Redditometro, Nel caso di specie, la contribuente effettuava l’attività di accompagnatrice-escort per uomini e donne, e le venivano accertati sinteticamente 127. 845 euro per l’annualità 2004 e 2005, e 128. 131 euro per l’anno 2006.
Sentenza Commissione tributaria provinciale PIEMONTE Novara, sez. I, 12-01-2011, n. 2 – Pres. Puzo Antonio – Rel. Puzo Antonio
Redditometro, Nel caso di specie, la contribuente effettuava l’attività di accompagnatrice-escort per uomini e donne, e le venivano accertati sinteticamente 127. 845 euro per l’annualità 2004 e 2005, e 128. 131 euro per l’anno 2006.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Signora Va. Mo. , con ricorsi depositati in data 13. 11. 2009, riuniti per connessione soggettiva ed oggettiva ai sensi dell’art. 29 del D. Lgs. N. 546/1992, proponeva opposizione contro l’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Novara avverso gli avvisi di accertamento con i quali veniva determinato in forma sintetica il reddito complessivo stimabile in capo alla medesima nella misura complessiva di Euro 127. 485,00 rispettivamente per gli anni 2004 e 2005 e di Euro 128. 131,00 per l’anno 2006.
La procedura di accertamento disposta a carico della contribuente trovava la sua origine nella rilevazione di una capacità contributiva a lei attribuibile e precisamente per:
assicurazione stipulata in data 04. 04. 2000 con durata nove anni e premio versato pro-quota annuale di Euro 3. 477,33;
possesso, a titolo di proprietà, della residenza principale situata nel Comune di Castelletto Sopra Ticino (NO), intera e piena proprietà, con quota di sostenibilità alle spese nella misura del 100%;
possesso, a titolo di proprietà, di abitazione secondaria situata nel Comune di Valduggia (VC), quota 1/2 di piena proprietà, con quota di sostenibilità alle spese nella misura del 100%;
possesso, a titolo di locazione, di abitazione civile atto di locazione reg. To all’Ufficio di Biella il 18. 02. 200 per un canone di locazione dichiarato di Euro 3. 718,00, con quota di sostenibilità alle spese nella misura del 100%;
possesso, a titolo locazione, di abitazione civile atto di locazione reg. To all’Ufficio di Arona il 08. 01. 2001 per un canone di locazione dichiarato di Euro 4. 028,00, con quota di sostenibilità alle spese nella misura del 100%;
possesso, a titolo locazione, di abitazione civile atto di locazione reg. To all’Ufficio di Novara il 27. 04. 2001 per un canone di locazione dichiarato di Euro 2. 478,00, con quota di sostenibilità alle spese nella misura del 100%;
nonché spese sostenute nel quinquennio 2004/2005, per incrementi patrimoniali e precisamente per:
acquisto di monolocale ad uso abitazione sito in Comune di Arona per un corrispettivo dichiarato di Euro 35. 000,00;
acquisto di autovettura targata (. ) per un valore di Euro 45. 000,00;
acquisto di porzione di fabbricato sito in Comune di Varese per corrispettivo dichiarato di Euro 187. 000,00;
interessi passivi, per gli anni 2004-2005-2006, rispettivamente di Euro 1. 665,00 per Mutuo stipulato di Euro 129. 114,00.
A seguito di notifica dei suddetti avvisi di accertamento, la ricorrente proponeva opposizione, chiedendo, in via principale e nel merito, l’annullamento degli atti impugnati, con vittoria delle spese.
A sostegno della propria richiesta, la ricorrente preliminarmente precisava la natura dell’attività svolta, in qualità di “accompagnatrice/escort per uomini”, assimilabile, con i dovuti distinguo del caso, all’esercizio dell'”attività di prostituta”.
In linea di fatto e di diritto, sosteneva, quindi, che i proventi derivanti dall’esercizio della citata attività di prostituzione non generavano materia imponibile. Ciò, a motivo del fatto “che le somme derivanti dal predetto esercizio costituivano una forma di risarcimento del danno sui generis a causa della lesione dell’integrità della dignità di chi subisce l’affronto della vendita di sé”.
