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martedì 26 Novembre 2024

SULLA LEGITTIMITÀ DELLA REAZIONE DATORIALE A CONDOTTE ILLECITE DEI LAVORATORI TRIBUNALE DI MELFI

Non rientra nella nozione di sciopero la condotta di chi pone in essere interventi materiali sugli impianti per impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale. Pertanto non è antisindacale il licenziamento di attivisti e militanti sindacali che durante uno sciopero abbiano deliberatamente stazionato davanti a carrelli automatici per l’approvvigionamento delle linee produttive, impedendone il riavvio, con violazione di norme prevenzionistiche dettate per la tutela della loro stessa incolumità e con grave danno per il datore di lavoro, gravità da valutare rapportandola alla particolare situazione di crisi economica e di difficoltà vissuta dal mercato automobilistico.

SULLA LEGITTIMITà DELLA REAZIONE DATORIALE A CONDOTTE ILLECITE DEI LAVORATORI TRIBUNALE DI MELFI (lavoratori FIAT)

15 luglio 2011 – Est. Palma – S. A. S. P. A. C. Fiom Cgil.

Non rientra nella nozione di sciopero la condotta di chi pone in essere interventi materiali sugli impianti per impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale. Pertanto non è antisindacale il licenziamento di attivisti e militanti sindacali che durante uno sciopero abbiano deliberatamente stazionato davanti a carrelli automatici per l’approvvigionamento delle linee produttive, impedendone il riavvio, con violazione di norme prevenzionistiche dettate per la tutela della loro stessa incolumità e con grave danno per il datore di lavoro, gravità da valutare rapportandola alla particolare situazione di crisi economica e di difficoltà vissuta dal mercato automobilistico.

Svolgimento del processo. – – Con ricorso depositato in data 21 luglio 2010, Fiom-Cgil di P. Azionava il procedimento sommario di cui all’art. 28 st. Lav. , chiedendo al giudice adito di accertare e dichiarare il carattere antisindacale della condotta posta in essere da S. A. , S. P. A. , in relazione ai licenziamenti intimati ai lavoratori L. A. , B. G. E P. M. , e, per l’effetto, ordinare alla società resistente di cessare il detto comportamento, rimuovendo gli effetti dei disposti licenziamenti mediante l’immediata reintegrazione dei citati lavoratori.

A sostegno di tali richieste, l’o. S. Ricorrente deduceva che i licenziamenti de quibus erano, in primo luogo, fondati su una contestazione inveritiera (e quindi illegittimi, poiché privi di giusta causa), in quanto – – diversamente da quanto sostenuto dall’azienda – – la movimentazione dei carrelli Agv dall’area picking delle Ute n. 3 e 4, durante lo sciopero del 7 luglio 2010, non era stata interrotta dalla presenza dei lavoratori licenziati (che, in tesi, ne avrebbero ostruito la corsa), bensì sospesa dai responsabili Ute, in ragione dell’adesione degli operai alla mobilitazione. Conseguentemente,

la sanzione aveva altresì carattere antisindacale, in quanto irrogata a due delegati (L. E B. ) e ad un iscritto (P. ) Fiom, a causa del ruolo da questi esercitato in azienda in occasione delle mobilitazioni che hanno interessato lo stabilimento di Melfi, e, in particolare,dell’attività sindacale dai medesimi svolta nel corso dello sciopero tenutosi in data 7 luglio 2010.

Si costituiva la S. A. S. P. A. , la quale impugnava l’avverso dedotto, chiedendone il rigetto.

Con decreto del 9 agosto 2010 il Tribunale di Melfi, all’esito della fase sommaria, dichiarava l’antisindacalità dei licenziamenti intimati da S. A. S. P. A,, in data 13-14 luglio 2010, ai lavoratori L. A. , B. G. E P. M. , e, per l’effetto, ordinava a S. A. S. P. A. La immediata reintegra dei suddetti lavoratori nel proprio posto di lavoro; ordinava, altresì, la pubblicazione del dispositivo, a cura e spese della società resistente, sui quotidiani «II Corriere della Sera» e «La Repubblica».

Con ricorso in atti, la Sa. S. P. A. Proponeva opposizione al decreto emesso ex art. 28 legge n. 300/1970 dal Tribunale di Melfi in data 9 agosto 2010 deducendo che il giudice di prime cure aveva erroneamente valutato gli esiti dell’attività istruttoria seppur sommariamente svolta e, pur addivenendo ad una esplicita dichiarazione di censura del comportamento tenuto dai tre lavoratori licenziati, contraddicendosi, aveva ritenuto la vicenda frutto di una incomprensione per mancanza di volontà da parte di questi di costituire un ostacolo alla ripresa della produzione aziendale.

Chiedeva la revoca del decreto opposto. L’associazione sindacale convenuta si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell’opposizione. Veniva espletata copiosa prova testimoniale ed acquisita nuova documentazione in corso di giudizio. All’odierna udienza la causa è stata decisa per i motivi che seguono.

Motivi della decisione. – – L’opposizione è fondata è può essere accolta.

Della correttezza della procedura sanzionatoria Va osservato che risulta completamente destituita di ogni fondamento giuridico, oltre che palesemente contraria all’evidenza della scansione temporale documentata in atti (doc. 21 e 17 bis della produzione Sa. ), l’eccezione di violazione dell’art. 14 dell’accordo interconfederale del 18 aprile 1966 (doc. 11 – e non 10 come pure erroneamente indicato in ricorso – del fascicolo della Fiom) per non avere la resistente fatto «seguire» la notifica effettuata all’associazione ai telegrammi comunicati ai lavoratori, avendola invece trasmessa «contestualmente».

DIRITTO SINDACALE a questi. Basta osservare i rispettivi orari di trasmissione per rendersi conto che la comunicazione all’associazione è avvenuta successivamente, seppur di alcuni minuti, a quanto comunicato ai lavoratori rappresentanti sindacali, nel pieno rispetto del dato letterale del testo dell’accordo.

Persistenza di un interesse alla presente pronuncia

Preliminarmente va sottolineato che seppur ormai apparentemente esaurita la condotta (rectius l’azione) censurata dell’azienda, per essere di fatto la stessa cessata e cristallizzata negli eventi avvenuti la notte tra il 6 ed il 7 luglio u. S. , quindi non suscettibile di facilmente riproporsi, per lo meno con le medesime modalità (come ad esempio potrebbe al contrario riguardare l’ipotesi astratta di una condotta antisindacale volta alla mancata possibilità, riproponibile nel tempo, di usufruire di permessi sindacali o di organizzare assemblee), tuttavia questa risulta tuttora persistente e idonea a produrre verosimilmente effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria (secondo appunto quanto prospettato e dedotto dall’associazione opposta), sia per la situazione di incertezza che ne potrebbe conseguire, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell’attività sindacale per il futuro (con la pur dedotta difficoltà di proselitismo sindacale a discapito di altre sigle ed associazioni pur rappresentate in azienda); del resto è circostanza notoria che i tre licenziati, seppur formalmente reintegrati nel proprio posto di lavoro, di fatto non hanno la possibilità di espletare in concreto alcuna mansione (pag. 22 delle note autorizzate Fiom). Infatti, sul punto la Suprema Corte ha evidenziato che «in tema di repressione della condotta antisindacale, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970, il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l’ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell’attività sindacale» (Sez. Lav. , sentenza n. 23038 del 12 novembre 2010).

Precisazioni sull’oggetto del presente giudizio

Sempre preliminarmente, è opportuno ricordare e precisare (avendo ripercussioni sul percorso logico giuridico che il giudicante ed il lettore dovranno effettuare anche alla luce della giurisprudenza richiamata di seguito) che oggetto del presente giudizio è l’accertamento o meno di una censurabile condotta antisindacale posta verosimilmente in essere dal datore di lavoro nei confronti del sindacato resistente, appunto ex art. 28 l. N. 300/1970, e non, per lo meno in via diretta (secondo quanto meglio si dirà infra), l’illegittimità dei tre licenziamenti irrogati nell’occasione dei fatti per cui è causa, i quali, piuttosto, avrebbero dovuto essere oggetto di altro giudizio, di merito o cautelare, con specifico oggetto (non essendoci in atti, e non potendocene evidentemente essere, visto il particolare procedimento azionato, correlativa domanda, se non nelle conclusioni dell’opponente come formula di stile e pronunzia accessoria).

Sicché la emananda pronunzia non potrà che riguardare, appunto, l’antisindacalità o meno del comportamento tenuto nell’occasione dalla Sa. E non direttamente la illegittimità o meno del licenziamento irrogato ai tre dipendenti, la cui reintegra o meno sul posto di lavoro sarà una mera

conseguenza della pronunzia di cui sopra, piuttosto che un ordine oggetto di specifica statuizione. Tuttavia, considerato che l’antisindacalità della suddetta condotta troverebbe riscontro fattuale e giuridico, secondo la prospettazione del sindacato, proprio nella manifesta illegittimità dei licenziamenti, per essere stati questi irrogati senza la sussistenza di una giusta causa, dovendo in un certo qual modo motivare anche con riferimento al richiamato concetto di sproporzione pur fatto dal giudice di prime cure (cfr. Punto 5), è evidente che, seppur incidenter tantum, la sussistenza dei loro relativi presupposti costituirà oggetto di disamina quale antecedente logico necessario per addivenire alla pronunzia di insussistenza di antisindacalità nella condotta censurata. Del resto, che i due concetti giuridici di «condotta antisindacale» e « licenziamento illegittimo» non coincidano ma siano distinti tra loro, sicché la equiparazione illegittimità-antisindacalità non è automatica, con la logica conseguenza che se vi è condotta antisindacale i licenziamenti irrogati in occasione di questa sono illegittimi, ma non necessariamente che la illegittimità dei licenziamenti presuppone e comporta la antisindacalità della condotta, si rinviene in maniera chiara in una pronunzia riguardante la vicenda giudiziaria in un caso similare (Cass. Sez. Lav. Sentenza n. 9250 del 2007). Ancora più esplicitamente si è espressa sul punto altra giurisprudenza secondo cui «le azioni di cui agli artt. 28 e 18 della legge n. 300 del 1970 hanno vita autonoma per cui non osta all’emanazione del provvedimento ex art. 28 la circostanza che il separato ricorso individuale ex art. 18 sia stato previamente rigettato, in quanto l’efficacia a favore del lavoratore singolo dell’eventuale accoglimento del ricorso sindacale ex art. 28 non deriva dal provvedimento, ma dall’attuazione del

provvedimento, secondo il principio che è la reintegra effettiva che incide sulla sfera giuridica, e non la statuizione che dispone la reintegrazione che, essendo emanata in sua assenza, non lo tocca in alcun modo al punto che il lavoratore non può porla a fondamento della domanda relativa alle conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo. Il regime di stabilità del rapporto individuale non esplica effetti sull’esperibilità del ricorso ex art. 28, poiché tale strumento può essere azionato in qualsiasi impresa, indipendentemente dal numero degli addetti ivi occupati» (Sez. 0, Sentenza n. 0 del 30 marzo 1988 Pretore di Cingoli).

La definizione di condotta antisindacale nella giurisprudenza

Le particolarità di questo tipo di azione, ossia del giudizio promosso ex art. 28 l. N. 300/1970, sono state riassunte: a) nella specialità delle regole processuali che prevedono uno speciale e sommario procedimento dinanzi al pretore (ora Tribunale in composizione monocratica ex d. Lgs. N. 51/1998) che decide con decreto; b) nell’attribuzione dell’azione a un soggetto collettivo, il sindacato; c) nell’adozione di un particolare strumento sanzionatorio, la sanzione penale per il datore di lavoro che non ottemperi al decreto con cui il pretore abbia disposto la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti; d) nell’uso di una particolare tecnica normativa per l’identificazione della fattispecie. A tale ultimo riguardo è stato osservato che la norma fornisce una definizione non analitica, ma teologica della nozione di condotta sindacale. In altri termini qualifica antisindacale non una determinata condotta in base alle sue modalità esteriori, ma qualsiasi condotta diretta a un determinato risultato, diretta cioè a impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, nonché del diritto di sciopero.

La descrizione della condotta in termini così ampi, a maglie larghe come è stato anche detto, risponde a una scelta tecnica del legislatore, consapevole del fatto che, nella realtà del conflitto industriale a livello di azienda, la libertà sindacale e il diritto di sciopero possono essere violati in una varietà di modi difficilmente tipizzabili a priori in un testo di legge. Ha determinato, peraltro, più di una incertezza applicativa circa i limiti della qualificazione della condotta sindacale; e strettamente connesso con tale problema, circa la necessità o meno di un elemento soggettivo da

parte dell’imprenditore, l’intento di impedire o limitare la libertà sindacale e il diritto di sciopero. L’ampia lettera della legge deve, tuttavia, far ritenere che qualsiasi condotta idonea a ledere i beni indicati debba essere considerata antisindacale: e pertanto non soltanto le condotte dirette

esclusivamente a impedire l’attività sindacale, come l’impedire lo svolgimento di un’assemblea sindacale o minacciare sanzioni disciplinari contro coloro che avessero scioperato, ma anche condotte che in astratto potrebbero anche essere legittime, ma che in concreto sono state adottate per motivi antisindacali. Così, ad esempio, nel caso di licenziamento o di trasferimento di un lavoratore a causa del suo impegno sindacale.

