Cassazione sezione lavoro del 7 marzo 2012, n. 3547: La incapacità/capacità di rendere la prestazione lavorativa del dirigente deve essere valutata rispetto al grado di impegno decisionale richiesto per le specifiche elevate responsabilità affidatagli. Pertanto, deve ragionevolmente opinarsi, avuto riguardo alle funzioni del dirigente, che, in assenza di specifiche prospettazioni contrarie da parte del datore di lavoro, lo stato ansioso depressivo reattivo diagnosticato a quest’ultimo lo ponga effettivamente in condizione di non poter rendere la sua prestazione, essendo questa incompatibile con la terapia di riposo psichico coerente con la specifica affezione.
Cass. Sez. Lav. 7 marzo 2012, n. 3547 La incapacità/capacità di rendere la prestazione lavorativa del dirigente deve essere valutata rispetto al grado di impegno decisionale richiesto per le specifiche elevate responsabilità affidatagli. Pertanto, deve ragionevolmente opinarsi, avuto riguardo alle funzioni del dirigente, che, in assenza di specifiche prospettazioni contrarie da parte del datore di lavoro, lo stato ansioso depressivo reattivo diagnosticato a quest’ultimo lo ponga effettivamente in condizione di non poter rendere la sua prestazione, essendo questa incompatibile con la terapia di riposo psichico coerente con la specifica affezione.
Il fatto Un dirigente veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo connesso ad una riorganizzazione interna all’impresa, che aveva comportato la soppressione dell’area di sua responsabilità. Il dirigente contestando l’esistenza del giustificato motivo oggettivo addotto dalla società e sostenendo di essere stato licenziato in costanza dello stato di malattia adiva il Tribunale di Roma per richiedere la nullità del licenziamento, in quanto discriminatorio, la conseguente reintegra nel posto di lavoro e il risarcimento del danno. Il datore di lavoro si costitutiva in giudizio, contestando tutte le domande del ricorrente, oltre a depositare opposizione a due decreti ingiuntivi relativi al pagamento delle retribuzioni del periodo dedotto in malattia e decorrente dal giorno anteriore alla consegna della comunicazione di licenziamento, che il dirigente medio tempore aveva ottenuto.
Il Tribunale di Roma se, da un lato, confermava la debenza delle retribuzioni maturate nel corso della malattia, dall’altro dichiarava la legittimità del licenziamento in quanto «giustificato da precise scelte organizzative e non già dettato da intenti ritorsivi o discriminatori». Avverso tale decisione, il dirigente adiva la Corte d’Appello di Roma richiedendo l’integrale accoglimento delle domande formulate nel giudizio di primo grado. Anche la società interveniva con un autonomo appello instando, in parziale riforma della sentenza, per la restituzione delle somme medio tempore pagate al dirigente. La Corte d’Appello di Roma rigettava il ricorso del dirigente, confermando la liceità del licenziamento, mentre accoglieva il ricorso proposto dalla datrice di lavoro, condannando il dirigente alla restituzioni degli importi percepiti.
Avverso tale pronuncia ricorreva il dirigente con due motivazioni e resisteva il datore di lavoro con controricorso, proponendo ricorso incidentale fondato su due motivazioni. I motivi della decisione Con riguardo al primo motivo di censura del ricorso, ed inerente alla legittimità della riorganizzazione attuata e del conseguente provvedimento espulsivo, la Suprema Corte aderiva alla decisione della Corte d’Appello, confermando la legittimità del licenziamento intimato. In particolare, osservava che, già in primo grado, l’istruttoria condotta dal Tribunale di Roma aveva consentito di accertare l’effettiva riorganizzazione aziendale in atto e, nello specifico, lo scorporo dell’area di responsabilità del dirigente.
Con il secondo motivo del ricorso principale, il dirigente, muovendo dal presupposto che la motivazione a sostegno del licenziamento fosse insussistente, ha sostenuto che la Corte d’Appello avesse erroneamente concluso per la debenza dell’indennità supplementare solo nell’ipotesi in cui non venisse addotta alcuna giustificazione al licenziamento e non anche nell’ipotesi in cui la giustificazione fornita dal datore di lavoro fosse infondata.
La Cassazione ha ritenuto inammissibile il quesito, in quanto posto in violazione del principio di inerenza alla motivazione della sentenza impugnata. Infatti, così formulata, la domanda presupporrebbe che la Corte territoriale avesse riscontrato l’insussistenza della motivazione del licenziamento, cosa che, al contrario, non è avvenuta, avendo il Giudice del gravame non solo accertato l’esistenza della motivazione del recesso, ma altresì la sua legittimità. Quanto ai due motivi del ricorso incidentale, il primo riguardante il momento di efficacia del licenziamento, atteso il rifiuto del dirigente di firmare e ricevere la lettera di recesso ed il secondo concernente la veridicità dello stato di malattia, considerata la loro stretta relazione, venivano trattati congiuntamente. La Suprema Corte, ribadito il proprio granitico orientamento sull’obbligo del lavoratore di ricevere le comunicazioni sul posto di lavoro (Cass. 5 giugno 2001, n. 7620 e Cass. 12 novembre 1999, n. 12571), ha osservato come il comportamento del dirigente, piuttosto che costituire un vero e proprio rifiuto di ricevere la lettera di licenziamento, manifestasse la sua proposta di formalizzare un possibile accordo per una risoluzione consensuale ed incentivata il giorno successivo, come alternativa alla ricezione del recesso. Secondo la Suprema Corte, qualora la Società avesse voluto dimostrare che il licenziamento si fosse perfezionato nel momento di consegna della lettera, avrebbe dovuto: i) dimostrare l’articolato raggiro sotteso al presunto stato di malattia del dirigente, ii) dedurre prova circa l’inesistenza e la falsità dello stato di malattia o perlomeno, iii) contestare le certificazioni mediche prodotte dal dirigente, che attestavano come il dirigente fosse affetto da uno stato ansioso depressivo reattivo con necessità di riposo e cure. Niente di tutto questo è avvenuto. Invero, la pronuncia in questione sottolinea come la società non abbia mai neppure allegato fatti che, anche indirettamente, potessero far ritenere la inesistenza della malattia del dirigente. Peraltro, sottolinea la Cassazione, lo stato ansioso depressivo reattivo con necessità di riposo e cure diagnosticato al dirigente e risultante dalla certificazione medica prodotta, ha quali cause scatenanti tipiche, appunto, la perdita dellavoro e il pensionamento e, pertanto, appare assolutamente compatibile con la notizia del licenziamento.