A sostegno delle motivazioni precisate nei propri scritti difensivi, la ricorrente richiamava l’orientamento giurisprudenziale adottato in materia, secondo il quale “i proventi derivanti da esercizio della prostituzione non sono tassabili perché non sono ascrivibili a nessuna categoria di reddito di cui all’art. 6 del T. U. I. R. “.
L’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Novara, costituendosi in giudizio contro deduceva le argomentazioni esposte nei motivi dei ricorsi e chiedeva quindi la conferma del proprio operato, attesa la legittimità delle azioni disposte per il recupero di imposte riconosciute sostanzialmente dovute da parte ricorrente. Ciò, in applicazione dei criteri precisamente stabiliti in materia di accertamento sintetico dell’imponibile (c. D. “reddito/netto”), che nella sostanza rappresentava una forma di controllo che consentiva agli Uffici finanziari di ricostruire induttivamente il reddito delle persone fisiche. Metodo questo, stabilito secondo legge, di svelare la reale ricchezza di un soggetto, basandosi sul sostenimento di alcune spese, ovvero sulla disponibilità di determinati beni considerati “manifestazione di capacità reddituale”.
Sosteneva, al riguardo, che la validità di un tale tipo di accertamento si era nel tempo consolidata a seguito di un costante orientamento della Corte di Cassazione, la quale aveva ritenuto legittimo l’accertamento effettuato dall’Ufficio sulla base di coefficienti presuntivi di reddito (indici di capacità di spesa), quando il contribuente avesse dimostrato che il reddito presunto non esisteva o esisteva in misura inferiore. (In tal senso le sentenze n. 21930/2007; n. 22574/2007; n. 16284/2007; n. 19252/2005; n. 14161/2003; n. 12731/2002; n. 11611/2001).
Per quanto riguardava, in particolare, l’oggetto delle questioni sollevate in questa sede, la parte resistente richiamava il principio stabilito dall’art. 53, comma 1, della Costituzione, secondo il quale “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della toro capacità contributiva”. L’Agenzia delle Entrate sosteneva, inoltre, secondo anche l’orientamento espresso in materia dalla Corte di Giustizia Europea nella causa C-268/99 del 20 novembre 2001, che tale attività era caratterizzata dalla natura economica e dal suo svolgimento in forma di lavoro autonomo, non sussistendo alcun vincolo di subordinazione in capo a chi la esercita.
Ciò, in considerazione del fatto che effettivamente la prostituzione era un’attività svolta in maniera autonoma, per effetto della quale chi la esercitava si impegnava personalmente a procurare il soddisfacimento di un altrui bisogno di carattere sessuale, dietro corrispettivo di denaro o di altra utilità economicamente valutabile, senza che la scelta di detta attività o delle modalità del suo esercizio fosse imposta da terzi. Chiedeva, pertanto, che venisse disposto il rigetto dei ricorsi e la condanna della controparte al pagamento delle spese di giudizio. All’odierna udienza di discussione, sentito il relatore e il rappresentante dell’Ufficio, in assenza della parte ricorrente, che risulta regolarmente invitata con apposite raccomandate spedite all’indirizzo del domicilio eletto presso il difensore indicato in atti e rilevato che, allo stato, tale domiciliazione non risulta essere stata revocata da parte della stessa ricorrente; letti gli atti e la documentazione acquisita ai fascicoli processuali, riuniti per connessione soggettiva ad oggettiva, ai sensi dell’art. 29 del D. Lgs. N. 546/1992, il Collegio.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Che i ricorsi sono infondati e pertanto vanno respinti. Appare corretto osservare preliminarmente che le eccezioni sollevate, in linea di fatto e di diritto, avverso l’operato dell’Ufficio, debbono riconoscersi sostanzialmente infondate.