Per quanto riguarda la necessità di un elemento intenzionale, occorre prendere atto di un contrasto giurisprudenziale molto vasto e ormai risalente nel tempo. Difatti alcune decisioni della Suprema Corte hanno affermato che, ai fini della configurabilità di una condotta antisindacale del datore di lavoro, è necessario non solo che sussista un comportamento oggettivamente idoneo ad ostacolare o limitare l’attività sindacale, ma anche che questo sia intenzionalmente diretto a conseguire tale scopo (Cass. 6 maggio 1977, n. 1739; Cass. 22 settembre 1978, n. 4270; Cass. 5 giugno 1981, n. 3635; Cass. 20 luglio 1982, n. 4281; Cass. 8 febbraio 1985, n. 1005; Cass. 17 febbraio 1987, n. 1713; Cass. 27 luglio 1990, n. 7589; Cass. 8 maggio 1992, n. 5454; Cass. 30 luglio 1993, n. 8518; Cass. 12 agosto 1993, n. 8673). Altre decisioni, invece, ritengono che per la configurabilità di una condotta antisindacale sia sufficiente il solo requisito dell’oggettiva idoneità del comportamento del datore di lavoro a ledere la libertà e l’attività sindacale e il diritto di sciopero e che, pertanto, non rilevi che l’imprenditore abbia inteso perseguire o meno uno scopo antisindacale (Cass. 6 giugno 1984, n. 3409; Cass. 3 giugno 1987, n. 4871; Cass. 19 gennaio 1990, n. 295; Cass. 16 luglio 1992, n. 8610). Tra i due opposti orientamenti un recente filone giurisprudenziale che ritiene l’elemento psicologico dell’intenzionalità non rilevi nei casi in cui la condotta del datore di lavoro sia in contrasto con una norma imperativa; deve, invece, sussistere quando il comportamento del datore di lavoro integri gli estremi dell’abuso del diritto (Cass. 13 febbraio 1987, n. 1598; Cass. 7 luglio 1987, n. 5922; Cass. 3 luglio 1992, n. 8143; Cass. 22 luglio 1992, n. 8815; Cass. 19 luglio 1995, n. 7833; Cass. 13 gennaio 1996, n. 232). Alla base delle decisioni che ritengono necessario l’elemento intenzionale sono stati posti tre diversi argomenti, uno letterale, uno sistematico e uno teleologico. Con l’argomento letterale si sostiene che l’espressione «diretta a» attesta chiaramente la necessità di una finalizzazione cosciente e volontaria della condotta del datore di lavoro; con l’argomento teleologico si afferma che la disposizione tende ad assicurare un corretto svolgimento delle relazioni sindacali nei luoghi di lavoro attraverso una severa penalizzazione dell’intenzione del datore di lavoro di non rispettare tali regole; con l’argomento sistematico si osserva che una opinione che non tenesse conto della necessità che la condotta antisindacale sia assistita da un substrato psicologico, «finirebbe per introdurre nel nostro ordinamento e contro il dato normativo una figura di illecito civile concretizzante una specifica ed estremamente ampia forma di c. D. Responsabilità oggettiva, la cui area di operatività è sottoposta nel nostro ordinamento ad una progressiva opera di riduzione si da configurarsi come istituto di natura eccezionale». Nessuno di questi tre argomenti appare del tutto convincente. Difatti, per quanto riguarda l’argomento letterale, si deve osservare che l’espressione «comportamenti diretti a impedire o limitare» significa che la condotta posta in essere dal datore di lavoro deve essere «obiettivamente» diretta a impedire o a limitare la libertà sindacale o il diritto di sciopero, ma non implica necessariamente che il datore di lavoro debba avere anche l’intenzione di produrre quel determinato risultato. Potrebbe, anzi, sostenersi il contrario; se il legislatore avesse voluto la sussistenza di un requisito così importante, come l’elemento soggettivo, lo avrebbe espressamente indicato, come del resto ha fatto l’art. 2043 c. C. , in tema di fatto illecito. Difatti, se nonostante un così autorevole precedente legislativo, il legislatore del 1970 non ha espressamente indicato la necessità del requisito soggettivo, è segno evidente che tale necessità non sussisteva.

Per quanto riguarda l’argomento teleologico va, invece, osservato che il fine di assicurare la libertà sindacale è meglio perseguito con una tutela di tipo obiettivo, non condizionata dalla sussistenza di un intenzionale comportamento del datore di lavoro; che tutta la disciplina dell’art. 28 tende non tanto a punire il datore di lavoro e ad assicurare il risarcimento del danno, quanto a garantire in ogni caso l’inibizione e la repressione di ogni attività lesiva della libertà sindacale o del diritto di sciopero; che tale finalità, in questa come in tutte le azioni civilistiche di tipo inibitorio, è meglio perseguita con una tutela di carattere obiettivo, non condizionata dalla sussistenza di un intenzionale comportamento del datore di lavoro; che la sussistenza o meno di tale requisito soggettivo finirebbe per determinare una ingiustificata disparità di trattamento di casi che presentano uguali necessità di tutela, in quanto eguale è l’interesse giuridicamente rilevante, l’inibizione della condotta lesiva della libertà sindacale. Per quanto riguarda, poi, l’argomento sistematico va in primo luogo osservato che la c. D. Responsabilità oggettiva non soltanto non è un istituto eccezionale e soggetto a continua erosione, ma, al contrario, è in continuo sviluppo, tanto da essere considerato un principio generale nell’attività imprenditoriale con la nota, e ormai sempre più recepita dottrina, del cosiddetto rischio di impresa. In realtà vi è una certa tendenza a ritenere che la principale, se non l’unica, reazione all’illecito civile sia l’azione risarcitoria, condizionata ai due estremi, quello, obiettivo, della sussistenza di un danno patrimoniale e quello, soggettivo, della colpa o del dolo da parte dell’autore dell’illecito. La tesi, basata sull’importanza paradigmatica dell’art. 2043 c. C. , non tiene conto del fatto che in tal modo una gran parte degli illeciti civili sarebbe del tutto priva di sanzione: così quelli che non hanno prodotto, o non hanno prodotto ancora, un danno patrimoniale; ovvero quelli in cui l’autore ha causato un danno patrimoniale senza dolo o colpa.

In tal modo tuttavia non si tiene presente che, nel caso in cui la condotta illecita sia di natura tale che possa continuare a ripetersi nel futuro, una reazione efficace non può essere costituita dalla sola azione risarcitoria. Questa, infatti, non potrebbe essere esperita nei casi in cui non sussista il requisito oggettivo del danno patrimoniale, o quello soggettivo del dolo o della colpa dell’autore dell’illecito; e comunque anche in tali casi porrebbe l’autore dell’illecito nella possibilità di scegliere tra il risarcimento dei danni e la persistenza nella commissione o nella ripetizione di un atto o di una attività illecita.

In realtà quando l’illecito può continuare o ripetersi nel futuro, l’unica reazione efficace è costituita solo dall’azione inibitoria: un’azione diretta ad ottenere non la condanna del convenuto al risarcimento del danno che ha causato, ma l’ordine dei giudice rivolto alla parte soccombente di inibire la continuazione della condotta illecita (come sì esprime l’art. 2599 c. C. ) o di cessazione del fatto lesivo (come negli artt. 7 e 10 c. C. ). L’ordine può avere come contenuto un non fare (inibitoria negativa nei casi di illecito commissivo espressamente prevista dal legislatore in varie norme come gli artt. 7, 10, 949, 1079 e 2599 c. C. ) o anche un fare (inibitoria positiva, nei casi di illecito omissivo, non espressamente prevista dal legislatore, ma applicata dalla giurisprudenza in tema di immissioni (art. 844 c. C. ), di modificazioni della ditta (art. 2564 c. C. ), di diritto di autore (art. 156 l. 22 aprile 1941, n. 633) e, in generale, di provvedimenti di urgenza (art. 700 c. P. C. ).

L’emanazione dell’ordine da parte del giudice non costituisce una mera ripetizione di ciò che è già prescritto dalla legge, ma produce effetti di carattere civile e penale. I primi sono previsti ad esempio nell’art. 66 della legge sui brevetti per marchi d’impresa, e nell’art. 86 della legge sui brevetti per invenzioni industriali ove si dispone che il giudice possa fissare nella sentenza di condanna una somma dovuta per ogni ritardo nella esecuzione dei provvedimenti contenuti nella stessa; e una norma analoga si trova nell’art. 18 co. 7 st. Lav. Che dispone che il datore di lavoro, che non ottempera alla sentenza, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore. Gli effetti penali sono invece previsti dall’art. 388 c. P. Per i casi di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice.

Si tratta di effetti previsti in casi particolari, ma che per la loro funzione sono stati ritenuti applicabili in ogni caso di azione inibitoria. Peraltro, per quanto riguarda la condotta antisindacale, il legislatore ha specificamente previsto una sanzione penale dell’ordinanza inibitoria.

La natura inibitoria dell’azione a tutela della libertà sindacale induce a ritenere che, ai fini della configurabilità di un comportamento antisindacale, sia irrilevante l’elemento psicologico del datore di lavoro. Ciò che il giudice deve accertare, è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre il risultato che la legge intende impedire e, cioè, la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero.

La sussistenza o meno di un intento del datore di lavoro di ledere tali diritti non è necessaria né sufficiente.

Non è necessaria perché un errore di valutazione del datore di lavoro che non si è reso conto della portata causale della sua condotta non fa venir meno l’esigenza di una tutela della libertà sindacale e della inibizione dell’attività oggettivamente lesiva di tale libertà.

Non è sufficiente in quanto l’intento del datore di lavoro non può far considerare antisindacale un’attività che non appare obiettivamente diretta a limitare la libertà sindacale. L’esistenza di un elemento intenzionale è certamente irrilevante nelle condotte previste espressamente dalla legge come antisindacale, ossia in tutte quelle condotte del datore di lavoro che contrastano con norme imperative destinate a tutelare, in via diretta e immediata, l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale: così, ad esempio, nel caso del diniego del datore di lavoro di consentire lo svolgimento dell’assemblea sindacale ai sensi dell’art. 20 st. Lav. ; del rifiuto di mettere a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali locali idonei per l’esercizio delle loro funzioni (art. 27 st. Lav. ); del disconoscimento dei permessi previsti dagli artt. 23 e 24 st. Lav.

L’elemento intenzionale è peraltro irrilevante anche nei casi in cui l’uso di strumenti, in astratto leciti, appare, nelle circostanze concrete, oggettivamente idoneo, nel risultato, a limitare la libertà sindacale.

Così, ad esempio, nel caso della chiusura dello stabilimento in ore coincidenti con quelle di uno sciopero in precedenza proclamato dalle organizzazioni sindacali; nel caso di licenziamento o di trasferimento all’interno di un’azienda di un lavoratore particolarmente impegnato nell’attività sindacale.

Di conseguenza, nel caso come quello in esame, in cui il datore di lavoro ha proceduto al licenziamento di alcuni lavoratori durante uno sciopero proclamato, tra i quali dei sindacalisti, è necessario accertare non l’intenzione del datore di lavoro di volere ledere la libertà sindacale, ma la sussistenza di una obiettiva disparità di trattamento per quanto riguarda l’individuazione dei lavoratori da licenziare (infatti, il sindacato sostiene che i tre lavoratori sarebbero stati licenziati unicamente in quanto appartenenti alla Fiom; discriminandoli da tutti gli altri partecipanti, tra cui sindacalisti di altre sigle, che pure avevano sostato sul percorso degli Agv; cfr. Pag. 18 della memoria di costituzione).

