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giovedì 3 Ottobre 2024

Accolto ricorso avverso ripresa a tassazione di somme per asserita inesistenza di rapporti commerciali

La ripresa a tassazione di somme (L. 508. 080. 000) per asserita inesistenza di rapporti commerciali con la soc. XXXXXXXXX era illegittima, sia in forza dei giudicati esterni formatisi sulla medesima questione con decisioni di merito sull’Iva 1991/1992 e sull’Irpeg 1991, sia in considerazione dello scarso credito dato dall’amministrazione stessa alle proprie tesi (non avendole più coltivate con ulteriori impugnazioni).

Sentenza Cassazione Civile n. 19702 del 27-09-2011

Svolgimento del processo Con sentenza dell’11 aprile 2005 la CTR – Lazio ha accolto l’appello proposto dalla soc.  XXXXX  XXXXX (già  XXXXX  XXXXX) nei confronti dell’Agenzia delle entrate, annullando l’avviso di accertamento notificato il 7 dicembre 1998 per il recupero di maggiori Irpeg e Ilor relative all’anno d’imposta 1992. Ha motivato la decisione ritenendo che:

a) la ripresa a tassazione di somme (L. 508. 080. 000) per asserita inesistenza di rapporti commerciali con la soc. XXXXXXXX2 era illegittima, sia in forza dei giudicati esterni formatisi sulla medesima questione con decisioni di merito sull’Iva 1991/1992 e sull’Irpeg 1991, sia in considerazione dello scarso credito dato dall’amministrazione stessa alle proprie tesi (non avendole più coltivate con ulteriori impugnazioni);

b) il recupero a tassazione per interessi attivi (L. 3. 667. 770) maturati su depositi cauzionali L. N. 392 del 1978, ex art. 11, era illegittimo essendo la presunzione di fruttuosità prevista per le sole locazioni abitative, e non per quelle “ad uso diverso”, e mancando l’attualità della retrocessione delle cauzioni con gli accessori;

c) il recupero a tassazione per interessi attivi (L. 40. 673. 487) maturati su rimborsi fiscali era illegittimo non essendo i relativi crediti certi, liquidi ed esigibili;

d) la ripresa a tassazione di somme (L. 151. 974. 165) per asserita indeducibilità delle “penalità per ritardata consegna ai clienti” era illegittima trattandosi di costi strettamente inerenti all’attività dell’impresa e fondati su contratti, così come i relativi ricavi.

Con atto notificato prima presso la soc.  XXXXX  XXXXX il 17 maggio 2006 e poi presso i suoi difensori il 31 maggio 2006, l’Agenzia delle entrate e il Ministero dell’economia e delle finanze hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La soc. Contribuente resiste con controricorso notificato il 10 luglio 2006.

Le parti si difendono con ulteriori memorie.

Motivi della decisione

1. 1. -Preliminarmente, si rileva che infondatamente la difesa della soc.  XXXXX  XXXXX eccepisce la tardivìtà del ricorso essendo stato proposto con notificazione richiesta ed eseguita ex art. 330 c. P. C. , il 31 maggio 2006, allorquando era spirato, sin dal 27 maggio 2006, il termine di cui all’art. 327 c. P. C. Infatti, la notifica del ricorso per cassazione alla parte personalmente, anzichè al difensore costituito nel giudizio nel quale è stata resa la sentenza impugnata, non ne determina l’inesistenza giuridica, ma semplicemente la nullità, sanabile in forza della rinnovazione della notifica, sia quando il ricorrente vi provveda di propria iniziativa, anticipando l’ordine contemplato dall’art. 291 c. P. C. , sia quando agisca in esecuzione di esso, senza che rilevi che alla rinnovazione si provveda posteriormente alla scadenza del termine per impugnare (Sez. 5, n. 9242 del 2004). Inoltre, se la parte intimata si è costituita in giudizio, la nullità deve ritenersi sanata “ex tunc” secondo il principio generale dettato dall’art. 156 c. P. C. , comma 2, (Sez. 5, n. 1156 del 2008).

