Risarcimento dei danni per infortunio sul lavoro: posta la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’articolo 2087 del codice civile, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre – in parziale deroga al principio generale stabilito dall’articolo 2697 del codice civile – non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento.
Risarcimento dei danni per infortunio sul lavoro
Cass. , sez. Lav. , 28 febbraio 2012, n. 3033
Posta la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’articolo 2087 del codice civile, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre – in parziale deroga al principio generale stabilito dall’articolo 2697 del codice civile – non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento.
Diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza – asseritamente omesse – siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso articolo 2087 del codice civile, che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza.
Nel primo caso – riferibile alle misure di sicurezza cosiddette “nominate” – il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa – ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere – nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito. La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno.
Nel secondo caso – in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette “innominate” – la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standard” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe.
Nota – La fattispecie in esame riguarda il caso di un dipendente di una banca che si era rivolto al Tribunale di Foggia per domandare il risarcimento dei danni per infortunio sul lavoro asseritamente subiti in occasione di una rapina avvenuta nell’agenzia della banca dove prestava servizio.
Il Tribunale ha rigettato il ricorso.
Anche la Corte di Appello di Bari ha respinto il ricorso del lavoratore ritenendo che la banca avesse adempiuto all’obbligazione di cui all’articolo 2087 del codice civile essendo stata accertata, nell’agenzia dove era avvenuta la rapina, l’osservanza degli standard di sicurezza presenti in tutte le altre filiali del medesimo istituto bancario. Inoltre, il lavoratore non aveva indicato ulteriori sistemi di sicurezza che la banca avrebbe potuto o dovuto osservare per evitare la rapina.
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando che la sentenza impugnata fosse errata nella parte in cui aveva gravato il lavoratore dell’onere della prova in merito all’adempimento dell’obbligo di sicurezza che sarebbe, invece, spettato alla banca.
La Suprema Corte, richiamando una precedente decisione in materia (Cass. 25 maggio 2006, n. 12445), ha ritenuto infondato detto motivo di impugnazione.
Dopo avere premesso che: “Posta la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’articolo 2087 del codice civile, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre in parziale deroga al principio generale stabilito dall’articolo 2697 del codice civile non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento “, la Suprema Corte di Cassazione ha precisato che “Diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza asseritamente omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso articolo 2087 c. C. , che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza.
Nel primo caso riferibile alle misure di sicurezza cosiddette “nominate” il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito.
La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno.
Nel secondo caso in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette “innominate” la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standard” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe”.
La Cassazione ha, pertanto, stabilito che nel caso in esame la Corte territoriale aveva correttamente individuato gli standard di sicurezza idonei ad adempiere l’obbligo di sicurezza in quelli utilizzati nelle altre filiali dello stesso istituto bancario e, posto che dette misure di sicurezza erano risultate presenti nell’agenzia che aveva subito la rapina, l’obbligo di sicurezza della banca era da ritenersi adempiuto.
La Suprema Corte ha, altresì, rilevato che il lavoratore ricorrente non aveva indicato le misure che il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare.
La Corte di Cassazione, ha, per questi motivi, rigettato il ricorso.