Come meglio si dirà con riferimento alle risultanze istruttorie, il Tribunale ritiene che il datore di lavoro non abbia posto in essere nel caso di specie nessuna obiettiva disparità di trattamento per l’individuazione dei lavoratori da licenziare (nonostante il riferimento fatto dal B. , durante la propria deposizione, al complotto organizzato dal T. A suo danno), pertanto, il suo comportamento non può essere considerato antisindacale; non rilevando in alcun modo, se non per pura coincidenza (ossia che gli unici tre lavoratori rimasti imperterriti a costituire consapevolmente un ostacolo alla possibilità di riprendere la riproduzione fossero proprio ed esclusivamente i tre che sono anche appartenenti al sindacato opposto), che, conseguentemente alla puntuale valutazione del concreto svolgimento dei fatti (il riferimento sarà alle due fasi emerse dall’istruttoria), del giusto e diverso peso attribuito ai due diversi atteggiamenti e, quindi, ben diverse responsabilità individuate dall’azienda, tutti i lavoratori licenziati fossero impegnati anche sindacalmente con la Fiom. Si perverrebbe anzi a conclusioni aberranti proprio ove si condividesse l’assunto difensivo dell’associazione sindacale opposta secondo cui, nonostante l’evidente differenza, anche temporale, emersa nel corso dell’istruttoria tra il comportamento di tutti gli altri astanti che, una volta resi consapevoli, ai primi richiami, della loro posizione abnorme, decidevano si spostarsi e chi (appunto i tre licenziati), invece, coscientemente riteneva di persistere ripetutamente o, addirittura, vi si portava deliberatamente (il P. , prima non presente davanti all’Agv) con atteggiamento di sfida e minaccia (è il caso della riferita esplicita volontà di estendere la contestazione all’intero montaggio dichiarata dal B. Nell’occasione o la posizione a braccia conserte del P. ), andassero licenziati tutti i lavoratori partecipanti allo sciopero e presenti sul luogo per cui è causa; evidentemente così trattando e sanzionando in maniera eguale condotte e responsabilità palesemente diseguali, a meno di decidere di non licenziare nessuno, nemmeno i predetti tre lavoratori, pena l’addebito di una condotta obiettivamente antisindacale. Sul punto, non convince nemmeno il richiamo fatto dal giudice di prime cure nel decreto opposto alla sproporzione tra la sanzione irrogata (il licenziamento) e la condotta concretamente posta in essere dai tre; infatti, proprio considerando l’evoluzione degli accadimenti in concreto e nella loro globalità è da ritenere che se quanto posto in essere dai licenziati doveva essere oggetto di sanzione più blanda allora addirittura nessun rimprovero, a maggior ragione, poteva muoversi alla condotta, seppur meramente colpevole, posta in essere da tutti gli altri partecipanti; al contrario, al fine di soppesare in maniera diversa e pro porzionata i due diversi momenti evolutivi della vicenda, non può non ritenersi corretto l’operato dell’azienda. Infatti, adottando il criterio «di tutta l’erba un fascio» sostenuto dal sindacato opposto, la resistente avrebbe sì scongiurato la possibilità che il proprio comportamento, consistito nel licenziare solo i tre appartenenti alla Fiom, fosse tacciato come condotta antisindacale, però avrebbe licenziato illegittimamente tutti gli altri partecipanti allo sciopero, compresi gli altri esponenti delle diverse sigle sindacali, cosi esponendosi a molteplici impugnative di licenziamento volte ad evidenziare la sproporzione con la condotta meramente colposa di questi ultimi (che non aveva finalità di sabotaggio, come pure apparso in dichiarazioni pubblicate su un noto settimanale versato in atti, secondo quanto si evidenzierà essere risultato dall’istruttoria); se invece avesse punito tutti con una sanzione meno grave del licenziamento, comunque sarebbe stata viziata da sproporzione, considerando, appunto, che i due comportamenti avuti dai partecipanti nelle due distinte fasi non possono valutarsi con lo stesso disvalore; a meno di ritenere non applicabile nessun provvedimento disciplinare pur in presenza di condotte che già in fase sommaria apparivano al giudice «censurabili» (cfr. Decreto opposto).

L’esatta portata del principio di immutabilità della contestazione

Premessa la distinzione tra i concetti giuridici di antisindacalità della condotta ed illegittimità del licenziamento, precisato l’oggetto del presente giudizio e definito cosa si intende per condotta antisindacale, è necessario soffermarsi sui comportamenti oggetto delle contestazioni disciplinari e verificare se vi sia stata o meno una violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare da parte della società odierna opponente come sostenuto dal sindacato opposto (pag. 14 della memoria di costituzione) e come rilevato dal giudice della fase sommaria nel proprio decreto (punto 3).

Orbene, l’azienda testualmente contestava ai tre lavoratori poi licenziati: «avvicinatisi ai carrelli i [. ] responsabili La vedevano posizionato all’interno dell’area delimitata da apposite linee gialle ove vige, per motivi di sicurezza, specifico divieto di transito e sosta del personale, proprio sulla banda magnetica su cui scorrono i carrelli, davanti ad un carrello, in maniera da impedirne deliberatamente il transito. A tal punto La invitavano a spostarsi per consentire il passaggio del carrello [. ]» (cfr. Lettere di contestazione del tutto equivalenti). Il giudicante della fase sommaria, aderendo all’assunto difensivo dell’associazione ricorrente, riteneva in decreto che vi fosse una divergenza tra quanto inizialmente e formalmente contestato dall’azienda ai propri dipendenti e quanto dedotto in comparse, poi, emerso nel corso della sommaria istruttoria espletata; in particolare soffermandosi tra le due distinte fasi di svolgimento della vicenda per cui è causa, ossia distinguendo tra una condotta commissiva, verosimilmente dovuta ad un contatto con l’Agv, ed una omissiva, priva del necessario elemento soggettivo (dolo), caratterizzata dallo stazionamento illegittimo, ma frutto di incomprensione, sul percorso riservato ai carrelli. Sosteneva quindi la mancata integrazione del comportamento contestato (letto però in maniera parziale, per quanto si evidenzierà, ed interpretato restrittivamente, mancando di considerare l’altra parte delle lettere di contestazione ed il significato polivalente dei predicati verbali in esse contenuti) e, comunque, l’assenza di qualsivoglia intenzionalità in capo ai tre lavoratori (anche qui erroneamente considerando solo la prima parte degli eventi e tralasciando la circostanza che la sussistenza dell’elemento psicologico maturava in essi solo successivamente, a seguito dei ripetuti richiami, su cui ci si soffermerà più dettagliatamente di seguito). Detto ciò, tralasciava espressamente (cfr. Decreto) però poi di esaminare il principio di immodificabilità della contestazione disciplinare per vagliarne la portata e l’effettiva violazione.

In via preliminare va precisato che nelle richiamate tre lettere di contestazione è riportata altresì descritta anche la c. D. Seconda fase dello sviluppo degli eventi per cui è causa, nella parte in cui si legge «[. ] sempre fermo nella suddetta area davanti ai carrelli Agv tanto da impedirne il transito [. ] la invitava [. ] a lasciare libera l’area interdetta al personale ed a consentire il regolare transito dei carrelli in quanto tale suo comportamento stava provocando il blocco dell’attività produttiva, ma ella, [. ] continuava a rimanere fermo davanti al carrello [. ]»; cosicché lo svolgimento dei fatti appare riportato nella sua globalità e non si ritiene che l’azienda abbia mutato, in concreto, il fatto oggetto di contestazione; inoltre, la tesi del «c. D. Contatto» non trova esplicito riscontro nelle formali contestazioni e nelle lettere di licenziamento quanto, piuttosto, nella memoria di costituzione dell’azienda, dove compare come il frutto di una mera presunzione (nella parte in cui si sostiene che, essendo inizialmente in funzione gli Agv, poiché erano stati rinvenuti fermi nei pressi degli scioperanti dagli addetti che avevano risalito a ritroso il loro percorso, necessariamente e di conseguenza dovevano essere stati questi a bloccarli, urtandoli) e deduzione difensiva piuttosto che elemento suffragato da riscontro probatorio (infatti, sul punto è risultata infondata anche la tesi di una volontà di sabotaggio degli scioperanti contenuta in alcune dichiarazioni pubblicate su un noto settimanale nazionale ed acquisite agli atti). A ciò si aggiunga inoltre che il contenuto della lettera di contestazione del 7 luglio 2010 (doc. 9 della produzione documentale Sa. ) veniva espressamente richiamato per relationem dalle comunicazioni del 14 luglio 2010 (doc. 16 e 20). Orbene, l’esplicito riferimento contenuto formalmente nelle tre lettere di contestazione al generico ed omnicomprensivo predicato verbale «impedire», rafforzato dall’avverbio «deliberatamente», volto appunto ad evidenziare anche la sussistenza dell’elemento psicologico, non può non comportare, già ad una prima e superficiale lettura, che l’impedimento al transito degli Agv e, di conseguenza alla produzione, possa essere stato in concreto posto in essere tanto con condotta commissiva che omissiva; per cui, già solo questo, comporterebbe la astratta possibilità di sussumere entrambi i comportamenti nell’unica formale descrizione dei fatti contestati, senza comportarne, di fatto, una modificazione.

A tali considerazioni si aggiunga poi che la violazione del c. D. Principio di immutabilità della contestazione presuppone l’esame dell’esatta portata dello stesso onde evitare che qualsivoglia divergenza comporti necessariamente una automatica violazione dello stesso.

Il principio di diritto giurisprudenziale della immutabilità dei fatti in cui si sostanziano gli addebiti disciplinari, secondo cui deve esservi una identità del contesto fattuale che giustifica la procedura nel suo momento iniziale e finale, mutuato dalle regole base del diritto processuale penale, deve essere inteso in relazione alla sua funzione di garanzia di esercizio del diritto di difesa del lavoratore. Di conseguenza, non può qualsiasi divergenza fattuale fra la contestazione iniziale e quella finale (ammesso che ve ne siano nel caso di specie, secondo quanto evidenziato innanzi) tradursi in una violazione del diritto in questione senza che il giudice di merito abbia accertato se la divergenza sia tale da aver compromesso l’esercizio del predetto diritto di difesa.

Il Tribunale, senza procedere ad una motivata valutazione della incidenza sul diritto stesso di tale divergenza ha ritenuto che, per una sorta di automatismo, a qualsiasi divergenza consegua la violazione del principio di immutabilità: non più visto, quindi, nel suo sostanziale valore garantistico, ma piuttosto nel suo aspetto di mero ritualismo formale.

Innanzitutto, la giurisprudenza ha escluso sicuramente che la mera qualificazione dell’infrazione possa incidere negativamente sul detto principio; infatti, la Suprema Corte ha statuito che «in tema di risoluzione del rapporto di lavoro il principio dell’immutabilità della contestazione riguarda le circostanze di fatto su cui è fondato il licenziamento e non già la qualificazione dell’infrazione addebitata» (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 1833 del 30 marzo 1981). Poi, non qualsivoglia circostanza di fatto comporta necessariamente un mutamento del fatto contestato ma solamente quelle c. D. «significative», ossia che confi gurano «elementi integrativi di fattispecie diversa». Infatti, «i principi di specifica contestazione preventiva degli addebiti e di necessaria corrispondenza fra quelli contestati e quelli addotti a sostegno del licenziamento disciplinare (o di ogni altra sanzione), posti dall’art. 7 st. Lav. In funzione di garanzia del lavoratore, non escludono in linea di principio modificazioni dei fatti contestati concernenti circostanze non significative rispetto alla fattispecie, il che ricorre quando le modificazioni non configurano elementi integrativi di una diversa fattispecie di illecito disciplinare, non risultando in tal modo preclusa la difesa del lavoratore. (In applicazione di tale principio la S. C. Ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto generica la contestazione e mutati i fatti addotti, rispetto ad un licenziamento per violazione dell’obbligo di fedeltà per sviamento della richiesta di un cliente in favore di altra impresa concorrente, sulla base di circostanze non significative concernenti le modalità dello sviamento e la tempestiva individuazione del cliente)» (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 12644 del 13 giugno 2005). Tale divergenza, poi, deve necessariamente comportare «in concreto» una violazione del diritto di difesa del lavoratore (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 8956 del 25 agosto 1993). Orbene, nel caso di specie tutto ciò non appare essere avvenuto.

Infatti, oltre che essere state successivamente, dettagliatamente e specificamente descritte nelle relative lettere di contestazione (di cui alcuni stralci sono stati trascritti prima), le condotte erano prima oggetto di immediata e ripetuta contestazione verbale fatta ufficialmente (secondo quanto specificato dai testi escussi) e ripetutamente in contestualità dello svolgimento dei fatti oggetto di causa. Allora, non appare verosimile che tutti gli astanti siano stati correttamente e chiaramente resi edotti della condotta illegittima inconsapevolmente (in questa prima fase della protesta) da loro posta in essere, abbiano immediatamente compreso la contestazione e, di conseguenza, si siano tutti spostati dal percorso dell’Agv tranne gli imperterriti tre lavoratori della Fiom poi licenziati.

è altresì difficile immaginare che questi non abbiano colto la portata di quanto loro più volte veniva ufficialmente evidenziato se, addirittura, il B. Replicava rispondendo «se qui non possiamo stare, dicci tu dove dobbiamo andare» (cfr. Deposizione, tra le tante del medesimo tenore, di Ma. Pa.  del 15 marzo 2011).

Lo è ancora più difficile se si considera anche che, sempre il B. , nelle medesime circostanze, diceva anche «che, ti si è incantato il disco? » (cfr. , tra le tante, le dichiarazioni rilasciate dal teste M. B. Il 15 marzo 2011), così ironicamente sostenendo, implicitamente, che non era necessario che il T. Ripetesse più volte la medesima contestazione. Ancor meno plausibile lo è se si considera la circostanza che, ad un certo punto, anche il P. , che inizialmente era in posizione defilata e distante dagli Agv, deliberatamente decideva di raggiungere L. E B. Per porsi, a braccia conserte, innanzi al carrello proprio dopo le prime contestazioni ufficiali.

è ancor più difficile condividere la tesi « dell’incomprensione» e della «carenza di elemento psicologico» pur fatta propria dal giudice della fase sommaria nel proprio decreto, quando si consideri l’esplicita minaccia del B. Di voler estendere tale protesta a tutto il montaggio (cfr. Da ultimo, dichiarazioni di M. ).

Tutto ciò considerando, non può poi ritenersi in concreto compromesso il diritto di difesa dei tre lavoratori licenziati (piuttosto avrebbe dovuto esserlo quello del sindacato, precisato che oggetto di causa è l’antisindacalità della condotta e non l’illegittimità dei licenziamenti non impugnati in ricorso) se si considera, inoltre, che questi, di loro sponte, decidevano di predisporre, nell’immediata cessazione della protesta, un documento sottoscritto dai rappresentanti delle varie sigle sindacali che, seppur con valenza meramente interna all’azienda, era teso a giustificare un comportamento che, seppur non ancora contestato come illecito per iscritto, evidentemente era stato autonomamente (e chiaramente, verrebbe da dire) percepito come censurabile tanto da dover ritenere di esercitare prontamente proprio quel diritto di difesa che oggi si vorrebbe sostenere inverosimilmente compromesso.

