Associazione in partecipazione: nozione Cass. Sez. Lav. 22 nov. 2011, n. 24619
In tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice del merito, volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa (non immutabile dall’associante e non limitato alla perdita della retribuzione con salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro), il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato; tale accertamento, se adeguatamente e correttamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità.
Associazione in partecipazione: nozione Cass. Sez. Lav. 22 nov. 2011, n. 24619
In tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice del merito, volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa (non immutabile dall’associante e non limitato alla perdita della retribuzione con salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro), il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato; tale accertamento, se adeguatamente e correttamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità.
Nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione e, allo scopo della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel particolare contesto, significativo, occorre, a detti fini, far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.
Nota – Nell’ambito di un giudizio di opposizione a distinte cartelle esattoriali, il Tribunale del lavoro pronunciava sentenza di accertamento di lavoro subordinato tra un centro sociale, che gestiva un bar all’interno di un locale circolo Arci, e alcuni lavoratori.
In particolare, dall’istruttoria svolta era emerso che la gestione del bar fosse curata, nel rispetto degli orari di apertura dell’esercizio al pubblico, stabiliti dal circolo, da tre dei quattro soggetti destinatari di un accertamento ispettivo, di cui uno di essi curava l’organizzazione dei turni di lavoro, delle ferie e le sostituzioni, gli altri due gestivano il servizio alla clientela e la riscossione delle relative consumazioni; il quarto soggetto effettuava tutti i giorni le pulizie del locale per alcune ore, nelle prime ore del mattino. Inoltre, era emerso che a fronte di attività lavorativa, inizialmente svolta “al nero”, solo dopo molto tempo fosse stato stipulato con alcuni dei suddetti soggetti addetti al bar contratti di associazione in partecipazione non genuini.
Anche la Corte d’Appello, successivamente adita dal centro sociale, confermava la sentenza di primo grado rilevando, in particolare, che rispetto ai due soggetti che avevano concluso contratti di associazione in partecipazione, questi ultimi avevano concordemente riferito:
a) di osservare un orario di lavoro rispettivamente di 40 ore e di 30 ore settimanali, secondo turni organizzati, in modo da “coprire” le fasce di apertura al pubblico dell’esercizio;
b) di andare al lavoro per cinque giorni settimanali, con continuità nel corso del rapporto;
c) di aver ricevuto sempre, anche dopo la tardiva formalizzazione del rapporto, un compenso fisso mensile;
d) di avere sempre svolto tutte e due compiti di vendita al pubblico, mentre la gestione della contabilità ed i rapporti con i fornitori, così come gli acquisti, erano gestiti direttamente dai responsabili del circolo;
e) di non aver mai visto un bilancio dell’associazione, né alcun rendiconto, nonostante che i contratti stipulati prevedessero, a fronte
dell’attività lavorativa prestata dagli associati, una percentuale sugli “utili” di gestione conseguiti nel periodo di durata dei rapporti;
f) di non aver mai avuto alcun conguaglio tra gli “acconti” sugli utili mensilmente ricevuti e gli effettivi risultati gestionali;
g) di avere ricevuto, a fine anno, comunicazione se c’erano state delle perdite e che, in questo caso, venivano fatte loro delle trattenute.
La Corte rilevava, altresì, che in un lavoro come quello in oggetto l’eterodirezione non aveva bisogno di particolari e variegate forme per
manifestarsi, trattandosi di un’attività assolutamente ripetitiva, che si muoveva secondo schemi organizzativi standardizzati, cosicché le direttive al personale addetto al bancobar potevano essere limitate all’essenziale, sostanziandosi le mansioni nello svolgimento delle operazioni consistenti nel servire alla clientela i prodotti e le bevande richiesti. In altri termini, nello specifico contesto, l’addetto al bancobar operava secondo un modello organizzativo etero imposto senza alcun margine di effettiva autonomia gestionale; le mansioni svolte dai pretesi associati erano state, dunque, connotate da assoluta ripetitività ed avevano avuto natura esecutiva (non essendo stato dimostrato e neppure dedotto che fossero liberi di lasciare “scoperti” i turni, di ordinare autonomamente la merce ecc. ).