Ciò, a motivo principalmente del fatto che, nella sostanza, la procedura adottata nei confronti della contribuente deve riconoscersi sostanzialmente fondata, essendo stata regolarmente attuata nella corretta osservanza delle disposizioni riguardanti la soggetta materia. Esaminata attentamente la questione, alla luce della documentazione acquisita in atti, si rileva che, allo stato, deve riconoscersi sostanzialmente corretta la procedura di accertamento disposta dall’Ufficio, il quale nei propri atti di costituzione in giudizio ha compiutamente precisato la legittimità del proprio operato.
Ciò, avuto riguardo essenzialmente alla effettiva rilevazione della disponibilità da parte della contribuente dei beni e dei servizi, oggetto delle valutazioni attentamente eseguite ai fini della concreta determinazione della capacità contributiva della ricorrente medesima. Appare corretto osservare, inoltre, che, in concreto, l’Ufficio ha dimostrato di aver provveduto a verificare le effettive disponibilità economiche della contribuente e che, nella sostanza, ha provveduto all’accertamento induttivo del reddito, ai sensi dell’art. 38, commi 4-5 e 6, del D. P. R. N. 600/1973, essendo effettivamente venuto a conoscenza di indici di capacità contributiva, basata essenzialmente su elementi che lasciano fondatamente presumere la esistenza di redditi non assoggettati alla dovuta imposizione. Nel merito della questione si ritiene di dover rilevare che, nella sostanza, il quadro regolante la procedura di accertamento induttivo, adottato nelle ipotesi della specie, deve, allo stato attuale, considerarsi sostanzialmente consolidato. Appare corretto osservare, al riguardo, che l’attività di accertamento della specie è stata ampiamente potenziata nei confronti dei contribuenti, per i quali sono disponibili informazioni in ordine alla esistenza di eventuali manifestazioni di capacità contributiva, incompatibili con le posizioni reddituali dichiarate o addirittura omesse da parte dei contribuenti medesimi. A tal fine, risultano impartite precise disposizioni agli Uffici, i quali a loro volta debbono correttamente promuovere tutte la procedure necessarie, nella corretta osservanza della normativa regolante la procedura di accertamento della specie. E’ dato rilevare, infatti, che una disposizione sull’accertamento (art. 38, commi 4-5 e 6, del D. P. R. N. 600/1973) stabilisce espressamente che l’Amministrazione Finanziaria può, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente, in base al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze di fatto certi, che fanno presumere una capacità di spesa correlata ad esborsi di somme di denaro e a spese di gestione da confrontare con il reddito imponibile dichiarato o da accertare nei casi di omessa dichiarazione da parte del contribuente.
L’Amministrazione Finanziaria, quindi, può determinare anche in modo matematico il reddito presuntivo, attenendosi al solo redditometro, cioè agli elementi formulati da un decreto ministeriale che può individuare elementi di capacità contributiva. Appare corretto osservare, al riguardo, che la stessa Corte Costituzionale, investita della questione, ebbe a suo tempo a pronunciarsi in merito (sentenza n. 297/2004), affermando il principio che detto strumento di accertamento permette all’Amministrazione Finanziaria di determinare sinteticamente il reddito sulla base di parametri, i quali, alla luce di consolidate massime di esperienza, sono rivelatori del reddito del contribuente e demanda a un regolamento del Ministro delle Finanze la determinazione dei parametri in base ai quali stabilire presuntivamente il reddito. Non c’è, dunque, osserva la Corte, alcuna violazione dell’art. 53 della Costituzione. Anzi, tale accertamento presuntivo, sostiene ancora la Corte Costituzionale, costituisce un mezzo di attuazione del principio di capacità contributiva. Avuto riguardo ai principi chiaramente affermati dalla citata Corte Costituzionale, che sostanzialmente confermano l’orientamento già assunto con analoga sentenza n. 283/1987, si ritiene di poter osservare, in via definitiva, che sostanzialmente legittima deve considerarsi l’attività di accertamento disposto dall’Amministrazione Finanziaria nei confronti dei contribuenti, per i quali si sono resi disponibili informazioni in ordine alla esistenza di evidenti manifestazioni di capacità contributiva, incompatibili con le posizioni reddituali dichiarate dai medesimi.