L’illegittimità della condotta posta in essere dai licenziati.

Stabilito, per quanto dedotto innanzi, che in concreto non può ritenersi esservi stata una violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, con consequenziale violazione in concreto del diritto di difesa dei tre lavoratori ed illegittimità del licenziamento irrogato, bisogna ora approfondire se, in astratto, il tipo di condotta illecita loro contestata possa costituire giusta causa di licenziamento.

Sul punto, in generale, la giurisprudenza, pronunziandosi su un caso analogo, ha specificato che «non è configurabile come antisindacale, ai sensi dell’art. 28 st. Lav. , il licenziamento di rappresentanti sindacali che si ponga come reazione causale al comportamento scorretto e riprovevole di questi ultimi, consistito nell’aggressione di un altro lavoratore, poiché tale comportamento determina la violazione degli obblighi legali e contrattuali connessi al rapporto di lavoro ed alla pacifica convivenza fra lavoratori nella vita dell’azienda; né può rilevare, a tali fini, l’esistenza di un conflitto sindacale in corso, posto che l’esercizio dell’azione sindacale soggiace comunque al limite esterno della impossibilità di tradursi in atti pregiudizievoli di fondamentali diritti del pari garantiti in modo assoluto, come quello alla vita e all’incolumità personale» (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 5815 del 23 marzo 2004). Orbene, facendo corretta applicazione di tali principi al caso in esame, va evidenziato che i tre lavoratori licenziati (due rappresentanti sindacali ed un mero iscritto alla Fiom), venivano appunto sanzionati con la massima sanzione proprio in conseguenza del loro comportamento censurabile tenuto in occasione del proclamato sciopero, consistito nell’avere deliberatamente impedito la produzione aziendale, decidendo di stazionare in una zona loro non consentita (perché riservata al passaggio degli Agv ed interdetta anche dalla normativa in materia di sicurezza); non rilevando, anche nel caso in esame, la dedotta esistenza di un clima di conflitto sindacale per l’adozione di un nuovo c. C. N. L. Presso gli stabilimenti di Cassino e Mirafiori, come sostenuto dalla Fiom. Pertanto, la suddetta protesta avrebbe dovuto svolgersi nell’ambito del rispetto di quel limite esterno richiamato in giurisprudenza (ed esplicitato nell’art. 40 Cost. ), che, nel caso di specie, non tanto consisteva direttamente nel diritto alla vita ed all’incolumità personale (se non indirettamente, avendo potuto avere delle ripercussioni per la violazione delle cautele imposte dalla normativa in materia di sicurezza e presenti su tali luoghi) ma, piuttosto nel diritto al libero esercizio dell’impresa, comunque anch’esso tutelato dalla costituzione all’art. 41. A ciò si aggiunga inoltre che «non è configurabile come antisindacale, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970, la condotta del datore di lavoro che si contrapponga ad un illegittimo comportamento di singoli lavoratori o del sindacato; pertanto, non può attribuirsi carattere di antisindacalità al licenziamento di dipendenti, che abbiano partecipato ad una manifestazione sindacale, ove il recesso del datore di lavoro abbia costituito giustificata reazione causale ad uno scorretto e riprovevole comportamento dei lavoratori, comportante violazione degli obblighi legali e contrattuali» (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 11905 del 3 novembre 1992); così significando che non ricorre automaticamente l’antisindacalità di una condotta per la mera coincidenza che il comportamento illegittimo sia stato posto in essere (come nel caso in esame) durante una manifestazione sindacale se essa è conseguenza del comportamento scorretto dei lavoratori (già riscontrato dal giudice di prime cure come «censurabile»).

Ancora più pertinente sul punto è altra giurisprudenza secondo cui «mentre non integra giusta causa di licenziamento in tronco il comportamento del prestatore d’opera consistente nel persuadere altri a scioperare o nel muovere critiche o rimproveri a chi abbia rifiutato di aderire all’agitazione, esula dai limiti propri del diritto di sciopero quella condotta che, al fine d’impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale, si sia estrinsecata in atti concreti sugli impianti azionati da altri lavoratori, non aderenti allo sciopero, o in interventi materiali su questi ultimi (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 1833 del 30 marzo 1981).

Il precedente storico

Del medesimo tenore è pure Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 8401 del 16 novembre 1987 che si è pronunziata su un precedente storico (in cui era parte resistente proprio Fiat Auto e ricorrente, tra gli altri, Fiom-Cgil) del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio (due lavoratori, in violazione dei limiti del diritto di sciopero, avevano impedito, ostruendo con i loro corpi il passaggio del carrello rifornitore della saldatrice, la prosecuzione dell’attività aziendale) e secondo cui «l’esercizio del diritto di sciopero, riconosciuto dall’art. 40 Cost. , soggiace al limite “esterno” costituito dall’impossibilità di tradursi in atti diretti contro l’organizzazione aziendale, in modo da impedirne il funzionamento o da comprometterne la produttività, o in atti pregiudizievoli di fondamentali diritti del pari costituzionalmente garantiti in modo assoluto, come quello alla vita ed all’incolumità personale. In particolare, è consentito ai lavoratori scioperanti persuadere altri dipendenti a scioperare o muovere critiche o rimproveri a chi abbia rifiutato di aderire all’agitazione, ma è illegittima quella condotta volta ad impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale con interventi sugli impianti o con atti, pur non improntati a forme di violenza o di minaccia, i quali ostacolino il lavoro dei dipendenti che non scioperano, derivando l’illegittimità di tali atti, più che dalla lesione del diritto al lavoro garantito dal co. 1 dell’art. 4 Cost. , dalla loro idoneità a pregiudicare la prosecuzione dell’attività aziendale che il datore di lavoro ha diritto di riorganizzare durante lo sciopero». (Nella specie, l’impugnata sentenza – – confermata dalla Suprema Corte – – aveva escluso l’antisindacalità del licenziamento di due lavoratori, i quali, in violazione dei limiti del diritto di sciopero, avevano impedito, ostruendo con i loro corpi il passaggio del carrello rifornitore della saldatrice, la prosecuzione della attività aziendale). (V 2214/86, mass. N. 445370; V 2840/84, mass. N. 434880; V 1833/81, mass. N. 412524; V 711/80, mass. N. 404147). In tal caso, «ai fini dell’accertamento della sussistenza di una giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c. C. , l’entità materiale del danno subito dal datore di lavoro a causa della condotta del lavoratore ha un rilievo del tutto secondario, dovendosi piuttosto tener conto – – anche per quanto riguarda l’indagine circa la proporzionalità della sanzione – delle modalità di tale condotta e della sua idoneità a scuotere irreparabilmente l’elemento fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro» (V 2689/77, mass. N. 386343; V 1037/77, mass. N. 384672; V 4119/75, mass. N. 378436) (Cass. Sez. Lav. , sentenza n. 1833 del 30 marzo 1981).

Le risultanze probatorie e le palesi contraddizioni

Se questo è l’ambito giuridico delineato dalla giurisprudenza della Suprema Corte entro il quale deve muovere l’accertamento in concreto del caso in esame, va subito precisato che l’istruzione probatoria è stata molto lunga (140 pag. Di verbali) e particolarmente complessa, al cui esito è stato possibile avere esatta contezza dello svolgimento degli accadimenti oggetto di causa e sottoporre al vaglio critico quella ricostruzione scaturita inizialmente dalla parziale (del resto non poteva essere diversamente considerata la necessità di celerità del rito) istruttoria svolta nella fase sommaria; nella valutazione delle prove raccolte nel corso dell’intero giudizio si darà una maggiore valenza probatoria alle dichiarazioni rese dagli informatori nella fase sommaria, pur con assunzione dell’impegno secondo la formula di rito, dopo essere state queste rispettivamente vagliate criticamente e rafforzate da quanto riferito anche dai testi escussi nel giudizio di opposizione. Ciò in quanto oltre ad essere escussi i protagonisti principali della vicenda per cui è causa, le loro dichiarazioni venivano rilasciate nell’immediatezza dello svolgimento dei fatti, con un ricordo pertanto da ritenere più vivo e recente e, soprattutto, più spontaneo.

Orbene, esaminata nel complesso l’istruzione probatoria espletata innanzi al giudice di prime cure e tenuto conto di tutte quelle nuove circostanze emerse solo con le deposizioni rilasciate dai testi escussi nel giudizio di opposizione (il cui contenuto si richiamerà in seguito), appare lampante la contraddittorietà delle dichiarazioni rilasciate dagli informatori portati dall’associazione sindacale ricorrente, mentre coerente risulta la ricostruzione fattane dai responsabili dell’azienda resistente.

In particolare, l’istruttoria espletata nella fase sommaria veniva caratterizzata dalla assunzione di ben otto deposizioni; orbene, mentre le dichiarazioni rese dagli informatori dell’azienda, sig. Ri T. , R. E T. (tralasciando per il momento quella resa dall’ing. Pi. In qualità di tecnico sul funzionamento degli Agv piuttosto che sull’accadimento degli episodi per cui è causa), appaiono chiare, precise e, soprattutto, coerenti tra loro e con quanto emerso anche nel corso dell’istruttoria svolta nel giudizio di opposizione, la ricostruzione dei fatti effettuata da tutti gli informatori condotti dall’associazione ricorrente (B. , P. , M. E S. ) appaiono in maniera evidente tra loro totalmente diverse ed inconciliabili, ma anche in contrasto con quanto riferito dalle persone poi escusse innanzi al giudice dell’opposizione.

Tralasciando la veritiera ricostruzione degli avvenimenti oggetto di causa così come emersa dalle dichiarazioni rilasciate prima dai tre informatori della Sa. Nella fase sommaria e, poi, corroborate da quanto riferito anche dai testi escussi nel giudizio di opposizione, ad un momento immediatamente successivo, preliminarmente si evidenzieranno le palesi incongruità presenti nelle informazioni rilasciate dai quattro informatori della Fiom e di cui nulla si dice nel decreto opposto circa la loro attendibilità piuttosto che quella dei primi.

Infatti, il B. Dichiarava di non avere capito inizialmente il perché delle contestazioni mosse dai responsabili Sa. (circostanza che porterà il giudice della prima fase a concludere nel decreto per un equivoco e difetto di elemento psicologico in capo ai tre licenziati) perché, spiegava immediatamente dopo, l’azienda non aveva mai istruito loro sulla funzione delle linee delimitative gialle presenti sul pavimento nell’immediatezza del percorso dell’Agv. Posto che è difficile immaginare che un lavoratore come lui, con la carica di r. S. U. , nulla sapesse in merito alla segnaletica orizzontale riferita in generale alla sicurezza sul posto di lavoro ed in particolare, nel caso che ci interessa, ai carrellini, nonostante questi erano stati adottati in azienda, a suo dire, da ben due anni prima; è chiara la contraddittorietà con quanto invece affermava subito dopo l’informatore Mi. , la quale dichiarava proprio che tutti già sapevano di non poter sostare sulla banda magnetica riservata al percorso degli Agv, tant’è che non era certo il primo sciopero che facevano e mai nelle precedenti occasioni si erano soffermati sulla predetta banda. Tale dichiarazione serviva infatti per avvalorare altra tesi dalla stessa sostenuta (poi rivelatasi anch’essa in piena contraddizione con quanto detto dagli altri informatori della stessa Fiom), ossia che mai nessuno scioperante («siamo rimasti sempre nella stessa posizione») si era fermato all’interno del percorso riservato all’Agv, poiché «eravamo sulle aree contrassegnate dal colore rosso» (si noti bene il riferimento, sin da ora, fatto alla presenza della segnaletica orizzontale, circostanza che sarà stranamente messa in discussione solo successivamente dai tre licenziati durante gli interrogatori liberi). Dichiarazione come detto in palese contraddizione con quanto riferito prima dal B. : «occupavamo anche la banda magnetica sulla quale sono destinati a transitare i carrelli Agv», dal S. : «presumo che qualcuno tra gli scioperanti occupasse anche la zona sulla quale insiste la banda magnetica».

Il P. Poi, sul punto, inizialmente dichiarava che «il L. Ed il P. Erano comunque insieme ad altri lavoratori all’esterno della pista di transito degli Agv e più precisamente nell’area di camminamento pedonale», successivamente, invece, contraddicendosi riferiva «[. ] così abbiamo accolto l’invito e ci siamo spostati per permettere il transito dei carrelli»; circostanza questa confermata anche dal S. Che dichiarava «così ci siamo allontanati ulteriormente dai carrelli lasciando completamente libera la zona di transito, anche il L. Si è allontanato (che invece secondo la deposizione della M. Non era mai stato presente, del resto come tutti gli altri, sul percorso del carrello)». Anche l’ulteriore tesi della possibile presenza sul percorso magnetico di «tappini» o «viti» di ostacolo all’avanzare dell’Agv, riferita con dovizia di particolari dalla M. E dal S. , si contraddice in nuce proprio con quanto poi questi dichiaravano essere avvenuto quella sera, sicché, anche sul punto, le loro dichiarazioni appaiono inattendibili. Infatti, tutte le persone escusse, sia quali informatori (cfr. Proprio le dichiarazioni di M. E S. ) sia in qualità di testi, hanno sempre dichiarato che il moto degli Agv riprendeva dopo che i responsabili Sa. Provvedevano ad effettuare manualmente il ripristino agendo sull’apposito pulsante di reset; orbene, se ci fossero stati sulla banda magnetica viti, tappi e quant’altro, come pure cercavano di far credere detti informatori, neppure tale operazione sarebbe stata sufficiente a ripristinare il cammino dei carrelli senza la pulizia del percorso e la rimozione di detti ostacoli.