A ciò si aggiunga che gli Ermellini hanno evidenziato, proprio sulla base della peculiare posizione dirigenziale al vertice dell’impresa e del suo obbligo rafforzato di bene operare nell’interesse obiettivo della medesima, come lo stato ansioso depressivo, sia tale da porre il dirigente in condizione di non poter rendere le prestazioni richieste e di non poter sostenere il grado di responsabilità insito nella sua posizione apicale. Difatti la pronuncia in commento chiarisce come la valutazione della incapacità/capacità di rendere la prestazione deve essere correlata all’elevato grado di impegno decisionale richiesto ad un dirigente per le specifiche responsabilità che gli competono e per l’importante grado di autonomia riconosciutogli, risultando chiaramente incompatibile con questo elevato impegno lo stato di salute ansioso depressivo del dirigente e il riposo psichico prescritto. I precedenti giurisprudenziali La valutazione circa la giustificatezza del licenziamento del dirigente deve essere operata, come noto, sulla base di criteri non completamente corrispondenti con quelli previsti per le altre categorie di lavoratori. La ratio legis, che giustifica l’esclusione dei dirigenti dall’area di applicabilità della legge 15 luglio 1966, n. 604 risulta già dai lavori preparatori, secondo cui «l’esclusione dei dirigenti dal campo di applicazione della nuova normativa si fonda sulla considerazione che il rapporto di lavoro di tale categoria abbia garanzie e caratteristiche tali da renderlo essenzialmente diverso dai normali contratti in materia di lavoro. Il concetto di «giustificatezza» del licenziamento del dirigente non coincide con quello di giusta causa o giustificato motivo, potendo ricomprendere qualsiasi motivo, apprezzabile sul piano del diritto, fino alla «semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante, o una importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, o un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura del rapporto fiduciario e quindi giustificarne il licenziamento » (Cass. 11 giugno 2008, n. 15496). Tanto più se si considera che il dirigente «gode di uno status particolare; ha un’autonomia ed una discrezionalità nelle decisioni, ha un potere decisionale e rappresentativo idoneo ad influenzare l’andamento e la vita dell’azienda o del settore cui è preposto, tanto al suo interno quanto nei rapporti con i terzi, il che ne fa un vero e proprio alter ego dell’imprenditore di cui, inoltre, deve godere sempre la piena fiducia» (Corte Cost. 1° luglio 1992, n. 309), non deve stupire se la giustificatezza ricomprenda nel suo alveo come movente del recesso datoriale persino una «mancanza» del dirigente, incentrata su circostanze o accadimenti, che alcun peso assumerebbero, se addotti quali motivi a sostegno di un eventuale recesso datoriale per le altre categorie di lavoratori. Detto ciò, risulta chiaro che il licenziamento del dirigente, quando è sostenuto da una motivazione lecita e obiettivamente verificabile, deve ritenersi giustificato anche ai sensi del contratto collettivo, risultando ingiustificato, solo nell’ipotesi in cui il datore di lavoro eserciti il diritto di recesso in maniera del tutto arbitraria, per motivi pretestuosi o non corrispondenti alla realtà, violando il principio fondamentale di buona fede che presiede all’esecuzione dei contratti ex art. 1375 c. C. (Trib. Milano 22. 11. 07) e con il fine ultimo (lungi dal perseguire il legittimo esercizio di un potere riservato al datore di lavoro) di liberarsi della persona del dirigente (Cass. 22 ottobre 2010, n. 21748 e Cass. 26. 7. 06, n. 17013).
Considerazioni conclusive La Suprema Corte con la sentenza 7 marzo 2012, n. 3547 in commento, oltre a confermare la decisione dei primi due gradi di giudizio nel senso della legittimità del licenziamento, partendo dalla analisi dei connotati propri del ruolo dirigenziale, ha anche statuito che la sindrome ansioso depressiva patita del dirigente, nonché il periodo di riposo prescritto dai medici, risultano del tutto incompatibili con la posizione verticistica ricoperta vero e proprio alter ego dell’imprenditore caratterizzata dall’ampiezza del potere gestorio, dalla posizione di sostanziale autonomia e tale da influenzare l’andamento dell’attività aziendale e pertanto giustifica l’astensione dal lavoro.