Corretto deve riconoscersi, pertanto, l’operato dell’Amministrazione Finanziaria, la quale, nella emissione dei relativi atti di accertamento, procede, sulla base anche di segnalazioni dei Centrali Uffici (Direzione Centrale ed Anagrafe Tributaria), nella identificazione degli elementi e delle circostanze di fatto certi, rilevanti ai fini della determinazione sintetica del reddito. In applicazione delle disposizioni normative regolanti la procedura di accertamento sintetico ed avuto riguardo ai principi e agli orientamenti innanzi precisati, nonché alle risultanze degli atti del processo, si ritiene di poter osservare che, a parere del Collegio, la procedura adottata a carico della contribuente deve, nella sostanza, riconoscersi regolare e che la stessa può certamente ritenersi convincente, ai fini della determinazione del reddito, essendo compiutamente eseguite le necessaire valutazioni degli elementi acquisiti a carico della contribuente medesima. Avuto riguardo alle risultanze acquisite in atti, appare corretto osservare, peraltro, che, allo stato, non risulta fornita adeguata dimostrazione da parte ricorrente della effettiva inconsistenza della procedura adottata a suo carico, atteso che, nella sostanza, le eccezioni mosse avverso l’operato dell’Ufficio non risultano in concreto fondate sulla base di idonee precisazioni e valide dimostrazioni della infondatezza della pretesa stessa vantata nei suoi confronti. E’ dato rilevare, infatti, che, nella sostanza, non appaiono adeguatamente dimostrate, in sede contenziosa, le motivazioni genericamente sostenute da parte ricorrente, non essendo, allo stato, comprovata con certezza la fondatezza e la validità stessa delle eccezioni sollevate avverso l’operato dell’Organo di accertamento. Appare corretto osservare, sulla base anche della costante giurisprudenza adottata in materia, che i motivi posti a base dei ricorsi proposti avverso l’operato dell’Ufficio, se non idoneamente comprovati, in linea di fatto e di diritto, non possono certamente assurgere ad elementi fondanti della opposizione proposta in sede contenziosa.
Nel caso di specie occorre prendere atto, quindi, della legittimità degli avvisi di accertamento, essendo fondati su dati ed elementi certi comprovanti la effettiva capacità contributiva della ricorrente. Appare corretto rilevare, al riguardo – secondo anche l’orientamento espresso dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 18710 del 23. 09. 2005 – che il contribuente è tenuto a fornire la prova in sede giudiziale, di tutti gli elementi ritenuti necessari per dimostrare la attendibilità delle argomentazioni addotte a sostegno delle richieste avanzate in sede contenziosa. Per la Corte di Cassazione, questo non stravolge i principi generali in tema di onere della prova, poiché se spetta all’Amministrazione Finanziaria dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria azionata, fornendo quindi la prova degli elementi e circostanze che rivelano l’esistenza di un imponibile omesso o maggiore rispetto a quello dichiarato (cosiddette componenti positive), “è altrettanto vero che è il contribuente, il quale intenda contestare la capacità dimostrativa di quei fatti oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive, che deve a sua volta dimostrare gli elementi sui quali le sue eccezioni si fondano”.