Un’unica sola circostanza gli informatori dell’o. S. Ricorrente si affaticavano a riferire in maniera evidente ed uguale tra loro, ossia il fatto che comunque, dopo l’invito rivolto dai responsabili aziendali a lasciare libero il passaggio agli Agv, nessuno rimaneva ad intralcio sul relativo percorso (in particolare L. , P. ); infatti, sul punto B. Diceva «ci siamo subitamente spostati tutti, compresi i tre licenziati», la M. «il L. Non era in una posizione particolare rispetto agli altri [. ] il P. Era con me nell’area rossa» ed il S. «anche il L. Si è allontanato con noi». Purtroppo, proprio tale circostanza fondamentale (in quanto servirà a distinguere il loro comportamento e le relativa responsabilità da quella di tutti gli altri partecipanti), oltre ad essere smentita dalle coerenti dichiarazioni rilasciate in quella fase processuale dagli informatori dell’azienda, è stata contraddetta da pressoché tutti i testi escussi nel giudizio di opposizione, tra cui anche gli stessi testi indicati dalla Fiom (tra i tanti, ad esempio, si ricorda la deposizione resa dal teste P. , altro delegato sindacale, che ricordava di avere addirittura invitato il B. A spostarsi dal percorso invitandolo, con una scusa, a prendere un caffè).

La verità sul reale svolgimento dei fatti per cui è causa

La ricostruzione degli accadimenti che invece emerge in maniera chiara ed incontrovertibile dal complesso della copiosa istruttoria svolta in entrambe le fasi del giudizio è altra.

In particolare, dopo una prima fase di incertezza dovuta ai primi momenti conseguenti la proclamazione dello sciopero e l’inizio del corteo interno, l’azienda aveva prontamente provveduto, per il tramite dei rispettivi responsabili, a riorganizzare la produzione, spostando sulle linee tre e quattro i lavoratori che non avevano inteso condividere la protesta. Infatti, nessuna prassi è mai stata presente in azienda circa la sospensione delle attività produttive in occasione di scioperi, se non, appunto, per il tempo strettamente necessario alla riorganizzazione. La produzione riprendeva per circa due soli minuti, fin quando i responsabili dell’azienda si accorgevano che, pur in funzione le linee, non pervenivano presso queste i carrelli Agv per l’approvvigionamento dei materiali necessari (il moto dei quali ha un funzionamento del tutto autonomo dalle linee di produzione).

Insospettiti della circostanza, due responsabili aziendali «provvedevano a bloccare nuovamente la linea» (si noti bene, non il sistema di funzionamento dei carrellini) per risalire, a ritroso, il percorso effettuato da questi ultimi e verificarne le cause del blocco (cfr. Dichiarazione rese da R. , ad esempio).

Giunti nei pressi del corridoio sito tra le Ute 3 e 4, questi rinvenivano i carrelli già fermi ed una moltitudine di scioperanti, circa una cinquantina, che, dopo avere proclamato lo sciopero ed essersi organizzati in corteo, avevano successivamente raggiunto detto luogo dove si erano fermati a stazionare, anche ponendosi all’interno dell’area riservata al passaggio degli Agv ed innanzi a questi. Nessuna premeditata volontà di sabotaggio aveva mai sostenuto il comportamento di nessuno dei partecipanti al corteo, difformemente da quanto lasciato intendere da alcune dichiarazioni pubblicate su due articoli comparsi su un noto settimanale nazionale ed acquisite agli atti (cfr. Sul punto quanto specificato dal teste D. M. ); sullo specifico punto, pertanto, trovano conferma le dichiarazioni rilasciate, tra gli altri (delegati sindacali), da L. , B. E P. In sede di interrogatorio libero.

Nessuna labile prova è emersa circa il «blocco» iniziale (si noti bene, da distinguere «dall’impedimento» al transito, posto poi in essere dai tre licenziati in una fase successiva e solo da loro), almeno volontario (potrebbe essere avvenuto verosimilmente per colpa, ossia per contatto inconsapevole di qualcuno, data la concitazione degli eventi), del carrello poi rinvenuto fermo dai responsabili aziendali. Tuttavia, la stranezza ed abnormità del gesto è che non era mai avvenuto nel passato che una assemblea sindacale si fosse tenuta in quel particolare posto (lo dice sin da subito la M. , poi la circostanza sarà confermata anche da alcuni testi nel giudizio di opposizione). Infatti, in assenza di un luogo dedicato a ciò, per prassi ormai consolidata, dopo i cortei ci si ritrovava a riunirsi in assemblea per discutere delle problematiche oggetti di protesta o presso la c. D. Area relax o all’aperto, fuori dal reparto (sul punto si comprende il tentativo di raddrizzare il tiro fatto durante l’interrogatorio libero dei due delegati licenziati, secondo cui il termine assemblea andrebbe inteso in senso atecnico).

è anche vero però che è emerso incontrovertibilmente nelle dichiarazioni rese dai testi della o. S. Escussi nel giudizio di opposizione, in particolare gli altri rappresentanti sindacali, che lo stazionamento di cui sopra (presso le predette Ute) non era stato inizialmente programmato e doveva essere temporaneo, al solo fine ciò di decidere dove poi spostarsi per riunirsi in assemblea.

In un primo momento, tutti gli scioperanti erano irregolarmente distribuiti su tutto il corridoio, compreso il percorso riservato agli Agv (in tale fase il B. è risultato essere assente; infatti, inizialmente era all’esterno del reparto con altri lavoratori, poi, ricevuta una telefonata dal L. Alle 2,24 che chiedeva il suo intervento a supporto, rientrava portandosi sui luoghi oggetto di contestazione). Sempre in tale iniziale contesto, tutti i partecipanti alla protesta vengono indistintamente invitati dai responsabili aziendali a lasciare libero il passaggio dei carrelli, facendo loro notare la presenza irregolare all’interno della banda magnetica, delimitata da apposita segnaletica orizzontale colorata. Gli inviti rivolti anche al L. E B. (che nelle more era rientrato), in tale primo momento, sono fatti esclusivamente quali rappresentanti sindacali più prossimi agli Agv dagli stessi responsabili Sa. (cfr. Dichiarazioni di T. , il quale specifica che per prassi in tali occasioni ci si rivolgeva sempre agli organi o istituzioni del sindacato e non direttamente ai semplici lavoratori), poiché alla testa del corteo (impropriamente, visto che ormai si era già fermato). Subito dopo tali primi richiami, tutti i partecipanti alla protesta, indistintamente, divenuti consapevoli della posizione irregolare di alcuni anche all’interno del percorso interdetto ai pedoni, si spostano ponendosi ai lati destro e sinistro della zona riservata al transito degli Agv, sulle strisce rosse; rimangono innanzi al carrello già fermo inizialmente solo L. E B. , successivamente li raggiungerà, ponendosi a braccia conserte, anche il P. Orbene, è evidente in tale prima fase degli accadimenti, e solo in essa però (per quanto si evidenzierà infra), la effettiva iniziale incomprensione degli astanti, che non si erano resi conto sino a quel momento della posizione irregolare proprio a causa della confusione sul da farsi e la concitazione degli eventi, frutto di quell’equivoco richiamato dal giudice del decreto opposto.

Da tale momento in poi, invece, si ha lo stazionamento consapevole dei tre licenziati innanzi al carrello (il cui funzionamento non poteva essere ripristinato a causa della permanenza irregolare e pericolosa di questi; infatti, è aberrante sul punto la tesi della Fiom volta a sottolineare – durante la deposizione dei tre licenziati ed a pag. 31 delle note autorizzate – come l’azienda non avesse comunque tentato il riavvio degli Agv pur loro presenti innanzi. Ebbene, se in un primo momento il sindacato espressamente palesa la tesi del blocco degli Agv per un altamente probabile guasto meccanico – in alternativa alla tesi aziendale del sabotaggio -, come si può pretendere poi che si riavvii un carrello guasto – ad esempio sui sensori – potendo questo travolgere le persone presenti? ), nonostante le molteplici contestazioni formali loro rivolte dai responsabili aziendali, ponendosi con atteggiamento di sfida (il cui nobile intento di difesa dei diritti dei lavoratori, se eticamente condivisibile, è stato trasfuso in comportamento illegittimo e gravemente insubordinato) quali ostacoli alla solerte ripresa della produzione.

I contemperamenti al diritto di sciopero

Se questa è la ricostruzione degli accadimenti avvenuti la sera tra il 6 e 7 luglio u. S. Così come emerge dal complesso dell’istruttoria svolta, ora bisogna verificare l’illegittimità di quanto posto in essere dai tre licenziati alla luce della giurisprudenza sopra richiamata per poi chiedersi se la reazione avuta dall’azienda opponente sia affetta da sproporzione, perché se così fosse si avrebbe comunque, proprio in virtù degli indirizzi giurisprudenziali innanzi citati, l’antisindacalità della condotta.

Nel caso in esame, del resto proprio come nel precedente specifico di cui alla sentenza n. 8401 del 1987 della Sez. Lav. Della Cass. (cfr. Anche Cass. Sez. Lav. , n. 1833 del 1981), i tre dipendenti poi licenziati ponevano in essere una condotta tendente ad impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale ed estrinsecata in atti concreti sugli impianti azionati da lavoratori non scioperanti, realizzata con interventi materiali su questi ultimi (è il caso dei dipendenti non in sciopero e dei responsabili di produzione Sa. , che, per quanto con funzioni apicali, sono pur sempre dei dipendenti), con la conseguenza di avere impedito la prosecuzione dell’attività aziendale ostruendo con i propri corpi il passaggio di un carrello rifornitore. La reazione tenuta dall’imprenditrice all’agitazione proclamata dai lavoratori è legittima.

Infatti, nella specie viene esclusa l’antisindacalità del licenziamento irrogato ai tre lavoratori per un loro comportamento non riconducibile all’esercizio del diritto di sciopero, in cui non rientra la condotta di chi non si limiti ad un’attività di persuasione degli altri dipendenti per indurli a scioperare, ma ponga in essere concreti atti nei confronti del personale non aderente all’agitazione o interventi materiali sugli impianti per impedire il funzionamento dell’organizzazione aziendale.

L’azione dei tre lavoratori viene valutata come illegittima in relazione al suo specifico fine di determinare materialmente l’interruzione dell’attività produttiva (del resto altrimenti non si spiegherebbe nemmeno la plateale minaccia rivolta dal B. Di estendere tale forma di protesta all’intero montaggio).

Il rapporto di lavoro è caratterizzato anche dal diritto del dipendente di astenersi temporaneamente dall’esecuzione delle prestazioni, partecipando a forme di protesta collettiva, la cui portata non può essere vanificata dalla pratica del c. D. Crumiraggio, ossia della sostituzione degli scioperanti con nuovi dipendenti (questa sì condotta antisindacale); all’imprenditore è quindi solo consentito adibire il personale che resti a disposizione alle mansioni degli scioperanti, ma non assumere altri lavoratori in luogo di costoro, ponendosi tale comportamento come diretta violazione del diritto di sciopero.

Si considera così decisiva l’incidenza del comportamento ostruzionistico dei tre lavoratori sulla prosecuzione dell’attività aziendale, che il datore di lavoro ha diritto di riorganizzare durante lo sciopero, negandosi invece la rilevanza giuridica delle situazioni dei dipendenti non aderenti allo sciopero, il diritto di costoro a lavorare, garantito dall’art. 4 Cost. , non può entrare in questione perché l’impedimento temporaneo alla prestazione non lede alcuna posizione soggettiva, restando integri tutti i diritti di tali lavoratori (anche quelli di natura retributiva).

è da escludersi che il comportamento tenuto dai tre lavoratori, ossia l’essersi collocati solo tali scioperanti avanti al carrello rifornitore possa integrare l’ipotesi di un picchetto di persuasione; la illiceità di tale condotta è evidente in quanto travalicata in minaccia e cioè in una coazione. Non trova pertanto fondamento la prospettazione difensiva della Fiom quando tende a far ritenere che la punizione – di tre soltanto – del comportamento di cui trattasi (di cui due corresponsabili sindacalmente attivi) appare finalizzata ad influire sul futuro svolgimento della lotta (di qui il riferimento agli altri contesti aziendali di Mirafiori e Pomigliano) e cioè ad incidere sulla modalità ed intensità dei futuri episodi di sciopero; intenzione intimidatrice che già di per sé costituirebbe comportamento antisindacale di illecito condizionamento con carattere di rappresaglia e di discriminazione.