Il centro sociale ricorreva, pertanto, per Cassazione, lamentando, tra l’altro, che la Corte territoriale avesse erroneamente valutato le risultanze probatorie ed erroneamente ritenuto, con riferimento alla posizione degli associati, che la mancanza di forma scritta del contratto associativo integrasse gli estremi di un rapporto di lavoro subordinato “in nero”.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso conformandosi all’orientamento consolidato di legittimità secondo il quale in tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice del merito, volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa (non immutabile dall’associante e non limitato alla perdita della retribuzione con salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro), il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato; tale accertamento, se adeguatamente e correttamente motivato, non è censurabile in sede di legittimità (cfr. , ex plurimis, Cass. , nn. 9671/1991; 9611/1996; 655/1999; 8578/1999; 290/2000; 1188/2000; 13036/2000; 2693/2001; 8162/2001; 12643/ 2003; 13013/2003; 8465/2007; 24871/2008).
Più in particolare, è stato, altresì, rilevato che “tale accertamento implica necessariamente una valutazione complessiva e comparativa dell’assetto negoziale, quale voluto dalle parti e quale in concreto posto in essere, e la possibilità che l’apporto della prestazione lavorativa dell’associato abbia connotazioni in tutto analoghe a quelle dell’espletamento di una prestazione lavorativa in regime di lavoro subordinato comporta che il fulcro dell’indagine si sposta sulla verifica dell’autenticità del rapporto di associazione; ove la prestazione lavorativa sia inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favore accordato dall’art. 35 Cost. Che tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (cfr. Cass. , n. 24781/2006).
Applicando i suddetti principi al caso di specie, secondo la Suprema Corte la sentenza impugnata ha fornito adeguato e coerente rilievo alle risultanze probatorie che, nel descritto contesto complessivo dei rapporti de quibus, inducevano a ritenere l’insussistenza dei dedotti rapporti di associazione in partecipazione. Palesemente insussistente è secondo la Corte di Cassazione anche la pretesa violazione del principio dell’onere della prova, ritenendo che la Corte d’Appello avesse correttamente giudicato in base al criterio dell’acquisizione delle prove, in forza del quale il Giudice è libero di formare il suo convincimento sulla base di tutte le risultanze istruttorie, quale che sia la parte ad iniziativa della quale sia avvenuto il loro ingresso nel giudizio (cfr. , ex plurimis, Cass. , nn. 5126/2000; 2285/2006; 25028/2008; 739/2010), valutando il complesso delle emergenze processuali acquisite e indicando, al contempo, le lacune probatorie in ordine alle risultanze che avrebbero dovuto corroborare l’eccezione relativa alla sussistenza di rapporti di associazione in partecipazione.
Più specificamente la Corte di Cassazione ha osservato che:
– la subordinazione può manifestarsi in vari modi, anche implicitamente nelle direttive programmatiche coincidenti con la stessa struttura
aziendale, e quindi non necessariamente in espressi e continui ordini e controlli del datore di lavoro, attinenti all’orario o ad altre modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, variabili secondo il contenuto e le circostanze o la stessa fiducia riposta nel lavoratore (cfr. , Cass. , n. 648/1986);
– quando l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale, elementi che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente con indizi probatori della subordinazione (cfr. , Cass. , n. 6224/2004);
– nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione e, allo scopo della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel particolare contesto, significativo, occorre, a detti fini, far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore (cfr. , Cass. , n. 1536/2009).
Secondo la Suprema Corte di Cassazione la sentenza impugnata, con motivazione priva di elementi di contraddittorietà, aveva riconosciuto, sulla base del contenuto delle esaminate acquisizioni istruttorie, la sussistenza di rapporti di lavoro subordinato, evidenziando l’avvenuto inserimento dei lavoratori nell’altrui organizzazione con la messa a disposizione delle energie lavorative, e tenendo al contempo conto dei cosiddetti elementi sussidiari, rappresentati, fra l’altro, dall’osservanza dell’orario, dalla continuità per alcuni anni e dalla regolarità dei pagamenti.