La regola generale, in tema di ripartizione dell’onere della prova, è quella prevista dall’art. 2697 del Codice Civile. Regola ribadita con la sopra citata sentenza n. 18710/2005. In effetti, chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi, invece, intende eccepire l’inefficacia di tali fatti o eccepire che il diritto si è modificato oppure estinto o altro, deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda. In linea di principio, quindi, l’onere della prova dell’obbligazione tributaria grava sull’Amministrazione. Al contribuente-ricorrente incombe la dimostrazione dei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa. E’ altrettanto pacifico che il principio generale, sancito dall’art. 2697 del c. C. , non è operante quando il giudice può formare il proprio convincimento in base a elementi probatori, da chiunque forniti e già acquisiti al processo. Avuto riguardo alle considerazioni innanzi precisate, si ritiene di dover rilevare, in via definitiva, che, in concreto, nel caso di specie, risultano venute a verificarsi tutte le condizioni necessarie per poter procedere alla corretta applicazione della ricostruzione presuntiva della redditività effettivamente conseguita dalla contribuente. E’ dato rilevare, d’altra parte, che, allo stato degli atti, non risultano fornite da parte della contribuente medesima idonee prove concrete, atte ad inficiare la pretesa erariale. Avuto riguardo alle risultanze in atti, appare corretto osservare che invece da parte ricorrente non risulta negato affatto il possesso degli indici di capacità contributiva, essendosi limitata unicamente ad affermare che aveva un reddito che ne giustificava il mantenimento e che tale reddito non era imponibile, in quanto derivava dall’attività esercitata, assimilabile a quella di prostituzione. E’ dato rilevare, inoltre, che la ricorrente non smentisce affatto il possesso dei citati indici di capacità contributiva, non smentisce neppure la omessa presentazione delle previste dichiarazioni dei redditi, e quindi, l’omessa tassazione dei redditi, che in concreto afferma di possedere. Le circostanze e gli elementi innanzi citati, a parere del Collegio, debbono riconoscersi tutti correttamente posti a base della pretesa erariale. Nel caso di specie, peraltro, non risulta essersi verificata alcuna delle ipotesi di esenzione dall’imposta e neppure di eventuale tassazione alla fonte riferita ai periodi d’imposta oggetto della contestazione. Ne consegue che, allo stato, deve dichiararsi sostanzialmente legittima la procedura di accertamento disposta a carico della ricorrente. Ciò, avuto riguardo alla circostanza che la ricorrente medesima ha comunque conseguito redditi, presuntivamente calcolati dallo stesso Ufficio e che la ricorrente medesima, pur avendo provato chiaramente quale era effettivamente la propria attività nel corso degli anni, non ha provato tuttavia quale era o poteva essere l’ammontare delle somme da lei percepite e le somme da lei spese, non avendo a ciò prodotto alcuna documentazione idonea. Nella sostanza, debbono riconoscersi, quindi, sostanzialmente fondati gli accertamenti sintetici delle imposte afferenti alle annualità oggetto della contestazione, a titolo IRPEF ed Addizionali, atteso che la ricorrente ha concretamente sostenuto ingenti spese per incrementi patrimoniali, senza che la medesima avesse dichiarato redditi che ne giustificassero la effettiva sostenibilità. Non appare, pertanto, a parere del Collegio, assolutamente fondata la precisazione addotta da parte ricorrente circa la particolare natura degli importi percepiti per lo svolgimento della propria attività di meretrice e, quindi, della non assoggettabilità degli stessi ad alcuna imposizione fiscale, in quanto, a suo parere, i compensi percepiti a tale scopo dovevano considerarsi “una forma di risarcimento danni sui generis a causa della lesione della integrità della dignità di cui subisce l’affronto della vendita di sé”. Nel merito delle eccezioni sollevate da parte ricorrente, appare corretto osservare che, allo stato, occorre prendere atto, in linea di principio, della correttezza dell’argomentazione addotta da parte dell’Agenzia delle Entrate, ampiamente precisata in sede dibattimentale, circa la effettiva natura della prestazione dell’attività in concreto esercitata dalla ricorrente. E’ dato rilevare, infatti, che effettivamente, nelle ipotesi della specie, gli utili da prostituzione sono assolutamente imponibili, in quanto devono inquadrarsi nella specifica categoria dei redditi di lavoro autonomo. Avuto riguardo alle risultanze in atti, appare corretto osservare che in concreto la ricorrente ha esercitato, in modo abituale e continuativo, la professione di prostituzione e che tale abitualità della professione di meretricio, essendo comprovata al di là di ogni ragionevole dubbio, fa escludere che i compensi siano stati effettuati “cum animo donandi” o come regali occasionali, laddove invece appare certo che le frequentazioni fossero regolate da precisi accordi commerciali, di natura sinallagmatica riconducibili al “do ut facias”, per cui le parti erano ben consce di adempiere ad obblighi contrattuali, sia pure aventi uno scopo che offende il buon costume, ma che, una volta assolto, non potevano essere, in alcun modo, ripetuti (art. 2035 c. C. ).