Al riguardo è sufficiente ribadire che nel vigente ordinamento ed alla stregua della odierna realtà delle relazioni del mondo del lavoro e delle prassi attuative del diritto di sciopero riconosciuto e garantito dall’art. 40 Cost. , l’esercizio di tale diritto non conosce limitazioni per quanto concerne la sua spettanza a tutte le categorie di lavoratori (eccezionali essendo le ipotesi derogative) e le modalità del suo esercizio (con assenza cioè di limiti ed interni), laddove il solo limite c. D. «esterno» è costituito dalla non possibilità dell’effettuazione di atti diretti contro l’organizzazione aziendale in modo da impedirne il funzionamento o da comprometterne gravemente la stessa produttività (nel caso in esame, nell’arco di tempo in cui non è stato possibile ripristinare il funzionamento dell’Agv per il comportamento ostruzionistico posto in essere dai tre licenziati, si è avuta la mancata produzione di circa 15 autovetture, dato confermato dal teste F. N. All’udienza del 18 gennaio 2011) così come di atti che provochino pregiudizio a fondamentali diritti del pari costituzionalmente garantiti in modo assoluto quale quello alla vita ed all’incolumità personale (nel caso di specie è palese la violazione alle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro ad esempio pericolo di schiacciamento secondo le raccomandazioni tecniche contenute nel manuale di istruzione dell’Agv, versato in atti) o alla libera iniziativa economica. Deve essere ribadito che, consistendo l’esercizio del diritto di sciopero in atti di tutela di interessi collettivi attuata in forma dialettica nei confronti del datore di lavoro, la verifica della legittimità dello sciopero deve essere necessariamente condotta in relazione a ciò che al datore di lavoro rimane giuridicamente consentito durante lo svolgimento dell’agitazione.

Orbene, all’azienda non può essere negato, con riferimento esplicito al diritto sancito dall’art. 41 Cost. , di continuare lo svolgimento dell’attività aziendale mediante il personale dipendente che ancora resti a sua disposizione poiché non partecipante allo sciopero e che venga temporaneamente adibito alle mansioni proprie degli scioperanti; reazione che di per sé non appare rientrare nel concetto di condotta antisindacale di cui all’art. 28 l. N. 300/1970. Ciò precisato, va specificato che nel caso in esame l’istruttoria ha accertato in punto di fatto che L. E B. , seguiti dal P. , avevano impedito, nel corso dello sciopero del 6-7 luglio 2010, qualsiasi manovra volta al sollecito ripristino del funzionamento del carrello rifornitore Agv, non consentendo ai responsabili di produzione Sa. Di insistere nel tentativo di proseguire l’attività produttiva (poiché la loro posizione, di circa un metro innanzi l’Agv, comunque rientrava abbondantemente nello spettro di rilevamento del sensore di ostacoli ad infrarossi dell’Agv, tenuto conto delle misure e dello schema riportato a pag. 17 del manuale di istruzioni versato in atti e che espressamente distingue la distanza di arresto dall’ostacolo, che i testi hanno riferito essere di soli 20-30 cm circa da quella di rilevamento e rallentamento del carrello, ben superiore alla prima), il che avrebbe comportato invero la necessità o di far ricorso alla forza pubblica o di esporre i presenti a pericoli per la loro incolumità fisica contravvenendo alle più elementari regole in materia di sicurezza sul posto di lavoro (pericolo di schiacciamento in caso di malfunzionamento dell’Agv, che nel caso di specie non poteva essere escluso a priori né tantomeno verificato prima dallo spostamento dei tre, anzi, che è stato espressamente dedotto dalla Fiom come la causa del loro blocco iniziale).

Orbene, richiamando quanto già accennato all’inizio, nella fattispecie in esame è stato accertato che L. , B. E P. Avevano, per l’appunto, posto in essere un tal tipo di comportamento impedendo, mediante fisica ostruzione, il ripristino del funzionamento (infatti se non si spostavano, pur essendo l’Agv già fermo per i più svariati motivi, i tecnici Sa. Non potevano manualmente resettarlo e riavviarlo, se non accettando il rischio di poter investire qualcuno in caso di guasto paventato proprio dal sindacato) ed il successivo procedere del carrello di rifornimento del materiale (che, si noti bene, è risultato essere stato carico di materiale), il che era andato al di là di una semplice pressione psicologica, e tanto basta per qualificare il comportamento stesso come illegittimo.

Il libero interrogatorio dei tre licenziati e la tesi del complotto aziendale

Se questa è la reale ricostruzione della vicenda, frutto dell’attenta ponderazione delle risultanze emerse in sede di copiosa istruttoria, inverosimile appare, invece, la versione fornita dai tre lavoratori licenziati nel loro libero interrogatorio.

Innanzi tutto va precisato che così come non è emersa provata la tesi sostenuta dall’azienda circa l’intento premeditato dei manifestanti di bloccare la produzione (c. D. Sabotaggio), altrettanto non ha avuto idoneo (da darsi in ambito processuale e non con l’intento poco felice di far pubblicare su un noto quotidiano locale, proprio nel momento in cui il giudice si stava ritirando in camera di consiglio, gli stralci di quelle registrazioni di conversazioni non ammesse in giudizio perché prodotte in dispregio delle preclusioni del rito) riscontro probatorio l’assunto del sindacato volto a dimostrare la sussistenza di un progetto aziendale (non potendo essere altro, dovendosi ravvisare l’antisindacalità nella condotta propria dell’azienda e non in iniziative del tutto personali – – seppur poco felici – – di un singolo dipendente quale il T. ) teso a reprimere l’attività sindacale colpendo (recte, perseguitando) uno ( inspiegabilmente, e non anche altro autorevole esponente quale il L. ) dei propri attivisti rappresentanti (B. ).  Infatti, proprio perché il sindacato non ha fornito in maniera sufficiente e completa (pur essendo stato posto nella condizione di farlo con l’ammissione delle specifiche testimonianze ammesse sul punto; per il rigetto della richiesta di acquisizione delle trascrizioni dell’sms e delle registrazioni delle conversazioni si richiamano le ordinanze istruttorie rese in corso di causa) adeguata prova (la circostanza è rimasta di natura indiziaria) di tale tesi, così non assolvendo il proprio onere probatorio, si è ritenuto superfluo assumere prova contraria articolata dall’azienda a mezzo proprio del teste T. Sulle medesime circostanze (tra l’altro, forse proprio in conseguenza di tale carenza probatoria, a pag. 7 delle note autorizzate la Fiom correggeva il tiro sostenendo che aveva sempre ritenuto improbabile che il T. Percepisse cinquemila euro per ogni lavoratore licenziato, così, di fatto, sminuendo la tesi, pur inizialmente sostenuta, della persecuzione sindacale di alcuni suoi esponenti). Infatti, anche l’episodio vissuto e raccontato dal teste L. (T. Gli avrebbe detto che il B. Era una zanzara fastidiosa da schiacciare), dove la motivazione di appartenenza ed attivismo sindacale in capo al B. Ha il fine di tentare di spiegare quello che viene da lui percepito come intento minaccioso e persecutorio del T. Nei confronti del sindacato, appare essere frutto di una sua personale ed opinabile (come si evidenzierà) convinzione che non trova riscontro in altri concreti elementi probatori (quali, ad esempio, il dialogo del 3 novembre 2010 nel piazzale del Palazzo di giustizia, come si dirà). Infatti, questi diceva di avere percepito la frase offensiva pronunziata dal T. Come una provocazione volta a lui ed al B. Proprio quali appartenenti alla Fiom e di essere talmente intimorito da non richiedere al T. Spiegazioni ulteriori o replicare, ma di avere subito dopo convocati L. E B. (i quali però minimizzano l’accaduto e lo tranquillizzano) al fine di notiziarli di quanto avvenuto (ciò, unitamente all’sms di avvertimento, confermerebbe che nel maggio 2010 il B. Era stato messo in guardia sulla persona del T. ; dato importante, che sarà utile per valutare il comportamento successivo del B. , secondo quanto si evidenzierà). Collegava l’episodio all’appartenenza sua e del B. Alla Fiom ma non sapeva spiegare come mai il T. Non avesse anche fatto riferimento al L. (pure attivista); si giustificava dicendo che probabilmente (una sua convinzione) il B. Era più in vista. Ma allora è da chiedersi perché si sentisse intimorito e perseguitato anche lui che proprio attivo di certo non era, né lo era più, soprattutto, del L. Che aveva sempre avuto buoni rapporti con il T. (sin dall’adolescenza); che non aveva mai avuto in precedenza (a successivamente) altre discussioni con questi, quale suo superiore, sul posto di lavoro.

Non aveva mai nemmeno avuto precedenti contestazioni e sanzioni disciplinari; perché allora temere un licenziamento?

Del resto non aveva mai ricoperto cariche elettive nell’azienda e nel sindacato (a differenza di B. E L. ) e l’ultimo sciopero a cui aveva partecipato si era svolto prima che in azienda addirittura arrivasse il T. Collegava anche l’accaduto a due licenziamenti di iscritti Fiom avvenuti la settimana prima, ma di cui però non conosceva nemmeno le relative vicende perché assente dal lavoro.

Anche la deposizione resa quale testimone dalla figlia di B. Sul paventato disegno aziendale contiene dei contrasti logici insanabili. Questa diceva che il P. Le raccontava sul piazzale del palazzo di giustizia, nel corso di una precedente udienza, che il padre (stranamente solo lui) non c’entrava nulla nella vicenda oggetto del giudizio e che «era stato messo in mezzo» (ma allora è da chiedersi se L. E P. C’entrassero e perché, visto che l’episodio è unico! ). Poi diceva che il padre, dopo il riferimento fatto dal P. All’avvertimento datogli in passato («ti avevo detto di stare attento al T. »), gli chiedeva ingenuamente « perché? », come se a quella data non sapesse già, visto che aveva ricevuto quell’sms (cfr. Interrogatorio libero di B. ) ed aveva parlato con L.  Raccontava quindi che P. Avrebbe fatto riferimento a «quelle buste paga» con l’indicazione dei 5. 000 euro ottenuti per ogni lavoratore licenziato, che lo stesso T. Avrebbe fatto loro vedere vantandosi. Posto che però il T. Non risulta abbia mai avuto il potere di licenziare alcuno, è da chiedersi se è verosimile che l’azienda paghi e contabilizzi ufficialmente somme che, dato l’intento illecito (nel caso in esame sarebbero finalizzate a reprimere l’attività sindacale), avrebbe ben potuto corrispondere in nero, senza lasciare traccia.

Se poi si ritiene che siano state mascherate sotto altre (ad esempio premi di produzione) voci (non potendo evidentemente comparire in busta paga la dicitura «per licenziamenti irrogati»), non si comprende il gesto del T. Di mostrare in visione un documento che agli occhi di terzi non potevi dimostrare proprio alcunché visto che non conteneva riferimenti espliciti. E la conferma di tale inverosimiglianza la si ha nella risposta che il P. Avrebbe dato alla domanda (che riassume tutta la tesi del complotto sconfessandola) della figlia di B. «allora l’hanno fatto apposta? » dicendo «di

non sapere nulla» e che la probabile esistenza di qualche progetto aziendale in tale direzione era solamente il frutto di una sua personale supposizione (la testimonianza di P. Sul punto, pertanto, veniva ritenuta superflua e sovrabbondante, non potendo far transitare nei verbali del giudizio quella che era già stata raccontata da altro teste come mera congettura del P. ).

Né ulteriori elementi sono riscontrabili nella deposizione del teste S. , la quale, anzi, proprio perché non assisteva a tutta la predetta discussione, non ricordava riferimenti fatti dal P. Alla persona del T. O a somme di denaro da questi verosimilmente percepite.

Le deposizioni, poi, dei lavoratori licenziati appaiono in maniera evidente non attendibili ed in aperta contraddizione non solo con quanto riferito in precedenza dagli altri testi escussi durante la fase sommaria ed il giudizio di opposizione, ma anche in contrasto tra loro tre e, in alcuni passaggi,

addirittura nell’ambito della stessa deposizione singolarmente considerata.

Circostanza che avrebbe meritato la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica se tali deposizioni non fossero state rese in sede di libero interrogatorio, e quindi in assenza di previo giuramento secondo la formula di rito, in considerazione di quell’evidente interesse personale all’esito del giudizio che ne aveva escluso l’audizione (e forse vi è da dire meno male) in qualità di testimoni, ex art. 246 c. P. C. , e che poi, di fatto, si è palesato in tutta la sua consistenza all’esito della prova.

In particolare, il B. (ma analoga considerazione è stata resa anche dal L. E dal P. ), nel verbale del 17 maggio 2011, diceva che al momento dei fatti ed ancora oggi non era riuscito a capire il «perché» (ossia il motivo) il T. Contestò loro tre. Tuttavia, tale affermazione è smentita proprio dal loro stesso comportamento (in particolare dal suo e da quello di L. ) che, con tono di sfida e sbeffeggiante, si rivolgevano al T. Dicendogli «che, ti si è incantato il disco? »; atteggiamento con cui, implicitamente, sottolineavano più volte che non era necessario ribadire di continuo la contestazione, forse proprio perché, evidentemente, avevano capito.

Del resto, una persona che non comprende una situazione in cui è, a suo dire, involontariamente ed inconsapevolmente coinvolta, chiede, al contrario, delucidazioni su quanto sta accadendo.

