Rapporto a tempo determinato e impugnazione del termine apposto illegittimamente: Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un terminale finale, per aversi tacito mutuo consenso, inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro, non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente appoosto e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumerein maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro, ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso.
Rapporto a tempo determinato e impugnazione del termine apposto illegittimamente
Cass. , sez. Lav. , 10 aprile 2012, n. 5677
Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un terminale finale, per aversi tacito mutuo consenso, inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro, non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente appoosto e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumerein maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro, ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso. (Nella specie la S. C. Ha riformato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto sussistente il tacito mutuo consenso delle parti alla risoluzione del contratto sul mero decorso del tempo, più di sei anni, tra la cessazione del contratto e l’impugnazione dello stesso. )
Nota – Nella fattispecie in esame, la Corte di Appello di Catania ha confermato la decisione di primo grado con la quale era stata rigettata la domanda diretta all’accertamento della nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro a tempo determinato prorogato per due volte, in ragione del mutuo consenso alla risoluzione del rapporto di lavoro intervenuto fra le parti, desumibile dal fatto che il lavoratore avevalasciato decorrere più di sei anni dalla scadenza dell’ultimo rapporto a termine prima di attivare il tentativo di conciliazione e, quindi di agire in giudizio contro la società.
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione lamentando che il mutuo consenso alla risoluzione del contratto di lavoro non può essere desunto dal mero decorso del tempo intercorrente tra la scadenza del contratto a tempo determinato e l’esperimento dell’azione in giudizio per l’impugnazione della clausola del termine.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato detto motivo di impugnazione e richiamando alcune decisioni in materia ( Cass. 15 novembre 2010, n. 23057; Cass. 19 novembre 2010, n. 23501; Cass. 1° febbraio 2010, n. 2279; Cass. 29 aprile 2011, n. 9583), ha confermato che: “per aversi tacito mutuo consenso, inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro, non basta il mero decorso del tempofra la scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumere in maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro, ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso”.
In applicazione di detti principi, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto insufficiente la motivazione resa dall Corte territoriale, in quanto fondata su un fatto ( il mero decorso del tempo – più di sei anni – tra la cessazione del secondo ed ultimo contratto a termine e l’esercizio dell’azione giudiziaria) di per sé giuridicamente non rilevante e non accompagnato dalla valorizzazione di circostanze diversamente significative ed idonee ad essere interpretate come sintomatiche di una chiara e certa comune volontà di considerare definitivamente chiuso il rapporto di lavorativo.
La Suprema Corte ha, pertanto, accolto il ricorso rinviando il giudizio alla Corte di Appello di Palermo per l’applicazione del principio enunciato.