2. – Pregiudizialmente, e d’ufficio, si rileva la carenza di legittimazione processuale dell’altro soggetto rappresentato dall’avvocatura erariale, il Ministero dell’economia e delle finanze, che non è stato parte nel giudizio di secondo grado ed è oramai estraneo al contenzioso tributario dopo la creazione delle agenzie fiscali. L’intervento ministeriale in cassazione è dunque inammissibile e il ricorso dell’avvocatura dello stato va esaminato unicamente riguardo all’Agenzia delle entrate, che è la sola a essere legittimamente impugnante. Il ricorso per parte ministeriale non incide concretamente sul presente giudizio e dunque le relative spese possono essere compensate tra gli interessati.

3. -Passando all’esame dei motivi di ricorso, con il primo, l’Agenzia delle entrate fondatamente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c. C. , e art. 324 c. P. C. , oltre a vizio di motivazione, in ordine al giudicato esterno ritenuto dai giudici d’appello riguardo alle decisioni su Iva 1991/1992 e su Irpeg 1991, oramai definitive e favorevoli per la contribuente.

3. 1. – Va, in primo luogo, riaffermato il principio che nel giudizio in materia di accertamento a imposte dirette dovute da un’impresa, in relazione all’emissione di fatture per operazioni ritenute inesistenti, non assume rilevanza preclusiva il giudicato esterno formatosi in controversie, aventi per oggetto l’impugnazione di avvisi di rettifica Iva “fondati sul medesimo presupposto”, definite nel senso dell’infondatezza della contestazione del fisco. Ciò in quanto tali ultimi giudizi hanno inciso su un rapporto giuridico diverso sia dal punto di vista oggettivo, perchè concernente una differente obbligazione tributaria, che dal punto di vista soggettivo, essendo diverso, nell’assetto normativo del tempo, l’ufficio finanziario preposto al relativo accertamento (Sez. 5, n. 5943 del 2007). Analogamente e in fattispecie inversa, si è ritenuto il giudicato, formatosi in materia di tributi indiretti, non è preclusivo delle questioni concernenti il diverso rapporto giuridico d’imposta in tema di Iva, anche se relativo alla stessa annualità e scaturente dalla medesima indagine di fatto (Sez. 5, n. 25200 del 2009). Dunque, la CTR non coglie nel segno quando applica alla contribuente, per Irpeg e Ilor relative all’anno d’imposta 1992, il favorevole giudicato di merito formatosi in materia di Iva per gli anni 1991 e 1992.

3. 2. – Inoltre, riguardo alle favorevoli decisioni per l’anno d’imposta 1991 (Irpeg e Iva) rispetto a Irpeg e Ilor 1992, il riconoscimento della capacità espansiva del giudicato tributario può operare solo rispetto a quegli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi a una pluralità di periodi d’imposta (es. Le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente (in riferimento a tali elementi, cfr. Sez. U, n. 13916 del 2006). Orbene, il giudicato avente per oggetto il riconoscimento della regolarità dei rapporti commerciali con la soc. Computer Security non può comportare la sua automatica l’estensione ad altra annualità, in quanto il rapporto tributario postula l’accertamento di ulteriori presupposti di fatto potenzialmente mutevoli, quali, ad esempio, l’avvenuto pagamento di diverse prestazioni e la effettività delle stesse nell’anno 1992, estraneo all’oggetto del giudicato per l’anno precedente.