Ma la circostanza di cui sopra è confutata anche, subito dopo, dalla deposizione dello stesso P. , il quale, dopo avere anche egli di sua sponte sottolineato di non avere compreso il perché della contestazione, contraddicendosi, diceva che, appena spostatisi e visto che gli Agv non ripartivano, facevano (loro tre) notare ai responsabili Sa. Che non erano loro la causa del fermo dei carrellini (così difendendosi e giustificandosi, ammettevano di avere compreso quanto loro prima veniva rimproverato e, soprattutto, smentisce che ad oggi non abbiano ancora compreso il c. D. «perché»).

B. Inoltre diceva che «nessuno» dei presenti aveva capito che lì non poteva stare. Ebbene, anche questa affermazione è palesemente contraddetta con quanto riferito dai precedenti testi escussi, anche dagli altri stessi rappresentanti sindacali di cui alla lista indicata dalla Fiom.

In particolare, il teste L. R. (delegato Uim), sentito all’udienza del 3 novembre 2010, dichiarava di sapere che sul percorso riservato al passaggio dei carrellini non si può «sostare» (n. B. Non dice transitare o attraversare, momentaneamente) e che la zona pedonale era delimitata da apposita

segnaletica orizzontale. Sempre alla medesima udienza, il teste F. M. (delegato Ugl) ricordava di essere rimasto sulla fascia rossa (zona pedonale, vedi foto doc. N. 6 produzione Sa. ; a dimostrazione che una segnaletica all’epoca c’era) sapendo (ciò contraddice le difese dei tre licenziati che non

avrebbero saputo del divieto) che oltre non era consentito «sostare». Anche il teste E. G. , delegato Fim-Cisl, dichiarava «sappiamo tutti che lì non possiamo sostare» per motivi di sicurezza e perché si impedisce alla linea il rifornimento dei materiali, tant’è che tutti gli altri, poi, si erano posti

«al di fuori della zona riservata al transito dei carrelli».

Non da ultimo, anche il teste P. , delegato Uelm, all’udienza del 21 ottobre 2010 confermava di sapere che per motivi di sicurezza «lì non possiamo sostare», tant’è che lui stesso invitava B. Ad allontanarsi. Nel proprio racconto B. Continuava dicendo che, successiva ad una prima fase in cui tutti indistintamente si soffermavano sulla banda magnetica, non ne seguiva una seconda in cui solo lui, L. E P. Persistevano nella posizione irregolare.

Anche tale ricostruzione appare in evidente contrasto con quanto riferito dai precedenti testi escussi. Infatti, tra gli altri, il teste M. C. , delegato Fismic, sulla circostanza dichiarava «a questo punto (ossia dopo il richiamo dei responsabili Sa. , ricordato immediatamente prima) chi non era già al di fuori dell’area delimitata dalle linee gialle (che erano presenti, sicuramente all’epoca, confutando anche qui quanto riferito dai tre licenziati e sostenuto dal sindacato per mezzo delle foto poi non acquisite; tuttavia, sul punto, si ritiene essere stata per lo meno inopportuna la scelta aziendale di ritinteggiare la pavimentazione, facendo divenire irrilevante un sopralluogo dei posti per mutamento degli stessi) si è spostato e davanti al carrellino sono rimasti L. , B. E P. »; ed inoltre «tutte le persone che vi sostavano innanzi cominciarono a spostarsi». Gli espressi riferimenti sopra richiamati, fatti dai testi alle diverse colorazioni sul pavimento a delimitazione delle zone riservate rispettivamente agli Agv ed ai pedoni, secondo la raffigurazione ritratta nelle rappresentazioni fotografiche prodotte agli atti dell’azienda (cfr. Doc. 6, 7 e 8), smentiscono in maniera evidente quanto dichiarato dal B. , L. E P. Circa l’assenza di qualsiasi distinzione visiva sul pavimento dei luoghi dove si sono svolti i fatti.

Del resto tale affermazione, oltre che contrastare con quanto riferito in modo chiaro e puntuale da pressoché tutti i testi escussi in precedenza (sin già dalla fase sommaria), appare inattendibile anche per altre considerazioni. Infatti, i tre licenziati dichiaravano (n. B. Spontaneamente e non su domanda) di avere visionato, perché mostrato loro dai difensori del sindacato opposto nel corso del giudizio, copia della documentazione fotografica agli atti dell’azienda (ciò avveniva prima che il giudice esibisse loro gli originali, a colori, mai visti prima). Orbene, non è dato capire come questi possano avere disconosciuto la presenza di zone colorate su copie fotostatiche in bianco e nero (cfr. Dichiarazione di L. ). Poi, è difficile credere, secondo quanto da loro riferito, che gli stessi percorsi Agv e pedonali in alcune Ute del medesimo stabilimento di S. Nicola siano segnalati ed in altri (tra cui, guarda caso, il posto dove si sono svolti i fatti), inspiegabilmente, no.

Appare anche strano che un combattivo rappresentante per la sicurezza come il B. Non abbia mai segnalato prima, nel corso degli anni, all’azienda una tale palese vio lazione alla normativa sulla sicurezza sul posto di lavoro. Ancora più strano è che la prospettata assenza di segnaletica orizzontale sui luoghi non sia mai stata dedotta prima dal sindacato; ciò non è avvenuto negli atti e nell’istruttoria della fase sommaria né negli atti introduttivi e durante le deposizioni del giudizio di opposizione. Pertanto, la presenza della segnaletica orizzontale a delimitazione delle diverse aree riservate al passaggio degli Agv ed allo stazionamento dei pedoni sulla zona dove sono avvenuti i fatti per cui è causa il 6 e 7 luglio u. S. è comprovata da più elementi tra loro concordanti.

In primo luogo dai riferimenti ai colori (rispettivamente rosso e giallo) delle diverse linee, fatti dai protagonisti di tali avvenimenti nelle diverse deposizioni testimoniali rese nel corso del giudizio (citate sopra come esempi). Oltre che oggetto diretto della percezione sensoriale e ricordo dei presenti, la circostanza appare inoltre essere rafforzata dalle conformi (alle suddette dichiarazioni) riproduzioni fotografiche dei luoghi così come si presentavano in epoca immediatamente prossima e successiva alla sciopero (doc. 6, 7 e 8 della Sa. ) riferito in atti (che raffigurano una situazione corrispondente a quella descritta dai testi).

Anche il riferimento alla presenza di tale segnaletica solo (stranamente! ) presso alcune altre Ute, ammessa dai tre licenziati, proprio perché inverosimile, sembrerebbe rafforzare la ricostruzione dei luoghi in tal senso. Del resto, la riferita assenza della linea gialla, oggetto della deposizione di B. , L. E P. , avvalorata dalle foto esibite (ma non acquisite) in giudizio, poiché riferita ad un momento di gran lunga successivo a tale epoca (udienza del 17 maggio 2011), non è idonea a provare il contrario ma (ed al massimo) semplicemente l’assenza nel momento di esecuzione di quei lavori di manutenzione a cui il procuratore p. T. Dell’azienda aveva fatto riferimento a verbale. Lo dimostra il fatto che prima di tale udienza il sindacato non aveva mai contestato l’assenza di idonea segnaletica sui luoghi degli avvenimenti ed all’epoca dei fatti.

Ma pur volendo sul punto accettare ingenuamente la prospettazione della Fiom, andando contro a quei molteplici e concreti riscontri probatori a cui si è fatto cenno, si può davvero ritenere che mentre tutti i presenti, per loro stessa ammissione resa a verbale, sapessero che lì non potevano sostare (lo si ripete, no «non transitare»), tant’è che prontamente, dopo i richiami, sì ponevano ai lati della banda magnetica, solo e proprio i tre licenziati, di cui due (B. E L. ) di lunga e comprovata esperienza lavorativa e sindacale, ignorassero la circostanza?

Ciò sarebbe potuto accadere per un neofita (ma neanche pure, come si dimostrerà).

Infatti, quand’anche avessero inizialmente ignorato il dato, se ne sono resi conto dopo i primi richiami, quando,anziché conformarsi a tutti i loro colleghi di lavoro, rispondevano «e se qui non possiamo stare, diccelo tu dove dobbiamo andare! ».

Nemmeno veritiera è la circostanza secondo cui né il B. Né il L. Avrebbero risposto alle ripetute contestazioni del T. Dicendo «che, ti si è incantato il disco? » e « se qui non possiamo stare, dicci tu dove dobbiamo andare! ». Senza voler richiamare le numerose precedenti deposizioni in senso contrario presenti nei verbali di causa (a cui sopra si è fatto cenno), basti ricordare la stessa deposizione del P. , il quale invece ricordava la frase «ti si è incantato il disco? », però, stranamente, non ricordava essere stata detta da uno dei due suoi colleghi sopra indicati (visto che non era stato lui né gli altri presenti che, nel frattempo, avevano da loro preso, anche fisicamente le distanze); lo ricordava invece il L. Che attribuiva la frase «probabilmente» al B.

Palesemente falsa è anche la circostanza secondo cui, all’esito dello sciopero per cui è causa, sarebbero stati altri rappresentanti sindacali e non lo stesso L. A prendere l’iniziativa della redazione della dichiarazione sulla regolarità della protesta versata in atti, fatta, secondo l’assunto di L. E B. , non certo per proteggere il più debole (giuridicamente) P. (così rifiutando quell’intento filantropico che pure altri – – P. – – , forse immeritatamente, pur gli aveva attribuito).

Peccato invece che P. Ed E. Abbiano, rispettivamente, attribuito al L. L’iniziativa della redazione di tale atto in difesa proprio del P. Anzi, il teste F. Ricordava come fosse stato proprio L. A pretendere l’inserimento nel documento del riferimento «all’atteggiamento provocatorio del gestore operativo». Dulcis in fundo, è da chiedersi come prestare importanza e credibilità alla giustificazione addotta dal L. , secondo cui il fermo della produzione loro contestato dal T. Era stato ricondotto per errore alla loro partecipazione allo sciopero piuttosto che alla irregolare persistenza sulla banda magnetica. E lui stesso, infatti, dopo avere ricordato di avere partecipato in passato a numerosi scioperi, a dire che in tali altre similari situazioni nessun responsabile aziendale si era mai permesso (per ciò solo) di esigere dai manifestanti la ripresa dell’attività lavorativa. Come prestare credito ad una ricostruzione (cfr. Cap. 16) della o. S. Secondo cui il B. , chiamato in aiuto e soccorso dal L. Con la telefonata della 2,24, rientrato sì prontamente sui luoghi, invece di avvicinarsi subito al collega in difficoltà, chiedere cosa fosse avvenuto e prenderne le difese, si fermava a ben venti metri di distanza, per poi intervenire solo successivamente? Quanto, invece, alla circostanza strettamente personale riferita dal B. , volta a dimostrare la preesistenza ai fatti per cui è causa di un complotto aziendale posto in essere dal T. Stesso nei suoi confronti al fine di licenziarlo (cosa che comporterebbe l’illegittimità del licenziamento e la sussistenza dell’invocata antisindacalità, secondo gli indirizzi giurisprudenziali sopra richiamati), anche qui giova sottolineare che tale tesi appare inverosimile anche per almeno un ulteriore duplice ordine di considerazioni (in aggiunta alle considerazioni sopra esposte).

Infatti, questi dichiarava che già dal 26 maggio 2010, per avere ricevuto un sms che lo metteva in guardia, era a conoscenza di essere attenzionato dal T. Orbene, è inverosimile, poiché irrazionale, che un lavoratore che già da tempo sa di essere futuro bersaglio e destinatario di prospettati provvedimenti disciplinari a suo carico, pubblicamente si metta in condizione di farsi contestare ripetutamente proprio da quel responsabile che sa essere pronto a punirlo; una persona di buon senso, invece, avrebbe fatto esattamente il contrario, allontanandosi come tutti gli altri presenti Ma è il contenuto stesso di quanto riferito dal B. Ad essere contrario ad ogni logica. Come si può affermare che il T. «prende dei soldi per licenziare persone» quando questi, per organigramma aziendale, non ha giuridicamente alcun potere di licenziare nessuno?

Infatti, sia le contestazioni disciplinari sia i licenziamenti sono firmati da diverso e ben più elevato dirigente aziendale. Senza tacere l’ulteriore inverosimile fatto che stranamente il B. Non ha mai chiesto al P. Come e perché questi fosse venuto a conoscenza della prassi del T. Di prendere soldi per licenziare persone visto che tale circostanza riguardava anche lui direttamente (lo ammette in sede di interrogatorio).

Analoghe considerazioni devono farsi in merito alle dichiarazioni rilasciate sulla medesima circostanza dai testi S. , B. I. , P. Anche il richiesto esperimento giudiziale mediante simulazione contestuale all’ispezione dei luoghi, per mezzo di perito, nulla avrebbe aggiunto a completamento dell’istruttoria già svolta ed alla ricostruzione dei fatti oggetto di causa, apparendo attività defatigatoria oltre che onerosa per le parti. Detta attività sarebbe stata non assolutamente indispensabile anche in considerazione della produzione agli atti dell’opponente della copia del manuale di funzionamento degli Agv e della deposizione resa sul punto dal teste P. Del resto, una simulazione volta a riprodurre l’arresto del carrellino sarebbe apparsa inutile rispetto all’oggetto dell’accertamento, consistente nell’ostacolo alla ripresa della produzione piuttosto che al sabotaggio (c. D. Contatto). Inoltre, è da considerare anche che sarebbe stato praticamente impossibile individuare con assoluta certezza proprio quel carrello Agv oggetto degli avvenimenti per cui è causa, essendo più d’uno gli Agv che transitano su quel percorso; la circostanza non è di poco conto se si considera che potrebbero esserci delle differenze più o meno tollerabili nella taratura dei sensori dei diversi carrellini secondo la procedura tecnica riportata nel relativo manuale di funzionamento.