Si ritiene di poter osservare, inoltre, che, a parere del Collegio, occorre dichiarare infondata anche la affermata natura risarcitoria dei proventi derivanti dall’attività di meretricio, precisata da parte ricorrente al fine di sentire dichiarata la insussistenza della pretesa erariale in merito agli utili conseguiti per lo svolgimento della citata attività. Appare corretto dichiarare, nel merito, la esclusione della natura risarcitoria dei proventi percepiti per lo svolgimento dell’attività di meretrice, a motivo del fatto che, nelle ipotesi della specie, il consenso manifestato dall’avente diritto preclude assolutamente che si possa far luogo al risarcimento. E’ dato rilevare, infatti, che, in concreto, se un soggetto acconsente, ancorché il fatto posto in essere venga avvertito dalla generalità delle persone come violazione della morale corrente, tale comportamento certamente non può giuridicamente assumere natura di “risarcimento”. Va precisato, al riguardo, che senza antigiuridicità non ci può essere risarcimento, né indennizzo alcuno. E’ palese che la fattispecie si configuri quale ipotesi contrattuale, come precisamente previsto dall’esame dell’art. 1325 del c. C. Infatti: – sussiste l’accordo delle parti (contrattazione del costo della prestazione); – sussiste la causa, (né questa è illecita per conformi giudicati di legittimità); – sussiste l’oggetto, in quanto possibile lecito (come innanzi precisato), determinato e/o determinabile; – sussiste la forma (volontà orale liberamente espressa). A tal fine, corretto si appalesa il richiamo alla recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, la quale ha chiaramente affermato il principio secondo il quale la prestazione non pagata di un rapporto di meretricio configura, in capo al richiedente, l’ipotesi delittuosa di reato di stupro.
Ne consegue che il pagamento della prestazione “comprovando la volontà della consenziente ne elide la violenza, configurandosi nella fattispecie la sussistenza di un rapporto contrattuale e non risarcitorio”.
Occorre prendere atto, infine, come correttamente precisato dall’Organo di accertamento nei propri scritti difensivi, che nella sostanza gli utili da prostituzione sono in sostanza imponibili e, come tali, devono essere inquadrati nella categoria di redditi di lavoro autonomo.
E’ dato rilevare, infatti, in linea di fatto e di diritto, che effettivamente, nelle ipotesi della specie, i proventi derivanti dall’attività di prostituzione esercitata professionalmente, devono essere riconducibili alla categoria di cui all’art. 6 del T. U. I. R. , ovvero nella categoria dei “redditi di lavoro autonomo”, in quanto in concreto sussistono tutti i requisiti specifici, quali: – la prevalenza del lavoro personale della prestatrice d’opera; – l’assenza del vincolo di subordinazione; – la libera pattuizione del compenso; – l’assunzione degli oneri relativi alla esecuzione della prestazione e del rischio inerente alla esecuzione stessa.
A tal fine, allo stato degli atti, appare corretto il richiamo della parte resistente alla sentenza emessa dalla Corte di Giustizia CEE nella causa C-268/99 del 20. 11. 2001, in base alla quale veniva definitivamente riconosciuto che l’attività di meretricio doveva essere qualificata come “lavoro autonomo”. Osservano i Giudici della citata Corte comunitaria che “la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita” che rientra nella nozione di “attività economica”.
Il meretricio, inoltre, viene più precisamente meglio definito come un’attività “tramite la quale il prestatore soddisfa, a titolo oneroso, una domanda del beneficiario senza produrre o trasferire beni materiali”.
