare i propri rischi territoriali

  • Richiedere preventivi a più compagnie assicurative

  • Farsi affiancare da consulenti competenti

  • Monitorare bandi e incentivi locali

In un contesto economico fragile e imprevedibile, la prevenzione non è più un costo, ma un investimento strategico. Rimandare può significare trovarsi soli e scoperti nel momento del bisogno. Agire per tempo, invece, può fare la differenza tra il restare a galla o affondare.

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