Il rispetto del principio di proporzionalità della sanzione

Ciò precisato, rimane tuttavia da verificare se la massima sanzione irrogata come reazione dall’azienda sia stata o meno proporzionata a tale comportamento illegittimo, tenuto conto delle modalità e circostanze con cui in concreto è stato posto in essere, ciò perché, secondo i consolidati indirizzi giurisprudenziali innanzi richiamati, l’antisindacalità della condotta potrebbe essere stata concretizzata proprio adottando una punizione sproporzionata per eccesso. Le modalità della condotta concretamente posta in essere dai tre lavoratori licenziati e la loro idoneità a scuotere irreparabilmente l’elemento fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro portano a ritenere sussistente la proporzione della sanzione irrogata.

Infatti, va nuovamente evidenziato che i tre sono stati «formalmente» ed «individualmente» contestati dai responsabili aziendali più volte, ed invano (circostanza riferita da pressoché tutti i testi escussi; del resto non si spiegherebbe altrimenti nemmeno la frase riferita in risposta da B. In tale contesto: «che, ti si è incantato il disco? » ); ciò avveniva dopo che già tutti gli altri manifestanti erano stati inizialmente richiamati e resi edotti della loro posizione, tanto che questi subito provvedevano ad allontanarsi dal percorso dell’Agv. La circostanza comprova il formarsi in quel

frangente dell’elemento psicologico intenzionale in capo ai tre, che decidevano, deliberatamente, di persistere nell’intento ostruzionistico (dato confermato dalla riferita minaccia del B. Di estendere tale forma di protesta all’intero montaggio, cfr. Dichiarazioni resa, tra i tanti, da M. P. ).

Tale condotta era di fatto accompagnata da un atteggiamento irriguardoso e provocatorio, volto al pubblico ludibrio di chi, lavoratore non partecipante alla protesta indetta e loro superiore gerarchico, in nome e per conto dell’azienda, tentava di ripristinare il funzionamento dell’Agv e continuare la produzione (che si noti bene era già stata ripresa, seppur per soli pochi minuti); in tale contesto devono, appunto, essere inserite le frasi del B. «che, ti si è incantato il disco? » (circostanza che sottolinea il fatto che per loro non era necessaria la ripetuta contestazione e che avevano capito bene ciò che veniva agli stessi imputato) e «tu mi devi dare del lei» (che però lui è il primo a non dare al giudice dell’opposizione durante tutto il suo interrogatorio, così come del resto gli altri due suoi colleghi! ).

A ciò si aggiunga la grave insubordinazione ed il plateale disconoscimento dei ruoli all’interno dell’azienda; infatti, il B. , rivolgendosi al T. , gli diceva che questi «non era nessuno (però poi stranamente sì per intimorire L.! ) per poter dire ai lavoratori che cosa dovevano fare» (cfr. , tra le tante del medesimo tenore, le dichiarazioni rilasciate dal M. F. All’udienza del 15 marzo 2011).

Sul punto è da rilevare come l’insubordinazione ed il comportamento oltraggioso, oltre a costituire violazione del dovere di obbedienza del lavoratore di cui all’art. 2104 c. C. (che la difesa dell’o. S. Ritiene di dover considerare essere stato sospeso nel caso in esame, durante lo sciopero), sia

in contrasto anche con l’etica comune e con i più generali principi giuridici di correttezza e buona fede che comunque devono permeare lo svolgimento del rapporto di lavoro in atto tra le parti.

Infatti, la Suprema Corte ha stabilito che «la reiterata insubordinazione del lavoratore ad un ordine legittimo del datore di lavoro può legittimamente essere posta a base di un licenziamento per giusta causa, se la mancanza commessa è tale da provocare – secondo l’accertamento del giudice di merito – la totale perdita di fiducia da parte del datore di lavoro, anche nel caso in cui il contratto collettivo preveda condizioni più restrittive per il licenziamento in tronco, e così pure in caso di mancata affissione del codice disciplinare, in quanto una mancanza che implichi la consapevole ribellione nei confronti dell’imprenditore, oltre a comportare la evidente violazione del precetto dell’art. 2104 c. C. Relativo al dovere di obbedienza del lavoratore, ed essere riconducibile alla nozione legale di giusta causa, si pone manifestamente in contrasto con l’etica comune, cioè con i valori generalmente accettati dalla collettività» (Sez. Lav. , sentenza n. 2179 del 25 febbraio 2000).

Ma anche la pubblica minaccia di B. Di estendere tale forma di protesta a tutto il montaggio, non solo alle Ute tre e quattro (cfr. Quanto dichiarato sul punto, tra i tanti, dal teste Pa. ) dimostra la gravità dell’accaduto e di quanto prospettato (circostanza che ha sicuramente inciso sulla persistenza del rapporto di fiducia anche nel futuro). Orbene, se la condotta di L. E P. Inizialmente può apparire meno grave, va invece evidenziato che è stata permeata di uguale disvalore giuridico.

Infatti, questi altri due lavoratori, con un comportamento tacito concludente, non solo non si dissociavano da quanto detto dal B. (ed a differenza di quello che subito avevano fatto tutti gli altri manifestanti, prendendo anche fisicamente le distanze da loro), ma, anzi, persistendo nella loro condotta ostruzionistica, rafforzavano l’altrui (del B. ) proposito. Basti sul punto considerare il comportamento del P. Che inizialmente si trovava defilato rispetto al percorso dell’Agv, vicino ad altri lavoratori ed intento a leggere i dati di una busta paga, poi, proprio dopo le prime e formali contestazioni rivolte agli altri due colleghi, li raggiungeva fisicamente e si poneva, a braccia conserte, sulla banda magnetica nella zona loro  interdetta (tant’è che poi gli veniva chiesto di fornire le proprie generalità dal responsabile aziendale).

Tale modalità di protesta, oltre che sul piano strettamente giuridico, veniva sin da subito percepita come illegittima sindacalmente anche da tutti gli altri manifestanti, tra cui alcuni rappresentanti di altre sigle sindacali, i quali si dissociavano sia prima, spostandosi fisicamente ai bordi del percorso dell’Agv ed invitando i tre a fare altrettanto (è il caso dell’invito a prendere un caffè rivolto dal teste P. Al B. ), sia successivamente, manifestando psicologicamente delle perplessità e rimostranze nel sottoscrivere la dichiarazione di corretto svolgimento della protesta (in particolare L. , M. E F. ; cfr. Dichiarazioni dei testi L. E M. ), di cui lo stesso L. Si era reso promotore (cfr: dichiarazione di P. ) ed il B. (cfr. Dichiarazione del teste L. ) si era tanto premurato di approntare al fine di tutelare il P. , quale soggetto più debole rispetto a loro, che infatti non ricopriva alcuna carica sindacale, ma che, si badi bene, paradossalmente non viene nemmeno citato indirettamente in tale documento (infatti, una cosa sarebbe stato dire che il P. Non aveva alcuna responsabilità, altra che tutto in generale si era svolto nel rispetto delle regole). è alquanto strano che proprio il beneficiario delle tutela, il destinatario diretto, non sia stato menzionato nell’atto o, per lo meno, non sia stata premessa, per iscritto, la finalità di tale dichiarazione. Del resto, lo stesso teste e sindacalista P. D. , alla fine delle dichiarazioni rilasciate nel verbale di udienza del 21 ottobre 2010, su domanda del giudice tesa ad evidenziare la contraddizione del comportamento tenuto, ossia nell’essersi guardato bene dal porsi sulla banda magnetica, nell’avere rivolto l’invito al B. Di spostarsi e prendere un caffè, per non condividere tali forme di protesta, ed avere successivamente sottoscritto la dichiarazione riguardante la regolarità della protesta, si giustificava dicendo che «lo abbiamo dovuto fare perché è prassi» e che «tuttavia se avessi saputo all’epoca che il contenuto di tale documento non sarebbe rimasto in ambito aziendale, forse non l’avrei sottoscritto».

Ciò si spiega perché tale dichiarazione scritta (versata in atti) doveva avere una valenza meramente «interna» all’azienda e non, evidentemente, in ambito giudiziario o nei confronti dell’opinione pubblica.

Conseguenza del comportamento illegittimamente tenuto dai tre lavoratori licenziati è stato il grave danno economico subito dall’azienda opponente (circa quindici auto non prodotte), gravità da rapportare alla particolare situazione di crisi economica e di difficoltà vissuta dal mercato automobilistico in generale ed in special modo dalla Sa. In considerazione dei non gratificanti dati stati stici relativi alle vendite dei modelli prodotti a San Nicola di Melfi e resi pubblici recentemente. A ciò si aggiunga che il tempo in cui si è avuto il blocco della produzione riconducibile alla condotta esclusiva di B. , L. E P. è stato tutta’altro che trascurabile (secondo l’assunto Fiom solo un paio di minuti, pretendendo per assurdità logica prima che giuridica di confrontare un dato oggettivo e immodificabile [tuttavia noto solamente a posteriori rispetto all’accadimento dei fatti] quale l’orario delle 2,24 del tabulato telefonico, non con altro dato altrettanto oggettivo e certo ma con dati «soggettivi» rimessi di ricordo (tuttavia concordante come si dirà) dei testi di momenti vissuti ben tempo prima (i quali durante il richiamo opportunistico alla concitazione dei fatti non stavano certo con il cronometro alla mano e precostituirsi la prova) circa l’arrivo del T. E la ripresa della produzione, riferiti con naturali ma tollerabili discrasie percettive e poi riportati nelle lettere di contestazione); infatti, tale fase, durata secondo quanto concordemente riferito da molteplici testi escussi (M. , E. , R. , F. , M. E P. ) in circa (o in media, che dir si voglia) 10 minuti (ossia grosso modo dalle 2,20 alle 2,30), è stata tale da cagionare, oltre che la mancata produzione di circa (in via prudenziale, non volendo incorrere in cesure della o. S. ) quindici auto, anche la necessità per l’azienda di retribuire gli oltre cento dipendenti che avevano deciso di non scioperare, rimasti inattivi durante il perpetuarsi dell’illecito dei tre licenziati. Concludendo, una volta accertata quindi l’illegittimità della condotta dei tre lavoratori e l’estraneità di essa dall’ambito dello sciopero (infatti, sul punto il Lo. , nel verbale del 21 ottobre 2010, dichiarava che non aderiva alla minaccia di estendere la protesta all’intero montaggio perché «era fondata su motivi esclusivamente personali») non può ritenersi antisindacale il licenziamento dei medesimi, risultato tra l’altro proporzionato alle modalità di tale condotta, sotto il profilo che sia stato intimato soltanto a chi era sindacalmente attivo per la Fiom.

Ed invero, escluso che tale condotta potesse essere giuridicamente ritenuta quale esplicazione del diritto di sciopero e stabilito che il licenziamento era stato intimato in ragione di essa, la partecipazione allo sciopero e la qualità od appartenenza dei soggetti appaiono, come tali, estranei alla causa ed ai motivi della misura adottata (essendosi trattato di una mera coincidenza).

Pertanto, il lamentato effetto intimidatorio non potrebbe essere riguardato esclusivamente che in relazione a tale condotta e non già con riferimento allo svolgimento dell’attività sindacale ed alla partecipazione allo sciopero fintanto che questo si era mantenuto nel rispetto del limite di cui si è precedentemente detto.  

Si è conseguentemente fuori da ogni ipotesi di discriminazione che possa avere rilevanza a norma dell’art. 28 st. Lav. La difficoltà interpretativa della materia e la complessità della vicenda considerata anche la soccombenza reciproca in entrambe le fasi del giudizio, nonché il particolare contesto di aspro confronto sindacale in cui sono maturati i fatti posti alla base dei licenziamenti impugnati, costituiscono gravi ed eccezionali ragioni (ex art. 92, co. 2, c. P. C. ), per compensare per intero le spese di lite tra le parti.

Per questi motivi, il Tribunale di Melfi, in funzione di giudice del lavoro, nella persona del dott. Amerigo Palma, pronunciando sul ricorso in opposizione ex art. 28 l. N. 300/1970 (c. D. St. Lav. ) proposto da S. A. S. P. A. , nei confronti di Fiom-Cgil di P. , ogni contraria istanza ed eccezione disattesa, così provvede: 

1) Accoglie l’opposizione proposta e, per l’effetto, revoca il decreto opposto;
2) Ordina la pubblicazione del presente dispositivo, entro 30 gg. Dalla sua pubblica lettura in udienza, a cura e spese della o. S. Opposta, sui quotidiani «Il Corriere della Sera» e «La Repubblica»; 
3) Compensa per intero le spese di lite, 
4) Motivazione riservata in gg. 7 data la particolare complessità della controversia.

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