La Corte di Giustizia ha riconosciuto, pertanto, che “la prostituzione rientra nelle attività economiche svolte in qualità di lavoratore autonomo, qualora sia dimostrato che è svolta dal prestatore senza alcun vincolo di subordinazione per quanto riguarda la scelta di tale attività, le condizioni di lavoro e retributive, sotto la propria responsabilità ed a fronte di una retribuzione che gli sia pagata integralmente e direttamente. Spetta al giudice nazionale accertare in ciascun caso, alla luce degli elementi di prova che gli sono forniti, se ricorrono tali presupposti”. Invece, nel caso in cui l’attività di prostituzione viene svolta in modo occasionale, i proventi conseguiti per tale attività possono essere fatti rientrare nella categoria di redditi diversi, ed in particolare, tra quelli previsti dall’art. 67, comma 1, lettera I) del TUIR, che comprende fra i redditi diversi anche quelli “. Derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”.
In via definitiva, appare corretto osservare che in concreto la ricorrente ha effettivamente svolto attività di meretricio e che nella sostanza tutto ciò legittima la ripresa a tassazione dei relativi proventi non dichiarati. Ciò, in conformità alla giurisprudenza adottata dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale in merito ad analoga questione, con sentenza n. 20528 del 1° ottobre 2010, ha chiaramente affermato che “. All’esercizio dell’attività di prostituta della Signora. , che ha coltivato nel tempo numerose relazioni tutte lautamente pagate, non vi è dubbio alcuno che anche tali proventi debbano essere sottoposti a tassazione, dal momento che pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita”.
I redditi provenienti dal meretricio, infatti, vanno considerati, secondo i Giudici di legittimità, come guadagni derivanti dall’esercizio di un’attività economica, come tutte le altre. Ne consegue che, allo stato, il reddito da prostituzione è correttamente ascrivibile tra quelli indicati nell’art. 6 del TUIR ed, in particolare, nella categoria dei redditi diversi quelli riconducibili all’ipotesi prevista dall’art. 67, comma 1, dello stesso Testo Unico. Alla luce delle considerazioni innanzi enunciate, appare corretto osservare, in via definitiva, che la condotta dell’Agenzia delle Entrate deve riconoscersi pienamente legittima, dal momento che la norma richiamata dalla stessa Amministrazione Finanziaria sembra rispondere proprio all’esigenza, avvertita dal legislatore, di ricondurre a tassazione tutte quelle espressioni economiche, connesse all’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, idonee a concorrere alla spesa pubblica, in attuazione del disposto di cui all’art. 53 della Costituzione. Va osservato, peraltro, che effettivamente la sopracitata categoria residuale di cui all’art. 67 del TUIR trova il fondamento normativo proprio nell’art. 53 della Costituzione, secondo il quale ciascuno è tenuto a contribuire alle spese pubbliche in base alla propria capacità contributiva. A questo principio generale possono essere portate eccezioni, necessariamente e tassativamente indicate dal legislatore, e comunque giustificate, a livello sociale, da motivi del tutto particolari. Non può, d’altra parte, ritenersi ammissibile che determinati soggetti possano eludere il dovere di contribuire al sostenimento dei costi dei servizi collettivi, di cui essi stessi beneficiano. Avuto riguardo, in via definitiva, alle risultanze in atti, ed in particolare, alla natura del reddito e alla tassabilità dei proventi derivanti dallo svolgimento abituale dell’attività di prostituzione, osserva il Collegio che, allo stato, occorre dichiarare pienamente fondata la procedura di accertamento disposta dall’Agenzia delle Entrate e che, per l’effetto, occorre disporre il definitivo rigetto dei ricorsi proposti in questa sede. Le spese del presente giudizio si dichiarano dovute dalla parte soccombente nella misura complessiva di Euro 25. 500,00.
P. Q. M. La Commissione Tributaria Provinciale di Novara – Sezione Prima – all’udienza del 17. 11. 2010, definitivamente pronunciando, – respinge i ricorsi; – condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in complessivi Euro 25. 500,00.