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mercoledì 2 Ottobre 2024

Quando la prostituzione è un “contratto di schiavitù”: il consenso della Escort-vittima esclude il reato ?

Nel caso in cui venga stipulato tra due soggetti un contratto di schiavitù di una Escort, l’eventuale consenso della donna, giustificherebbe penalmente i comportamenti pattuiti?  In altri termini, gli stipulanti andrebbero lo stesso in galera?  Il caso pratico sul quale si è pronunciata la Corte d’Assise.  

Atti dispositivi del proprio corpo contrari al buon costume ex articolo 5 del codice civile

L’articolo 5 del codice civile si riferisce all’attività dispositiva che un soggetto può svolgere con riferimento a parti del proprio corpo, vietando anche gli atti contrari al buon costume. Secondo la dottrina prevalente i limiti imposti da tale articolo sarebbero applicabili oltre agli atti stricto sensu materiali riguardanti la dimensione fisica, anche quelli dispositivi di diritti della personalità che toccano la sfera psico-emotiva. Inoltre l’operatività di tale norma sarebbe estensibile anche ai negozi giuridici, considerato che gli atti giuridici sono una sotto-categoria dei fatti umani.

Il contratto di schiavitù

Un caso pratico nel quale l’accordo contrattuale ha ad oggetto un contenuto analogo a quello vietato ex articolo 5 c. C.  è il contratto di schiavitù, speculare al reato disegnato dall’art 600 c. P.  la cui ratio incriminatrice si identifica nella tutela della persona umana intesa come persona individuale.

Il caso

Una vicenda analoga è stata sottoposta al vaglio della Corte d’Assise di Trento la quale si è espressa con una importante sentenza, in merito ai principi civilistici e penalistici di tale “contratto”, focalizzando l’analisi sul ruolo scriminante del consenso dell’avente diritto nell’ambito del reato di schiavitù. Nel caso di specie, tale contratto era stato stipulato tra due soggetti a cui era estranea la vittima, la quale secondo le trattative degli stipulanti avrebbe dovuto costituire proprio l’“oggetto” del contratto, costringendola non solo a spostarsi in diverse città italiane – anche al fine di impedirle di crearsi legami stabili o anche soltanto conoscenze nel luogo di residenza – ma anche ad esercitare, contro la sua volontà, l’attività di prostituzione, acquisendone i proventi. L’imputato, dopo aver “acquistato” la ragazza, l’aveva quindi mantenuta, in concorso con altri, in uno stato di soggezione continuativa, approfittando della sua condizione di inferiorità psichica e della situazione di necessità in cui la stessa versava.

N. B.  Le statuizioni elaborate dalla Corte in merito all’efficacia scriminante del presunto consenso della donna, cioè giustificativo ai fini dell’esclusione dell’illecito penale, resterebbero applicabili anche all’ipotesi in cui la contrattazione intervenisse tra vittima e “carnefice”.

La difesa dell’imputato

La difesa al fine di escludere a carico dell’imputato la configurabilità del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù cui all’articolo 600 c. P. , rilevava l’operatività della scriminante del consenso prestato dalla presunta vittima, asserendo che la stessa si sarebbe volontariamente prostituita e sottomessa alla signoria dell’imputato, scegliendo di soggiacere ai sui desideri ed interessi, come in una sorta di sindrome di Stoccolma.

Il consenso della Escort-vittima esclude la rilevanza penale dell’accordo?

La Corte di Assise, rigettando la tesi difensiva, enunciava il seguente principio: “il consenso della persona offesa è irrilevante rispetto ai delitti contro la personalità individuale, non essendo la dignità né la libertà diritti disponibili, pertanto la compartecipazione, da parte della vittima del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, agli utili prodotti dall’attività cui essa è costretta, non esclude la configurabilità del reato; determinante è invece lo stato di soggezione in cui versi la persona offesa, essendo sottoposta all’altrui potere di disposizione, che si estrinseca nell’esigere prestazioni sessuali o lavorative o di accattonaggio ad obblighi di fare.

Conclusione

Nell’ipotesi esaminata quindi, scatta il reato ex articolo 600 c. P. Punito con la reclusione dagli otto a venti anni.

Per approfondimenti: Corte di Assise di Trento 20. 11. 2007, sentenza n°5246

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