3. 3. – Nè potrebbe parlarsi, riguardo ai rapporti della contribuente con la soc. Computer Security, di una doppia “ratio decidendi” atteso che il passaggio della sentenza d’appello circa lo scarso credito dato dalla amministrazione alle proprie tesi, non avendole più coltivate con ulteriori impugnazioni, non assume la veste di argomento autonomo e fondante. Si tratta, come è evidente, di un passaggio meramente dialogico, privo di contenuto decisorio e confinato in una sfera estranea al valore precettivo della pronuncia, a fronte di una “exceptio litis ingressum impediens” come il ritenuto giudicato esterno (cfr. , in generale sulle pregiudiziali, Cass. N. 1188 del 1966, n. 3469 del 1976, n. 273 del 1984; nel processo tributario, v, n. 3365 del 1984; in materia di giurisdizione, v, Sez. U n. 2865 del 2009).

3. 4. – Il primo motivo va, dunque, accolto riguardo alla censura di violazione di legge, restando assorbita la contestuale censura di vizio motivazionale.

4. – Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 41 della c. D. Legge sull’equo canone, nonchè vizio di motivazione, in ordine alla negata presunzione di fruttuosità dei depositi cauzionali per le locazioni non abitative.

4. 1. -Il motivo è inammissibile sotto un duplice profilo. Com’è noto, quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte e autonome rationes decidendi ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perchè possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite rationes, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate. Nella specie la CTR ha ritenuto che il recupero a tassazione per interessi attivi maturati su depositi cauzionali L. N. 392 del 1978, ex art. 11, era illegittimo, poichè la presunzione di fruttuosità non era prevista per le locazioni “ad uso diverso” (prima ratio) e perchè mancava l’attualità della necessaria retrocessione delle cauzioni con gli accessori (seconda ratio). Ne consegue che, non impugnata la seconda ratio decidendi circa la non. Attualità della retrocessione delle cauzioni con gli accessori, è inammissibile, per difetto d’interesse, l’unica censura sulla sola negata fruttuosità dei depositi cauzionali per le locazioni non abitative, atteso che, anche in caso di fondatezza di essa, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base dell’altra ratio, oramai consolidatasi perchè non impugnata (Cass. N. 12372 del 200 6 e n. 3386 del 2011).

4. 2. – inoltre, sotto altro profilo d’inammissibilità, è orientamento costante che la parte ricorrente, la quale invochi clausole contrattuali con inerenti versamenti, per il principio dell’autosufficienza del ricorso, abbia l’onere di trascriverle integralmente, o almeno nelle parti salienti e rilevanti ai fini della decisione, perchè al giudice di legittimità è precluso l’esame degli atti per verificare la rilevanza e la fondatezza della censura (Cass. N. 15279 del 2003, in generale; cfr, nella giurisprudenza tributaria, Cass. N. 13587 del 2010 e n. 6923 del 2011). L’odierna ricorrente non ha riprodotto alcunchè circa i patti negoziali sui depositi cauzionali in contestazione e posti a fondamento dell’atto impositivo.

5. – Con il terzo motivo, l’Agenzia denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 75 T. U. I. R. , nonchè vizio di motivazione, in ordine al tempo della tassazione degli interessi attivi sui rimborsi d’imposta. La ricorrente osserva che erroneamente i giudici d’appello ritengono che la tassabilità operi solo dal momento di emissione del relativo provvedimento; ritiene, in senso contrario, che la certezza del credito deriva dalla stessa richiesta di rimborso, mentre l’unica incertezza riguarda l’annualità dell’erogazione, con conseguente necessaria applicazione del criterio di competenza.

5. 1. – Il motivo è fondato, dovendosi dare continuità all’orientamento già espresso da questa Sezione, secondo cui, in tema di determinazione del reddito d’impresa – ai sensi del D. P. R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 56, comma 3, e art. 75, comma 1, – gli interessi sui crediti d’imposta concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui vengono a maturazione, secondo la regola generale del criterio di competenza (Sez. 5, n. 18173 del 2002).

5. 2. -Nessuna norma di legge autorizza una deroga, per gli interessi sui crediti d’imposta, ai criteri di imputazione per competenza fissati dall’art. 56 T. U. I. R. Per gli interessi e dall’art. 75 T. U. I. R. Per tutti i componenti positivi e negativi del reddito d’impresa. Invero, già nel D. P. R. N. 597 del 1973, art. 74, i proventi – tra i quali si annoverano anche gli interessi attivi sui crediti e in particolare sui crediti d’imposta – concorrono a formare il reddito d’impresa nell’esercizio di competenza, a meno che la loro esistenza non sia ancora certa o il loro ammontare non sia ancora determinabile in modo oggettivo. Ma, poichè detti interessi trovano titolo e criterio di determinazione (quanto al tasso applicabile) nella legge, non è configurabile un’incertezza che giustifichi l’applicazione della seconda parte della norma. Tale previsione è meglio esplicitata, con riguardo agli interessi, proprio nel T. U. I. R. , che all’art. 75, comma 1, conferma il criterio di competenza per tutti i componenti positivi e negativi del reddito d’impresa, e all’art. 56, comma 3, stabilisce che tutti gli interessi attivi concorrono a formare il reddito per l’ammontare maturato nell’esercizio; nulla v’è, pertanto, che preveda il criterio di cassa in questa materia (sent. Ult. Cit. ).

5. 3. -Il terzo motivo va, dunque, accolto riguardo alla censura di violazione di legge, restando assorbita la contestuale censura di vizio motivazionale.

6. -Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1382 c. C. E dell’art. 66 T. U. I. R. , nonchè vizio di motivazione, in ordine alla ritenuta deducibilità delle “penalità per ritardata consegna ai clienti”. L’Ufficio assume che dette penalità sarebbero indeducibili perchè, essendo fondate sull’inosservanza di obblighi contrattuali, avrebbero natura sanzionatoria.

6. 1. -La censura dell’Agenzia delle entrate non è fondata. In base al TUIR, le spese e gli altri componenti negativi, di norma, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi od altri proventi che concorrono a formare il reddito. La giurisprudenza di questa Sezione ha, da tempo, chiarito che un costo può essere deducibile dal reddito d’impresa solo se e in quanto sia funzionale alla produzione del reddito stesso. Ciò posto, la correlazione fra costo e reddito è stata senz’altro esclusa con riferimento al pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per punire comportamenti illeciti del contribuente (v. , per le infrazioni stradali, Sez. 5, n. 7071 del 2000 e n. 7317 del 2003; per gli interessi su somme pagate a titolo di sanzione, Sez. 5, n. 11766 del 2009. Cfr. , per taluni distinguo in tema di condono edilizio, Sez. 5, n. 18860 del 2007).

6. 2. – Sulla stessa linea interpretativa, da ultimo, si è ritenuto che non sono deducibili dal reddito d’impresa le sanzioni irrogate dagli organismi garanti della concorrenza e del mercato per avere l’impresa contribuente posto in essere pratiche concordate per falsare la concorrenza sul mercato (Sez. 5, n. 5050 del 2010 e n. 8135 del 2011). L’orientamento passato in rassegna, e in particolare le recenti decisioni sulla indeducibilità delle sanzioni antitrust, pongono l’accento sul fatto che l’illecito spezza il nesso d’inerenza, atteso che “la spesa non nasce più nell’impresa”, ma in un atto o fatto, quello antigiuridico, che per sua natura si pone al di là della sfera aziendale. La sanzione per la violazione di un divieto da parte di un’impresa non deriva da un’attività connessa al corretto esercizio dell’impresa stessa e non può pertanto qualificarsi come fattore produttivo, trattandosi di condotta non soltanto autonoma ed esterna rispetto alla normale vita aziendale, “ma antitetica rispetto al corretto svolgimento di tale attività”. Pretendere, pertanto, che una sanzione costituisca un costo deducibile dal reddito imprenditoriale significherebbe neutralizzare interamente la ratio punitiva delle sanzioni pecuniarie, trasformandole in un risparmio d’imposta, cioè in un premio per le imprese che abbiano agito in violazione di norme imperative.

6. 3. – Cosa totalmente diversa sono le penalità contrattuali stabilite, ex art. 1382 c. C. , per le ritardate consegne ai clienti. Coitì è noto, la clausola penale mira soltanto a determinare preventivamente il risarcimento dei danni in relazione all’ipotesi pattuita, che può consistere nel ritardo o nell’inadempimento (Sez. 2, n. 23706 del 2009). E’, dunque, un patto accessorio del contratto con funzione sia di coercizione all’adempimento, sia di predeterminazione della misura del risarcimento in caso d’inadempimento (Sez. 2, n. 6561 del 1991). La clausola penale, quindi, non ha natura e finalità sanzionatoria o punitiva, ma assolve la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria, tant’è che, se l’ammontare fissato nella clausola penale venga a configurare, secondo l’apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso o uno sconfinamento dell’autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotta. Pertanto, si è ritenuto che deve escludersi che la clausola penale possa essere ricondotta all’istituto nord-americano dei “punitive damages”, avente una finalità sanzionatoria e punitiva che è incompatibile con un astratto sindacato del giudice sulla sproporzione tra l’importo liquidato e il danno effettivamente subito (Sez. 3, n. 1183 del 2007). Ciò comporta il superamento di isolati e remoti arresti che attribuivano alla penale anche carattere sanziona-torio e punitivo (Sez. 1, n. 2020 del 1976); il tutto ha rilevanti ricadute sul piano fiscale.

6. 4. – Invero, proprio la circostanza che le somme sono dovute in forza di apposita clausola penale inserita nel contratto con la clientela, riconduce, pur sempre, l’erogazione alle pattuite vicende del rapporto, e porta ad escludere, oltretutto, l’interruzione del nesso sinallagmatico, risultando la stessa evoluzione delle vicende contrattuali costituire espressione dinamica della attività d’impresa, le cui conseguenze sono disciplinate preventivamente e consensualmente dalle parti contraenti che, per l’appunto, hanno pure quantificato l’onere economico, in ipotesi, posto a carico del contraente ritardatario. E’ appena il caso di ricordare che per legge rilevano, a favore del contribuente, tanto “il mancato conseguimento di ricavi o altri proventi”, quanto “il sostenimento di spese, perdite od oneri a fronte di ricavi o altri proventi”. In conclusione, le penalità previste in contratto per ritardata consegna sono, in tesi generale, deducibili in quanto inerenti all’attività dell’impresa.

6. 5. – Nè la odierna ricorrente ha invocato un diverso atteggiarsi in concreto delle “penalità per ritardata consegna ai clienti” nei contratti di fornitura della società contribuente, nulla avendo osservato sul punto e avendo comunque omesso, in difetto di autosufficienza, di riportare le relative clausole ex art. 1382 e. E, il che rileva negativamente ai fini del pure denunciato vizio motivazionale.

7. -In conclusione, disattesi i mezzi secondo e quarto, la decisione impugnata è affetta dalle violazioni di legge denunciate nei mezzi primo e terzo e va quindi cassata, in relazione ai soli due motivi accolti. Alla pronuncia segue il rinvio della vertenza alla CTR- Lazio, che, in diversa composizione, dovrà procedere a nuovo esame attenendosi ai principi innanzi affermati. La regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità resta riservata al giudice del rinvio.

P. Q. M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso per parte ministeriale e compensa le spese inerenti; accoglie i motivi primo e terzo del ricorso dell’Agenzia, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla CTR – Lazio in diversa composizione.

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Dott. Alessio Ferretti

Tributarista Qualificato Lapet ai sensi della Legge 4/2013, referente di Networkfiscale.com, Commercialista.it, Commercialista.com, amministratore e consigliere in varie società. Dottore Commercialista ODCEC di Roma nr di iscrizione AA12304

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